LA
MIA LIBIA
Piazza
Ammiraglio UMBERTO CAGNI
La
Bengasi che ho conosciuto, senza averla mai vista
di Francesco Caronia
|
Il luogo di
nascita è uno dei dati identificativi di una persona,
ne rivela le origini, la lingua e il dialetto, le abitudini alimentari,
pregi,
difetti e altro ancora.
Quando ho
iniziato a frequentare le scuole elementari, in
tanti hanno scoperto che ero nato a Bengasi, in Libia e abbinando il
cognome,
di chiara origine siciliana, intuivano che i miei genitori erano
emigrati in
Africa per lavoro e lì avevano messo al mondo dei figli. La sconfitta
dell’Italia
nella seconda guerra mondiale, di cui ai tempi delle mie elementari si
conservava un vivo e tragico ricordo, ha avuto come conseguenza
l’abbandono
delle colonie e l’immediato rimpatrio di tutte le famiglie che erano
emigrate
in cerca di fortuna.
Così il mio
luogo di nascita richiamava alla memoria una
triste pagina di storia e i più istruiti mi parlavano di quarta sponda,
colonialismo,
Italo Balbo e tanti altri argomenti dei quali sapevo ben poco.
Un giorno la
maestra mi fece ripetere i numeri arabi da uno a
dieci ed erano le sole parole arabe che conoscevo perché mia mamma
aveva
insistito tanto perché io le imparassi. Ora, naturalmente, li ho
dimenticati.
I numeri arabi
Nel corso degli
anni, di tanto in tanto, i miei parlavano
della loro esperienza vissuta in terra d’Africa, con nostalgia, come di
un’opportunità della loro vita, sfumata a causa della guerra.
Ricordavano la
loro casa, che hanno dovuto abbandonare in tutta fretta, il lavoro che
non
mancava ed era ben remunerato, la convivenza pacifica con gli arabi e
le
bellezze della città di Bengasi dove mia mamma si recava quasi tutti i
giorni,
con la tranvia a cavallo, per fare la spesa.
Infine
la drammatica
esperienza vissuta nei ricoveri antiaerei, soprattutto durante il mese
di
occupazione inglese della città e l’avventuroso rientro in Italia, con
un aereo
militare, quando ormai era persa ogni speranza di poter rimanere.
Io ero il più
curioso dei miei fratelli e spesso andavo a rovistare
fra le poche cose che i miei genitori avevano potuto portare in Italia,
custoditi in una cassetta di legno. C’erano lettere, complete di buste
affrancate con francobolli strani, documenti vari fra i quali l’atto di
acquisto di un terreno a El-Berka,
fotografie e una macchina
fotografica, marca
Ferrania con obiettivo fisso, a forma di un cubo perfetto.
La zona della
città di Bengasi più citata dai miei era piazza
Cagni, ricca di negozi di tutti i generi, dove c’era anche un
laboratorio
fotografico e, nei pressi, il mercato del pesce. Questa “Piazza Cagni”
mi era
rimasta sempre impressa nella memoria.
Bengasi -
Due vedute di Piazza Umberto Cagni
Quando mi sono
trasferito a Torino ho notato che il nome della
città di Bengasi, cui è dedicata una grande piazza, veniva da tutti
pronunciato
“Béngasi” mentre dai miei avevo sempre sentito dire ”Bengàsi”.
Avevano
ragione
i miei ma per i Torinesi quel nome rimarrà sdrucciolo per sempre.
Nel mese di
agosto del 2011 il
quotidiano “La Stampa” riportava la notizia che il fotografo inglese Tim Hethergton, inviato in
Libia durante
la recente guerra civile, e
Peter
Bouckaert, capo di un’organizzazione umanitaria
internazionale, si
trovavano a Bengasi dopo la liberazione della città ad opera dei
ribelli e avevano
avuto la possibilità di consultare alcuni documenti riservati,
custoditi presso
gli uffici della municipalità cittadina.
Tim
Hethergton e Peter Bouckaert
La maggior parte del materiale
riguardava la documentazione delle atrocità
commesse dal regime di Gheddafi nei confronti degli oppositori, con
foto e
filmati di migliaia di arresti e spietate esecuzioni.
Fra gli altri documenti veniva
rinvenuto un fascicolo relativo a fatti
accaduti nel 1941, durante il periodo di occupazione italiana della
Libia.
Forse la scrittura in italiano ha richiamato la loro attenzione.
Detto fascicolo conteneva una
segnalazione dell’Ufficio Speciale della
Polizia di Bengasi alla Regia Prefettura e al Tribunale Speciale in cui
i
fratelli
Nikiforakis,
di origine
greca (cittadini di una nazione amica dell’Inghilterra), venivano
sospettati di
tradimento.
I fratelli Nicola, Leonida e Stati
Nikiforakis, fotografi, gestivano un
negozio in piazza Ammiraglio Umberto Cagni, la piazza principale della
città di
Bengasi e gli affari andavano abbastanza bene anche perché da poco era
stato
introdotto l’obbligo della carta d’identità, con fotografia, per tutti
i
cittadini del Regno.
L’aver letto
“Piazza Cagni” ha
richiamato alla mia memoria i ricordi d’infanzia e con molta attenzione
e tanta
curiosità ho continuato la lettura dell’articolo, scritto dalla
giornalista
Lucia
Annunziata,
che
aveva consultato i documenti di quel fascicolo, pervenuti alla
redazione del
giornale La Stampa. Le accuse di
tradimento nei confronti
dei Nikiforakis non erano tuttavia suffragate da sufficienti elementi
di prova
per cui gli inquirenti italiani non procedevano all’arresto ma
continuavano a
tenerli sotto controllo.
Intanto gli eventi bellici
precipitavano e gli Inglesi, superando le linee
difensive delle forze militari italiane, occupavano la città di Bengasi
e ne
mantenevano il controllo per 56 giorni, dal 6/2/1941 al 3/4/1941.Durante
questo periodo di
occupazione, il negozio dei fratelli greci era
assiduamente frequentato da militari inglesi, per farsi le foto da
inserire sulla
carta d’identità. Il Comando inglese aveva
infatti
concesso ai Nikiforakis l’esclusiva per i
servizi fotografici alle proprie truppe, alimentando così i sospetti di
collaborazionismo.
Dopo 56 giorni, i soldati inglesi,
per motivi strategici, si ritiravano
verso l’Egitto, liberando così la città di Bengasi e l’intera Cirenaica.
Nel fascicolo a carico dei fratelli
greci risultava che il 4/9/1941 erano
stati arrestati in via El Aghib n. 30 e in un altro documento, datato
23
settembre 1941, il capitano dei Carabinieri Giovanni Agrigento, ne
proponeva
l’internamento in un campo di concentramento. Nicola, Leonida e Stati Nikoforais
venivano rinchiusi nel campo di
concentramento italiano di Soluch,
lo
stesso campo in cui, nel 1931, era stato internato e successivamente
impiccato Omar el Mukhar, capo
degli oppositori
libici.
Non si conosce
che fine abbiano
fatto i fratelli Nikoforais ma sappiamo che la foto portata sul petto
da
Muammar Gheddafi, durante la sua visita in Italia nel 2010, era proprio
quella
dell’eroe nazionale libico Omar el Mukhar. Muammar
Gheddafi, salito al potere
in Libia nel 1969, dopo aver destituito Re Idris Al Senussi, è stato
ucciso dai
ribelli libici il 20 ottobre 2011, a Sirte, sua città natale.
Omar El
Muktar e Muammar Gheddafi
In questo quadro di avvenimenti
storici, spesso drammatici, s’inseriscono e
s’intersecano le vicende umane di diverse migliaia di cittadini
italiani,
soprattutto meridionali e veneti, emigrati in Libia in cerca di lavoro
e di fortuna.
Mio
padre, Salvatore
e mia madre, Maria Stella, nel 1937
Le loro testimonianze e la memoria
di quanti hanno ereditato i loro
racconti costituiscono un patrimonio di verità storica e di valori che
non
devono essere dispersi.
I documenti che seguono riguardano
un cittadino italiano, uno dei tanti,
che ha vissuto a Bengasi la drammatica esperienza della guerra e, dopo
aver
sperato invano nella vittoria, ha dovuto abbandonare la propria casa,
ogni
avere e affrontare tanti pericoli per riuscire a raggiungere con la
propria
famiglia il paese d’origine, a qualche migliaio di chilometri di
distanza, in
piena seconda guerra mondiale.
E’ mio padre,
Salvatore Caronia, nato a Paceco
(provincia di
Trapani), nel 1906, sposato con Tartamella Maria Stella, classe 1911,
lo stesso
anno in cui il governo presieduto da Giovanni
Giolitti aveva dichiarato
la
guerra contro la Turchia, per la conquista della Tripolitania e della
Cirenaica.
Una copia della Domenica del
Corriere dell'epoca e Giovanni Giolitti
Il 5 ottobre
1911 era avvenuto il
primo sbarco a Tripoli di un contingente militare italiano, con una
nave scuola
comandata dall’allora capitano di vascello Umberto
Cagni.
Ammiraglio
Umberto Cagni
Come risulta dal timbro riportato
sul "lasciapassare" per le Colonie, il 10
gennaio 1938 mio padre, Salvatore, era sbarcato a Bengasi e dopo
qualche giorno
aveva trovato
lavoro presso un’impresa di costruzioni italiana, impegnata nella
realizzazione
di case coloniche sulla fascia costiera della Cirenaica.
A distanza di un mese, il tempo
necessario per sistemare casa, veniva raggiunto
dalla moglie, anche lei imbarcatasi dal porto di Siracusa e iniziavano
così una
nuova vita, piena di speranze, in terra d’Africa.
Abitavano a circa quattro km da
Bengasi, in frazione El-Berka, in via Ben
Schetuan n. 86.
Una
via del sobborgo di Bengasi, El-Berka
Lasciapassare per le colonie
El-Berka era ben collegata alla
città per mezzo di una tranvia a cavallo
che percorreva via Vittorio Veneto, via Stazione, passando davanti alla
Caserma
Moccagatta e alla Caserma degli allievi Zaptiè,
i famosi carabinieri
libici.
La
Caserma Mocagatta e la Stazione dei treni di Bengasi
Un
carabiniere libico, Zaptiè
La tranvia a cavallo impiegava
circa mezz’ora per coprire l’intero tragitto
e quasi tutti prendevano quel mezzo per raggiungere Piazza Cagni, nelle
cui
vicinanze erano ubicati diversi negozi di vario genere.
Tranvia a
cavallo
Altro mezzo di locomozione era la
bicicletta, in genere usata da mio padre
per recarsi in cantiere al mattino e ritornare a casa la sera o per
raggiungere
Bengasi, quando era necessario. Pochissime erano le auto private in
circolazione.
Bici ed auto
dell'epoca
Il lavoro non mancava e si
guadagnava bene: con la qualifica di muratore di
prima categoria il contratto prevedeva, per la zona di Bengasi, una
retribuzione oraria di lire 3 e 95 centesimi, ovviamente in regola con
le
assicurazioni sociali.
Gli Arabi svolgevano lavori di
manovalanza (in genere lavori che non
comportavano particolari sforzi fisici) e la convivenza con gli
Italiani poteva
ritenersi, in linea di massima, pacifica.
A Bengasi mio padre aveva ritrovato
i genitori, le sorelle Antonietta,
Giuseppa e Caterina e tanti altri parenti, emigrati alcuni mesi prima;
lavoravano quasi tutti e vivevano sereni, in quel mondo nuovo,
aiutandosi l’un
l’altro.
Intanto era
stato introdotto
l’obbligo per i cittadini del Regno della carta d’identità con
fototessera per
cui Salvatore si recava con la moglie a piazza Cagni, presso lo studio
fotografico dei fratelli Nikiforakis.
Il 20 gennaio 1939 (XVII dell’era
fascista) il Comune di Bengasi rilasciava
la nuova carta d’identità.
Carta d’identità
rilasciata il 20/1/1939
Il 10 giugno, sempre del 1939,
Salvatore apriva un conto di Deposito a
piccolo Risparmio, presso la Cassa di Risparmio
della
Libia ed effettuava il
versamento di una modesta somma: sessanta lire. Questa è rimasta la
prima e
l’ultima operazione registrata sul libretto.
Libretto
Cassa
di Risparmio della Libia – giugno 1939
Assieme al libretto, la Banca gli
consegnava una cassettina salvadanaio in
metallo, dotata di chiusura (la chiave la custodiva la banca) e di una
feritoia
per introdurre le monete o banconote di piccolo taglio. Quando la
cassettina
era piena occorreva riportarla in banca per lo svuotamento e
l’accredito della
somma risparmiata sul libretto di deposito.
Il 28 ottobre 1939 nasceva la
primogenita Giuseppa, mia sorella e fu festa
grande quella domenica 3 dicembre 1939 quando fu celebrato il suo
battesimo, presso
la Chiesa parrocchiale del SS. Rosario di El-Berka.
Anno 1939 - Giuseppa Caronia
e la Chiesa parrocchiale di S.S. Rosario di El-Berka
Per la sua tenera età, Giuseppa non
verrà inclusa fra i dodicimila bambini
a cui il regime fascista aveva regalato una vacanza di un mese da
trascorrere
in Italia, per vedere la Madre Patria.
I bambini erano partiti da Tripoli
il 6 giugno del 1940 e dopo pochi
giorni, esattamente il 10 giugno, Mussolini dichiarava guerra alla
Francia e
all’Inghilterra e si schierava a fianco della Germania.
Lontani dai loro genitori, quei
12.000 bambini, invece di un mese, rimasero
in Italia fino alla fine della guerra e non tutti riuscirono, nel
1946-47, a
ricongiungersi con i propri genitori.
Il 28 giugno del 1940 il
Governatore della Libia Italo Balbo
era stato abbattuto col suo aereo mentre sorvolava la
rada antistante la città di Tobruk, a circa 400 km ad est di Bengasi,
perdendo
la vita nell’incidente.
L'incrociatore
italiano San Giorgio ed il Governatore della Libia, Italo
Balbo
Si disse dopo che a colpire l’aereo
di Balbo fosse stata, per errore, la
contraerea dell’incrociatore italiano San
Giorgio che pattugliava il
tratto di
mare tra le città di Derna e Tobruk.
Nonostante la dichiarazione di
guerra, la popolazione civile non avvertiva
ancora eccessivi disagi e Salvatore, il 29 novembre 1940, apriva un
conto
corrente cointestato con la moglie, presso l’Ufficio Postale di
El-Berka,
sicuramente più comodo da raggiungere perché a poca distanza da casa,
sul quale
effettuava un primo versamento di lire 1.000.
Libretto
Postale - Novembre 1940
Contrariamente alle aspettative,
col nuovo anno (1941) si avvertiva un
peggioramento della situazione e, a causa della guerra, aumentavano le
difficoltà per il lavoro e per procurarsi i generi alimentari di prima
necessità.
Durante l’occupazione inglese della
città di Bengasi la popolazione civile
passava sotto il controllo del comando militare inglese ed era
costretta a
vivere rinchiusa nelle proprie case o nei ricoveri, affrontando sempre
maggiori
difficoltà per rifornirsi degli alimenti strettamente necessari alla
sopravvivenza. Soltanto i più
anziani, quando era
possibile, uscivano allo scoperto per procurare del latte per i
bambini, pane o
altri generi che si potevano comprare nei pochi negozi rimasti aperti.
Col ritiro degli Inglesi verso
l’Egitto, la città di Bengasi e l’intera
Cirenaica ritornavano sotto il controllo del Comando militare italiano.
Il successivo intervento tedesco in
Africa, con reparti meccanizzati
comandati dal generale Rommel, diffondeva una ventata di ottimismo sui
futuri
sviluppi della guerra in corso.
Il capo del governo italiano, cav.
Benito Mussolini, molto fiducioso sulla possibile
vittoria finale della guerra, decideva di recarsi in Cirenaica il 29
giugno del
1941, per tenersi pronto ad entrare vittorioso a Il Cairo, in Egitto,
col suo
cavallo bianco. Mussolini
attendeva invano una
ventina di giorni durante i quali i suoi
sogni, invece di realizzarsi, svanivano sempre più e così fu costretto,
il 19
luglio, a ritornarsene repentinamente in Patria.
Benito
Mussolini sul suo cavallo bianco
Intanto riprendevano i
bombardamenti su Bengasi e Salvatore si rendeva
conto della necessità di costruire un rifugio antiaereo dove poter
ricoverare,
soprattutto durante le ore notturne, i propri familiari. Mia madre,
frattanto,
aspettava il
secondo figlio per la fine dell’anno.
Nel giro di poche settimane di duro
lavoro, il rifugio veniva realizzato
non molto distante dall’abitazione, ad una profondità di circa otto
metri ed
era composto da una
rampa d’accesso
e un corridoio
sulle cui pareti erano
stati scavati quattro vani. Tutte le notti si dormiva nel rifugio che
era
utilizzato anche di giorno, quando il suono della sirena d’allarme
preannunciava un bombardamento aereo.
Bisognava anche tenere i documenti
in ordine, nel caso di una improvvisa evacuazione
della città e così mia mamma richiedeva la nuova carta d’identità ed il
Lasciapassare per le colonie, documento sostitutivo del Passaporto,
rilasciati
rispettivamente il 12 e il 13 agosto 1941.
Lasciapassare
per le colonie - Agosto 1941
Il 12 dicembre 1941 nascevo io,
Francesco, dentro quel rifugio, a otto
metri sotto terra. Fui battezzato due giorni dopo, il 14 dicembre,
nella chiesa
del SS. Rosario di Berca, e a questo punto non vi erano più ostacoli
che
impedivano di programmare la partenza dalla Cirenaica e quindi il
rientro in
Italia.
La Prefettura di Bengasi, essendo
stato distrutto dai bombardamenti
l’aeroporto
Benina, aveva organizzato dei convogli di automezzi
militari per
trasferire tutti gli sfollati a Tripoli, distante circa 1200 km.
Donne e bambini avevano la
precedenza, poi gli anziani e quindi tutti gli
altri. Per tutti valeva la raccomandazione di portarsi dietro un solo
bagaglio
a mano.
Mia mamma, accompagnata dalla
cognata Caterina e con mia sorella ed io,
nato da pochi giorni, partivano con un autobus per Tripoli.
Anche i miei anziani nonni erano
partiti nello stesso periodo, ma con altri
mezzi di fortuna.
Il 15 dicembre mio padre,
Salvatore, si recava
presso l’ufficio postale di El-Berka
prelevava 1800 lire e ne lasciava soltanto 200 sul libretto, chissà,
con la
speranza, forse, di poter ritornare un giorno. Non chiudeva neanche il
conto
alla Cassa di Risparmio della Libia dove erano rimasti le 60 lire
iniziali.
Il giorno dopo, caricata sulla bici
una borsa contenente il minimo
necessario, abbandonava la casa di El-Berka e andava a Bengasi dove, in
piazza
Cagni, era prevista la partenza dell’autocolonna per Tripoli.
Trovava posto su un
camion militare e iniziava anche lui il viaggio percorrendo tutta la
via Balbia
alla volta di Tripoli, per ricongiungersi con moglie e figli.
Il viaggio non poteva che essere
molto avventuroso, si viaggiava quasi
sempre di notte, a fari spenti e lungo il percorso solo raramente si
incontrava
un centro abitato o un punto di ristoro.
L’automezzo sul quale viaggiavano i
miei nonni, giunto nei pressi di
Misurata, fu bombardato da un aereo inglese. Mia nonna riportò delle
ferite ad
una gamba e venne ricoverata in un ospedale da campo, assistita dal
marito.
Sullo
sfondo la città di Misurata
Salvatore arrivava a Tripoli fra
Natale e Capodanno e ritrovava moglie e
figli, su indicazioni della Prefettura, presso una scuola che ospitava
tutti
gli sfollati provenienti da Bengasi.
Alle prime ore del mattino del 6
gennaio 1942, gli sfollati, fra cui
Salvatore e famiglia, si trasferivano con automezzi militari
all’aeroporto Castel
Benito di Tripoli per essere rimpatriati in Italia utilizzando gli
aerei
militari.
Il primo aereo decollava con una
dozzina di sfollati a bordo ma dopo pochi
minuti esplodeva in volo, diffondendo il panico fra tutti coloro che si
trovavano in attesa in aeroporto.
Ma non c’erano alternative,
bisognava proseguire nelle operazioni di
rimpatrio dei civili con i velivoli disponibili, anche se carenti di
manutenzione e non perfettamente in efficienza.
Il gruppo comprendente Salvatore
con i suoi familiari e gli altri compagni
di sventura, nello stato d’animo che si può soltanto immaginare, si
imbarcava
su un bombardiere tedesco alla volta dell’Italia, con destinazione
l’aeroporto
militare di Martina Franca, in Puglia.
Durante il volo, per motivi di
sicurezza e forse anche per mancanza di
carburante, il pilota cambiava la rotta e decideva di atterrare
all’aeroporto
militare di Milo, in provincia di Trapani.
Foto del 1937
- Aeroporto di Milo
Nel giro di circa tre ore
Salvatore, dopo aver abbandonato l’inferno
libico, si ritrovava sano e salvo, con l’intera famiglia, a solo
qualche km dal
paese natio, dal quale era partito quattro anni prima.
Bisognava ricominciare daccapo ma,
considerato tutto, era andata bene così.
Mio
padre Salvatore era Presidente dell'Associazione Nazionale Profughi
d'Africa - Sezione di Paceco (oltre 100 iscritti)
********
Appendice
Con lo sbarco degli Americani nel
1943, in Sicilia cessa l’incubo della
guerra che continua ancora per un paio d’anni nel resto d’Italia.
La famiglia di Salvatore cresce
ancora, dopo mia sorella ed io, nascono i
miei fratelli Gino, Nino, Silvio e Nuccia.
Francesco Caronia
|