In
un contesto di rppresentazione letteraria di una
città e di un’epoca precisa – la Tripoli postcoloniale degli anni
cinquanta e
sessanta –, vale la pena di soffermarsi sull’identità complessa degli
scrittori
che verranno analizzati nel corso del saggio: i primi tre, ovvero
Arthur
Journo, David Gerbi e Victor Magiar sono di difficile collocazione.
Scrivono
in lingua italiana, ma sono nati in Libia e
nel Dodecaneso dove le rispettive famiglie sono giunte non nel 1912
(anno della
colonizzazione italiana), ma dopo il 1492, a seguito della cacciata
degli ebrei
dalla Spagna. La loro lingua madre è dunque l’ebraico sefardita, cioè
il
ladino; la lingua parlata nella quotidianità extrafamiliare è invece
l’arabo
tripolino (una versione differente dell’arabo classico), mentre
l’italiano è
innanzitutto il linguaggio dell’istruzione, in seguito la lingua
ufficiale del
paese di immigrazione, infine la lingua della scrittura utilizzata per
le loro
opere. Scelta non casuale, quindi: l’impiego dell’italiano presuppone
una
precisa volontà degli autori di rivolgersi a un pubblico ben delineato
e
probabilmente di salvare dall’oblio vicende sicuramente poco
conosciute.
L’ulteriore inclusione all’interno della mia analisi di un’autrice non
ebraica
come Luciana Capretti ha invece una ragione prettamente metodologica:
mi sembra
infatti necessario utilizzare il suo romanzo come contrappunto, ovvero
come uno
sguardo esterno nei confronti della comunità ebraica di Tripoli.
Capretti, che
ha comunque conosciuto alcuni degli autori citati, mostra quale fosse,
da parte
di chi in Libia era giunto solo dopo la colonizzazione, la percezione
della
comunità ebraica, avvalorando in un certo senso la tesi della
convivenza tutto
sommato pacifica di più culture e della quasi completa libicizzazione
del gruppo di scrittori ebraici locali. Lei stessa,
inoltre, ha un’identità complessa: nata a Tripoli da una famiglia
italiana, è
giunta a Roma nel 1967, ma ha iniziato a concepire e a scrivere il
romanzo Ghibli durante il suo lungo soggiorno a
New York. Evidentemente nel suo caso la distanza (temporale e spaziale)
ha
assunto la funzione di filtro e le ha permesso di utilizzare memorie e
ricordi
d’infanzia senza cadere nel tranello della nostalgia, gettando anzi uno
sguardo
lucido sul proprio passato.
È
forse opportuno riprendere a grandi linee la storia
del rapporto fra musulmani ed ebrei, rapporto fondamentale soprattutto
per gli
autori italo-ebraico- libici. La communis
opinio vede arabi ed ebrei antitetici e nemici per vocazione. Viene
talvolta suggerito che quest’opposizione si possa seguire fino alle
radici più
remote, cioè nei tempi dei patriarchi. Il conflitto tra ebrei e arabi
ha in
realtà origine ben posteriore, sebbene non manchino episodi, anche
nella vita
di Maometto, di conflitti con le comunità ebraiche locali, specialmente
quella
di Yatrib (la futura Medina). Nella
grande conquista araba della penisola iberica nel 711, non pochi
soldati di Tariq Ibn-Ziyad erano ebrei e in Spagna
si consolidò un’importante comunità israelitica. La convivenza tra le
due
religioni (cui si aggiunse, per qualche tempo, anche il cristianesimo)
fu a
lungo buona, se non esemplare. Sarebbe tramontata in Spagna nel 1492,
anno in
cui gli ebrei furono espulsi o costretti alla conversione alla fede
cattolica.
Dato che molti di essi si recarono nell’Africa settentrionale o nel
vicino
oriente, la convivenza con i musulmani ebbe seguito in quelle terre e
sarebbe
durata fino al Novecento. In tutto questo tempo, gli ebrei godettero,
come i
cristiani, dello status di dhimmi,
minoranza monoteista protetta dallo stato in cambio del pagamento di
tasse.
Anche se preferivano abitare in quartieri propri di solito chiamati mellah, in cui si concentravano le loro
sinagoghe (non diversamente dalle odierne comunità di Firenze, Venezia,
New
York o Amsterdam), gli ebrei non furono costretti ad abitare in ghetti,
come
succedeva nel mondo cristiano, né esisteva nei paesi arabi un
sostanziale
antisemitismo, per ricorrere a un termine comunque poco appropriato nel
contesto arabo, trattandosi di popoli di comune origine semita. Per lo
più, gli
ebrei locali condividevano lo stile di vita degli arabi. Per illustrare
la
perfetta armonia può servire quanto ci narra Claudia Roden, scrittrice
di
monumentali libri di cucina, sull’ebraismo egiziano della propria
famiglia.

Fino
alla fine del diciannovesimo secolo gli ebrei
locali e di altri paesi arabi parlavano l’arabo. Si vestivano anche
all’araba
(erano arabi, ma diversi). Le donne indossavano la habara,
gli uomini delle galabie
e caftani con turbanti, papaline e fez.
L’occidentalizzazione ed
emancipazione degli ebrei ebbe inizio con la scavatura del canale di
Suez e la
modernizzazione dell’economia. Nacque una borghesia ebraica, che dopo
aver
frequentato la scuola ebraica proseguiva gli studi dai missionari.
Giocava un
ruolo nel commercio di cotone e nell’esplosione capitalista del Paese
[...]
Erano khawaggat, uomini
occidentalizzati vestiti in abiti con fez. Alcuni viaggiavano da un
villaggio
all’altro in treno. I loro uffici e magazzini si trovavano nei centri
commerciali di Hamzaoui. Cento anni fa, un viaggiatore europeo era
rimasto scioccato
vedendo ebrei che mangiavano cibo non casher
nel bazar. In pratica, la nostra comunità in Egitto non osservava tanto
strettamente le leggi religiose, ma la sinagoga aveva un posto
importante nella
vita. Era un luogo d’incontro [...] Noi frequentavamo pure una piccola
sinagoga
sita sopra una rimessa in un giardino privato del quartiere di Zamalek. Era piena di uomini che si
muovevano come barcollando da sinistra a destra (non avanti e indietro
come i
fedeli dell’Europa dell’Est, ma da sinistra a destra). Cantavano nenie
monotone
con melodie spagnole e canzoni marocchine, siriane e irachene, ma anche
recite
del Corano e canzoni nazionali egiziane...
Alla
convivenza plurisecolare con il mondo arabo è
dovuta anche la discriminazione di ebrei sefarditi nell’attuale stato
di
Israele. I correligionari di origine europea, askenazita, guardavano
(preferisco
usare l’imperfetto, benché siano ancora ben visibili le tracce del
fenomeno) i
sefarditi come gente primitiva, “araba” e non europea. All’inizio degli
anni
novanta, la posizione di un “marocchino” (o iracheno o yemenita) in
Israele non
era molto diversa da quella in Francia o nei Paesi bassi, con la
differenza che
nel caso d’Israele i “marocchini” erano ebrei, e da sempre.
La
comunità ebraica di Tripoli, che risalirebbe
all’epoca del secondo tempio (dal VI secolo a.C.), oggi non esiste più,
ma
consisteva alla fine degli anni trenta di circa 36.000 persone.
Nell’analisi
della produzione letteraria in lingua italiana degli scrittori ebraici
di
Tripoli diversi elementi meritano un’attenzione particolare:
innanzitutto il
plurilinguismo evidente di queste opere, caratterizzate dalla presenza
di
parole arabe, tripoline (una particolare variante dell’arabo classico)
ed
ebraiche. La descrizione della realtà post-coloniale, spesso
accompagnata da
una velata nostalgia, è inoltre utile per comprendere i rapporti
economici
dell’Italia con le sue ex colonie. Ciò è ancora più evidente in Libia,
dove una
guerra civile aspra e lunga accompagnò la conquista italiana, iniziata
nel 1912
con la guerra italo-turca. Durante la seconda guerra mondiale, in cui
il regime
fascista costruì il campo di concentramento di Giado3, parte della
comunità
ebraico-italiana scelse di rimanere in Libia, anche se i rapporti con
gli
autoctoni erano difficili per quanto accaduto negli anni precedenti.
Inoltre,
attraverso la particolare storia della letteratura italo-ebraica, è
possibile
ritrovare quei caratteri di diaspora, cosmopolitismo e plurilinguismo
che
caratterizzano oggi la letteratura della migrazione e postcoloniale
ita- liana.
Gli autori qui analizzati sono contraddistinti da un’identità plurima –
ebraica, italiana, libica – alla quale associano una lingua ibrida e
una particolare
sensibilità per le tematiche multiculturali. Sono infine importanti
perché
mostrano un nuovo tipo di “italianità”, del tutto diversa da quella
monoculturale
e mono-religiosa che ancora oggi alcuni esponenti della classe politica
tendono
a presentare. La migrazione è stata per loro la spinta a scrivere,
poiché tutte
le opere sono state pubblicate in Italia diversi anni dopo l’esodo.
Analizzando
la loro storia si comprende come l’identità italiana si costruisca per
associazione e comunanza e non per esclusione.
La
Tripoli degli anni sessanta, a un rapido sguardo,
non sembra molto diversa dalle contemporanee città multi-etniche:
convivono,
non senza difficoltà, americani, greci, inglesi, italiani e arabi,
cristiani,
ebrei e musulmani. La comunità ebraica vive forse il periodo più
florido: dopo
i pogrom del 1945 e del 1948, con la presa di potere nel1952 da parte
di Re Idris, la situazione sembra assolutamente
calma. Gli ebrei libici sono generalmente benestanti, i loro figli
parlano
italiano e frequentano le scuole italiane, ma nella comunità lo scambio
avviene
anche attraverso una specifica lingua, un miscuglio di arabo tripolino,
ebraico
e italiano. Il moderatismo in politica interna di re Idris aiuta la
comunità,
anche se il clima inizia lentamente a peggiorare: l’ascesa di Nasser in
Egitto e soprattutto la guerra dei
sei giorni del 1967 pongono fine a una
tranquillità solo apparente. Il pogrom di giugno 1967 convince gran
parte della
comunità che è giunto il momento di lasciare la terra natìa; con il
golpe
militare del colonnello Gheddafi nel 1969 per gli ebrei la permanenza
in Libia
diventa impossibile: la migrazione in Israele è proibita, i beni
vengono
confiscati, molti di loro raggiungono l’Italia e solo attraverso di
essa
Israele. La jalaa, la cacciata, con
cui Gheddafi porrà fine alla presenza italiana in terra libica, segna
anche per
l’Italia un momento storico importante: l’attualità costringe
l’opinione
pubblica a ripercorrere gli anni e le atrocità coloniali, di cui i
campi di
concentramento in Libia recentemente scoperti sono solo il dato più
eclatante.
Le navi bianche che portavano gli italiani sulle coste siciliane, in
quello
comunemente conosciuto come “l’esodo dei ventimila”, hanno costretto
l’Italia a
rapportarsi a un vuoto storico: la riflessione critica sulla propria
azione coloniale.
Tale periodo storico
trova un’importante rappresentazione letteraria nelle opere di Journo,
Gerbi e
Magiar. Sono testi molto interessanti anche per il genere letterario
utilizzato, un ibrido fra autobiografia e finzione dove i dati reali
vengono
traslati dall’impianto letterario. Arthur Journo, con il suo Il
ribelle,
traccia un quadro realista e talvolta amareggiato della Tripoli
coloniale e
postcoloniale.

Dallo stile vivace e colloquiale, il libro manca però di unità
narrativa, soprattutto nella parte finale, che assomiglia piuttosto a
una resa
dei conti dell’autore con le persone che lo hanno umiliato. Il testo ha
invece
un grande valore come documento della vita quotidiana in Libia, anche
perché
Journo, non senza ironia, descrive molto bene la Tripoli cosmopolita e
multi-religiosa
degli anni quaranta e cinquanta e non fa mistero delle nefandezze
compiute
dagli inglesi e dai nazionalisti arabi durante il periodo della
decolonizzazione e dell’indipendenza, con espropri e violenze degni del
peggior
colonialismo. Ma dal libro emerge anche la Tripoli degli stabilimenti
balneari,
dei divertimenti come il cinema e lo stadio: alcuni elementi della
capitale
libica, legati con quelli presenti negli altri scrittori, formano una
mappa
ideale di una città scomparsa. Importante è anche il suo messaggio di
ebreo non
religioso, accanito combattente di tutti i fondamentalismi, che non sa
leggere
né l’ebraico né l’arabo (lingue che pure parla con facilità) ma che si
sente
legato a entrambe le culture. L’autore riesce a non cadere mai nel tra-
nello
della nostalgia: la multiculturalità di Tripoli, che nella sua infanzia
costituiva
il tratto più affascinante della città, si trasforma in una semplice
conseguenza dell’imposizione forzata del colonialismo e della guerra.
Non
risparmia critiche, Journo, neanche a Israele, terra promessa molto
virtuale,
soprattutto a causa dei dissidi interni fra gli ebrei sefarditi, ai
quali
appartiene l’autore, e gli askenaziti.
Dello
stesso anno è il libro autobiografico
Costruttori di pace di David Gerbi, che ripercorre le vicissitudini
della
propria famiglia costretta a fuggire da Tripoli e a raggiungere
fortunosamente
l’Italia. Il libro di Gerbi è piuttosto interessante a livello
politico, poiché
propone un parallelismo fra i profughi ebrei in paesi arabi e i
profughi
palestinesi in Israele: in entrambi i casi nostalgia e frustrazione
dominano l’animo
e diventa così difficile stabilire i colpevoli. A livello narrativo è
senz’altro importante il fatto che, pur prendendo in esame un arco
temporale
piuttosto ampio (dalla seconda guerra mondiale fino al 2002, anno in
cui Gerbi
riesce a tornare a Tripoli), tutta l’opera è caratterizzata dalle
sensazioni
dell’autore bambino, quando giocava con amici arabi e la convivenza
sembrava un
fatto naturale. Lo scrittore più maturo di tale gruppo è però
senz’altro Victor
Magiar, discendente da una famiglia di ebrei sefarditi spagnoli che,
cacciata
dalla Spagna nel quindicesimo secolo, peregrinò in lungo e in largo per
l’Europa prima di stabilirsi, all’inizio del diciannovesimo secolo,
nell’Africa
settentrionale. Attualmente residente a Roma, l’autore è nato a Tripoli
nel
1957, in pieno periodo post-coloniale, ma è stato costretto a lasciare
la Libia
a soli dieci anni. La sua opera più avvincente e complessa è senza
dubbio E venne la notte, sorta di autobiografia
romanzata, insieme storia della famiglia dell’autore e delle avventure
dello
zio Leon, personaggio affascinante e contraddittorio. Le vicende hanno
inizio
negli anni trenta e la descrizione della vita sotto il colonialismo
italiano è
molto minuziosa, anche perché Magiar si serve per la sua narrazione di
giornali
dell’epoca e altre fonti storiche, diligentemente citate nel testo. Il
racconto
utilizza un artificio strutturale classico per distanziare il romanzo
dalla
mera autobiografia: pur narrato in prima persona, infatti, il giovane
protagonista (lo scrittore stesso) si trasforma in Hayim Cordoba, nome
che, se
mantiene le origini sefardite dell’autore, porta immediatamente il
lettore su
un piano di finzione e letterarietà. La parte però più inerente al
post-colonialismo italiano, e la più interessante a livello letterario,
risiede
nei quadri iniziali che descrivono l’infanzia di Magiar/Hayim: si nota
sullo
sfondo ancora una volta la Tripoli multiculturale e multi-religiosa,
dove
classi di bambini di razze e religioni differenti si cimentano
quotidianamente
con la diversità imparando a comprenderla, anche affrontandone le
difficoltà a
commentare le vicende.
Non
è facile insegnare storia in una ex colonia. La contesa infatti non è
fra
europei e africani dell’antichità ma fra il colonialismo italiano e la
lotta per
l’indipendenza di questo secolo. Sono forse quei centomila morti, su
una
popolazione di un milione di abitanti, che rendono così sprezzante e
dura la
sempre educata Warda. Da noi pretende molto e approfitta della
circostanza per
ripassare i nomi dei frutti del giardino della scuola: albicocca, mish-màsh; arance, burtugàl; datteri: tamàr. «Cocomero?», e mi guarda. «Cocomero? Io non so cos’è il
cocomero».
Rimangono tutti allibiti. Le maestre incredule cercano una
illustrazione su un
libro, alla fine mi mostrano un disegno. «Ah! Sì, l’anguria!» «Anguria?
È così
che dite a casa?» «No a casa diciamo karpùs». «Karpùs ma che dialetto
è?» «Non
è dialetto, è spagnolo». «Spagnolo?» Sanchez, il mio compagno di banco,
è
scandalizzato. «Ma no, è una parola greca! Si dice karpùzi» ora anche
Ivy mi
tradisce. È l’inizio del caos, tutti iniziano a dire a modo loro il
nome del
frutto della discordia: la bambina americana, Jenny, viene chiamata
alla
lavagna per scrivere il nome del frutto in inglese, in italiano. La
seguono Sanchez
e poi Nàdan che lo scrive in serbo: Ivy sa come si dice in greco ma non
sa
scriverlo. «E in arabo?» Insiste la maestra. «Dellàh» Mazhàla taglia
corto, ma
non è esatto: dellàh è dialetto. Quindi è Sayìda a dare la risposta
giusta:
«batih»
Nelle
pagine riguardanti la descrizione dell’infanzia
tripolina dell’autore, non possono essere taciuti i riferimenti
all’opera dello
scrittore tunisino di origine ebraica Albert Memmi, che nel suo testo
autobiografico La statue de sel
descrive la vita di un giovane ebreo in un paese arabo. Non è un caso
tra l’altro
che il sottotitolo dell’opera, Ebrei in un paese arabo,
che riprende ancora una volta, una volta il
titolo del saggio di De Felice, volutamente non faccia menzione
esplicita della
Libia e di Tripoli, nell’intento di dare un senso di generalità alle
esperienze
di vita delle comunità ebraiche nei paesi che si affacciano sul
Mediterraneo.

Se
nel corso della narrazione, seguendo gli avvenimenti storici, la
convivenza
fra arabi ed ebrei si fa sempre più difficile, l’autore non smette mai
di
avvertire il lettore dei pericoli del fanatismo religioso, anche grazie
agli
insegnamenti della propria famiglia e del padre, capace, pur di avere
un figlio
colto, di non rispettare lo shabath,
il sabato, giorno di riposo tradizionale per gli ebrei, iscrivendolo a
una
scuola pubblica, dove i giorni di riposo erano la domenica cristiana e
il
venerdì islamico.
Il
libro di Magiar ha infine uno scopo ulteriore,
quello di portare testimonianza della lingua degli ebrei sefarditi, il
ladino,
che secondo l’autore è il «vero spagnolo». La maniera in cui l’autore
si serve
del ladino è estremamente giudiziosa e precisa: ogni parola, anche se
perfettamente comprensibile in italiano, viene tradotta per evitare una
resa
scorretta del testo. All’inizio del libro, inoltre, Magiar riproduce in
una
tabella le regole di traslitterazione del ladino, secondo le norme
della National Authority for Ladino and its
Culture di Gerusalemme, non dimenticando di porre accanto ai
vocaboli
traslitterati gli esempi di pronuncia. Tale scrupolo è funzionale alla
narrazione: si evince infatti dal libro che per molti ebrei sefarditi
sia
proprio il ladino la lingua meglio conosciuta e maggiormente
utilizzata, non
l’arabo locale né l’italiano – sorta di lingua franca fra le diverse
popolazioni di Tripoli – e neanche l’ebraico del giovane stato di
Israele,
fatto che costituì addirittura un ostacolo per i sefarditi
all’emigrazione in
Terra santa, dove il ladino non è parlato.
Al
testo di Magiar si collega, per diversi aspetti, il
romanzo Ghibli di Luciana Capretti, finora l’unica donna e l’unica
autrice non
ebrea presente fra gli scrittori postcoloniali di espressione italiana
provenienti dalla Libia, che di Magiar è coetanea (oltre che amica di
famiglia,
poiché i genitori avevano stretto amicizia a Tripoli prima dell’esodo).
Con
Magiar, Capretti condivide anche il fatto di aver dovuto abbandonare la
città
natale Tripoli durante l’infanzia, a soli cinque anni, a causa del
progressivo
peggioramento delle condizioni economiche della propria famiglia che
decise di
rientrare in Italia. Ghibli, titolo che fa riferimento al caldo vento
del
deserto che sembra sommergere la città, è in realtà un’efficace
metafora per
analizzare la situazione della comunità italiana durante la jalaa.
Romanzo corale, la vera
protagonista risulta proprio la capitale libica, che viene trattata
dall’autrice alla stregua di un personaggio, come se avesse una propria
personalità. Ritorna con intensi- tà ancora maggiore l’eco nostalgica
di tante
opere in precedenza analizzate: il mondo multiculturale di un tempo
sembra
svanito per sempre, sotto i colpi di fanatismi politici o religiosi che
devono
certamente apparire privi di senso a chi per anni ha vissuto senza. Le
case
dell’Incis costruite dal fascismo per
gli impiegati statali, il quartiere coloniale della Città giardino, la
Medina,
la gelateria siciliana, Hara, il
quartiere ebraico, le botteghe dei commercianti: Tripoli diventa un
insieme di
luoghi concreti, descritti precisamente, eppure tenuti insieme da un
alone
immaginario, come se non fosse realmente una città a legarli. Diventano
luoghi
di memo- ria e insieme luoghi di immaginazione, che danno forma a una
città
dolce, «come i datteri che maturano lì, come le banane che dall’alto la
profumano». Capretti nel romanzo utilizza la storia della comunità
ebraica come
prisma privilegiato per interpretare quello che a breve accadrà: gli
ebrei, che
erano giunti prima dei colonialisti italiani e che si sentivano in
tutto e per
tutto libici e tripolini, abbandonano la città dopo il pogrom del 1967;
gli
italiani invece non riescono a capire che cosa stia realmente
succedendo. La
loro mentalità ancora coloniale impedisce loro di gettare uno sguardo
lucido
sulla realtà circostante e la conseguente sensazione di invincibilità o
di
impunità si rivelerà come una pessima alleata al momento della cacciata.
Con
Capretti si chiude virtualmente il quadro delle
descrizioni della jalaa, che riprende
in maniera più generale la dinamica della cacciata della comunità
ebraica. Le violenze
del colonialismo non sono state assorbite: le contraddizioni della
società
libica attuale dovrebbero far riflettere sulle conseguenze di tale
rimozione
storica in ambito italiano.
Dal
punto di vista letterario, diventa necessario, al
momento attuale, operare un allargamento del corpus delle opere
postcoloniali
di espressione italiana: ai testi citati degli autori nati in Libia,
vanno
certamente aggiunti le produzioni delle scrittrici e degli scrittori
provenienti dal Corno d’Africa (Igiaba Scego, Ubax Cristina Ali Farah,
Gabriella Ghermandi, Fazel Shirin Ramzanali, Carla Macoggi) e dal
Dodecaneso
(Giorgio Mieli). Ovviamente tale ampliamento presuppone anche
un’analisi
transgenerazionale: autori come Alessandro Spina o Erminia Dell’Oro,
originari
di famiglie italiane stanziatesi nelle colonie, entrano a pieno titolo
nel
corpus postcoloniale allargato, poiché dimostrano come la
post-colonialità,
anche in ottica letteraria, sia una questione complessa e che la
semplice
contrapposizione colonizzatore/ colonizzato non sempre sia efficace per
comprendere tutti i cambiamenti e gli stravolgimenti che hanno
riguardato
certamente più di una generazione. Un post-colonialismo inteso in tal
senso
inoltre aiuterebbe a riflettere sulla nozione di letteratura nazionale,
definizione sicuramente da ripensare (o da riformare) nell’epoca
odierna.
BIBLIOGRAFIA
1 Claudia Roden, The Book of Jewish Food, Knopf,
1996-1997, pp. 21-22.
2 Cfr.
Raniero
Speelman, Ebrei “ottomani”, scrittori italiani. L’apporto di scrittori
immigrati
in Italia dai paesi dell’ex impero ottomano, «Ejos», n. 2, 2005, pp.
1-32.
3 Cfr.
Eric
Salerno, Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di
concentramento
fascista di Giado. Una storia italiana, Il saggiatore, 2008.
4
Arthur Journo,
Il ribelle, Le Lettere, 2003.
5
Storia di un
ebreo profugo dalla Libia, presentazioni di Walter Veltroni, Elio
Toaff, Dalai
Lama e Laura Boldrini, Appunti di Viaggio, 2003.
6
Victor Magiar, E
venne la notte. Ebrei in un paese arabo, Giuntina, 2003, p. 21.
7
Albert Memmi, La
statue de sel, Corréa, 1953 (trad. it. La statua di sale, prefazione di
Albert
Camus,Costa & Nolan, 1991).
8 Renzo De Felice, Ebrei in un paese arabo: gli
ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e
sionismo
(1835-1970), il Mulino, 1978.
9 Luciana Capretti, Ghibli, Rizzoli, 2004, p.
5.
|