Briciole di vita, fatti ed
emozioni di un’italiana nata a
Tripoli
|
“Chiare , fresche e dolci acque…”
Certo,
non sono
Petrarca e le acque erano quelle salate
del mare Mediterraneo, ma sono questi i
versi che mi vengono in mente quando
penso a Tripoli e la vedo come una
creatura di sogno, adagiata fra il blu
del mare e le dune di sabbia rossa e
fine del Sahara.
|
Le
dune di sabbia rossa e fine del
Sahara |
La dolcezza e la
freschezza stanno tutte nei ricordi,
lucidi e vividi; ricordi bellissimi,
legati ad un’infanzia felice e ad
un’adolescenza serena e piena di energia
e vitalità prorompente, di sensazioni
forti ed emozionanti; ricordi della
bellezza di quell’orizzonte infinito, di
quel cielo terso e limpido, così colmo
di stelle che sembrava che fossero a
portata di mano, sensazione unica
che solo
l’Africa
sinora mi
ha
donato.
Nonostante tutta questa ricchezza di
emozioni, di luci e di colori, non
c’è alcuna
nostalgia in me,
forse
perché quei ricordi sono stati offuscati,
direi quasi cristallizzati,
drasticamente strappati da un contesto
più ampio, a causa di una serie di
avvenimenti violenti ed umilianti che mi
hanno ferita e derubata di quella parte
di me che era profondamente radicata in
quella terra; sì, perché Tripoli era
anche mia, lì sono nata come la maggior
parte dei miei fratelli e lì sono
cresciuta sentendo mia, come
chiunque altro come me, la forza dei
luoghi conosciuti e vissuti per i primi
diciannove anni della mia vita.
In quella terra, in quella città, i miei
genitori hanno allevato sei figli, mio
padre ha vissuto una vita di duro lavoro
nel deserto, sospeso fra le dune ed il
cielo a 50° di giorno e sotto zero di
notte. Hanno, abbiamo, vissuto una vita
giusta ed onesta e le gratificazioni che
ne conseguivano erano il frutto di tanto
duro lavoro.
Non ho nostalgia, ripeto, perché non
dimentico l’arroganza e la cattiveria
con cui ci
hanno
sradicato dalle nostre case e derubato
dei nostri beni e perché non c’è nessuno
dei miei amici o parenti che sia rimasto
lì a tenere vivo il mio legame con
Tripoli.
Sono nata nel ’51, anno in cui la Libia
fu dichiarata indipendente, ed i miei
ricordi sono permeati da una sentimento
di forte
appartenenza ad una comunità molto
grande e vivace;
la comunità
italiana in Libia era sicuramente la più
numerosa, arrivando a contare circa
20.000 persone, seguita da quella
americana, inglese e francese.
Della
comunità italiana facevano parte molti
cittadini di religione ebraica e ricordo
che a scuola raggiungevano una
percentuale di studenti molto elevata.
I luoghi originari di provenienza
erano la
Sicilia, soprattutto nei primi grandi
esodi di inizio ‘900, quando la Libia
era un protettorato ottomano e, in un
processo di espansione coloniale, la
Turchia fu sconfitta dall’Italia e
iniziarono gli insediamenti soprattutto
di agricoltori. Altra terra di origine
di molti italiani è stato il Veneto, da
cui provennero tantissimi coloni a cui
erano state promesse
terre da
coltivare nel periodo fascista.
|
L'arrivo dei ventimila coloni
italiani in Libia |
A differenza della
pianura agro-pontina, che fu strappata
agli acquitrini grazie al sacrificio di
tanti contadini morti per stenti e
malaria, gli agricoltori italiani in
Libia dovettero strappare la terra al
Sahara, certo più sano dal punto di
vista delle malattie, ma in condizioni
climatiche spaventose e con un dispendio
di energie inesauribile e continuo.
Aveva un che di
miracoloso vedere quei grandi
appezzamenti di terreno, piantati ad
agrumeti ed olivi, che verdeggiavano
rigogliosi a pochi passi da gigantesche
dune di sabbia rossa.
Il deserto era alle porte, tenuto
quotidianamente a bada come una belva
infida e, non appena queste campagne
sono state abbandonate dopo i fatti del
1970, la sabbia fine e sottile se ne è
riappropriata, stendendo le sue ali
rosse e soffocanti sulle fatiche e sui
sacrifici di generazioni di agricoltori
che non volevano altro che coltivare la
terra sapendo che tanto più
difficile era l’impresa tanto più
gratificanti erano i risultati.
Tutti i loro
guadagni erano reinvestiti nella terra,
non c’erano altri sogni
se non quelli di vivere e morire
in un posto così duramente conquistato a
quella natura selvaggia e meravigliosa.
Oggi ci sono gli sport estremi ma allora
l’impresa estrema era domare il Sahara.
|
Coltivazioni nel deserto |
Tripoli era una
città cosmopolita, multirazziale e
multiculturale, in cui erano ampiamente
rappresentate le tre principali
religioni monoteiste. Durante il regno di
re Idris I, conclusosi con il colpo di
stato del settembre 1969, la convivenza
e l’integrazione erano parte concreta
del tessuto sociale
ed erano sostenute dalla
mentalità aperta e filo occidentale del
sovrano, anche se la differenza fra la
mentalità occidentale e quella araba, da
sempre impregnata da una stretta
osservanza religiosa e da una rigida
divisione dei ruoli maschili e femminili,
portava inevitabilmente a reazioni e
comportamenti che in qualche modo
mettevano in luce un complesso di
inferiorità e di frustrazione da parte
della popolazione libica nei confronti
della comunità occidentale, decisamente
più aperta e disinibita.
|
Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senussi
|
Per capire bene
cosa intendo,
basta
pensare al fatto che,
mentre le donne musulmane vestivano
abiti che lasciavano scoperti solo gli
occhi,(chiamati barracani nella lingua
locale) le donne europee vestivano con i
normali abiti occidentali che,
soprattutto in estate, lasciavano
scoperte ampie zone del corpo ma nei
limiti della più stretta moralità che i
tempi ed i luoghi imponevano.
|
....vestivano
abiti che lasciavano scoperti solo gli
occhi... |
Nelle sale
cinematografiche venivano proiettati
film in cui si vedevano scene di vita di
coppia del tutto normali per gli
occidentali ma impensabili e morbosi
agli occhi dei libici, che già a casa
loro non vedevano più le sorelle nel
momento in cui queste ultime si
affacciavano alla pubertà.
Come se ciò non
bastasse, Tripoli era piena di spiagge,
alcune libere,
altre gestite da Club (golf, tiro
al piattello, ecc) in cui le donne
occidentali prendevano il sole in
costume o, sempre più spesso dagli anni
’60, in bikini;
ricordo ancora con
molto disagio le occhiate che ci
venivano rivolte, che non erano dirette
soltanto ai nostri corpi “nudi” ma ad un
mondo che gli uomini libici vedevano
come lontano ed irraggiungibile.
Da lì a pensare che
tutte le donne occidentali fossero
“facili” era un passo molto breve e
molto spesso questa “certezza” li
giustificava nell’importunare le ragazze
per strada, se capitava che fossero da
sole, ed a molestarle cercando ogni
occasione per allungare le mani e
toccare quella parte del mondo così
aliena, così irraggiungibile ma così
puttana da meritarsi di essere
impunemente palpeggiata.
Con tutta sincerità
ed onestà posso dire che la comunità
italiana ha sempre mostrato interesse,
curiosità e disponibilità all’incontro
nei confronti di quella libica, senza
alcun pregiudizio e quando questi
aspetti erano ricambiati si instaurava
un rapporto di reciproco rispetto, fatto
spesso di visite fra le donne con
scambio di dolci e di cibi tipici delle
rispettive cucine. Ricordo ed ho
rivisto con piacere quei compagni di
classe libici, simpatici, intelligenti e
divertenti, che non hanno mai avuto
timore di entrare in contatto con
mentalità diversa dalla loro e che anzi
ci arricchivano e si arricchivano grazie
alle rispettive diversità.
Un’altra
cosa che mi ha
letteralmente colpito
e che ritengo faccia parte dell’istinto
dell’arabo in generale, è la propensione
innata a lanciare sassi;
spesso vediamo questi lanci
micidiali durante dimostrazioni e
tafferugli che riguardano vari aspetti
della vita di molti paesi arabi, non
solo fra palestinesi ed israeliani, ma
anche nei confronti della loro stessa
gente se in disaccordo per motivi
politici e religiosi.
Succedeva spesso
che, al ritorno da scuola (medie e
superiori), incappavamo in gruppi di
ragazzini della nostra stessa età o
anche più piccoli, che ci prendevano di
mira con fitte sassaiole per cui eravamo
costretti a ripararci nei portoni lungo
le strade finchè non interveniva qualche
adulto autorevole richiamato dalle urla
e grida a far cessare i lanci; era
abbastanza frequente tornare a casa con
lividi, tagli sanguinanti e bernoccoli
doloranti; d’altronde si girava molto a
piedi, non era usuale che i genitori
andassero ad accompagnare o riprendere i
figli a scuola e neppure esistevano
autobus se non su un paio di linee che
dalle spiagge portavano al centro città.
Nel mio caso, mia
madre non aveva la patente (quasi
nessuna donna l’aveva) e mio padre
lavorava nei campi petroliferi in
deserto per cui stava fuori casa anche
per mesi; inoltre, non raccontavo mai
queste cose a casa perché non volevo
creare paure e preoccupazioni
soprattutto in mia madre che era una
donna dal carattere molto forte ma anche
molto ansiosa; era su di lei che gravava
il peso dell’intera famiglia (sei figli
di cui 4 maschi e due femmine)
durante le lunghe assenze di mio
padre e debbo dire che sopperiva
egregiamente alla doppia funzione nel
tenere la disciplina sotto controllo,
anche grazie a sistemi che
avevano poco a che fare con il metodo
Montessori!
A Tripoli c’era il
Circolo Italia, un bellissimo edificio
affacciato su uno dei più bei lungomare
mai visti, illuminato da lampioni in
ferro battuto e fiancheggiato da palme
per chilometri. Il Circolo Italia era
circondato da un giardino lussureggiante
e nei suoi saloni venivano effettuate
tutte le celebrazioni più importanti,
dai ricevimenti di matrimonio alle
conferenze culturali e celebrative di
avvenimenti importanti che riguardavano
tutte le
attività della comunità italiana.
Al Circolo Italia
ho avuto l’onore ed il piacere di
ricevere, dalla 5° elementare fino
all’ultimo anno delle superiori, il
premio dell’Associazione Dante Alighieri
dalle mani dell’Ambasciatore d’Italia in
Libia come migliore studente di Lingua e
Letteratura Italiana. Il premio era
simbolico, si trattava sempre di un
libro ma per me era un tesoro prezioso:
che soddisfazione e quanto orgoglio
negli occhi dei miei genitori che
sapevano appena leggere e scrivere!
|
(Anno scolastico '66/67)
Anna Maria Viscuso premiata al
Circolo Italia dalla Sig.a
Alverà, moglie dell'Ambasciatore
d'Italia in Libia Pier Luigi
Alverà come migliore studente
della Lingua e Letteratura
Italiana |
Proseguendo con
l’argomento scuola, a Tripoli c’erano
quasi tutti i gradi di istruzione
previsti dal Ministero della Pubblica
Istruzione, che periodicamente mandava
dall’Italia
ispettori per appurare il livello
e la qualità di istruzione impartita
agli studenti.
Gran parte del corpo insegnanti
proveniva
dall’Italia, tranne alcune
maestre delle scuole elementari che si
diplomavano alle magistrali a Tripoli e
che potevano accedere all’insegnamento
attraverso appositi concorsi. Per quanto
riguarda le Superiori, c’erano soltanto
l’Istituto Tecnico per Ragionieri e
Geometri ed i Licei Scientifico e
Classico
e quindi le scelte erano un po’
obbligate; molti ragazzi che sceglievano
altri orientamenti andavano a studiare
in Italia e tornavano a casa, accolti
all’aeroporto come star da amici e
parenti, per le vacanze di Natale e
quelle estive. Infine, per chiunque
volesse proseguire gli studi, era
normale trasferirsi nelle città italiane
in cui si sceglieva di frequentare
l’Università.
|
Sciara Mizran - La strada del
Liceo e dell'Istitituto Tecnico |
Le scuole
elementari erano gestite da Istituti
Religiosi: per le bambine c’erano le
Suore Bianche della Madonna della
Guardia mentre per i bambini c’erano le
scuole dei Fratelli Cristiani, per
Elementari e Medie.
Dalle scuole Medie (a quel tempo
esisteva anche il triennio di avviamento
professionale) alle Superiori subentrava
a pieno titolo e grazie ad accordi
interculturali fra i due Paesi, la
Scuola Pubblica Italiana, ed i suoi
edifici e spazi erano considerati
territorio italiano a tutti gli effetti.
|
|
Istituto dei Fratelli Cristiani |
La Madonna della Guardia |
La Scuola Italiana
a Tripoli era un importante strumento di
relazioni fra i vari Paesi rappresentati
dalle diverse comunità presenti; erano
frequenti gli scambi e le visite con la
scuole americana (mai con quelle
libiche) ed i tornei interscolastici
annuali di pallacanestro, pallavolo e
ping-pong. A questo riguardo debbo dire
con orgoglio che le squadre scolastiche
italiane femminili e maschili vincevano
invariabilmente tutti i tornei tutti gli
anni.
Dico con orgoglio perché ogni
nostra vittoria era un punto in più per
l’immagine dell’Italia, e ricordo ancora
con orrore la sconfitta ai Mondiali di
Calcio del 1966 contro la Corea del Sud
che costarono a tutta la comunità
italiana prese in giro insopportabili!
Sotto l’aspetto
sportivo, Tripoli era piena di ragazzi e
ragazze molto dotati in varie
discipline, dall’atletica al nuoto, al
ciclismo e anche alla pallacanestro.
Due dei miei fratelli erano
Campioni della Tripolitania di ciclismo
ed erano talmente forti che il D.T.
della Federazione Italiana Ciclismo,
arrivato
a Tripoli perché a conoscenza di
un grosso vivaio di giovani ciclisti, se
ne interessò.
|
|
Benedetto Viscuso |
Salvatore
Viscuso |
Naturalmente non se ne fece
nulla, era impensabile per i miei
genitori separarsi dai figli e inoltre
uno dei due fratelli aveva una grande
passione per il deserto che sfociò in un
lavoro, nella ditta di famiglia, che lo
portò guida di enormi autotreni fatti
apposta per attraversare il Sahara con
le sue dune altissime ed ingannevoli.
Questi autotreni erano formati da una
cabina di guida e da un rimorchio detto
“piattina” lunghissimo, tutto montato su
gomme enormi, che serviva a caricare le
attrezzature per i campi petroliferi e
quindi sonde, trivelle e quant’altro
servisse a scavare e rendere operativo
un pozzo petrolifero.
Le ditte appaltatrici erano
soprattutto americane ed i loro
dirigenti volevano lavorare solo con gli
Italiani perché eravamo gli unici ad
essere efficienti, instancabili ed
ingegnosi quanto e più di loro.
La Comunità
italiana era molto rispettata per la sua
laboriosità e spirito di iniziativa; i
campi professionali in cui eravamo
impegnati erano molteplici: dall’operaio
specializzato che, al bisogno, creava e
costruiva l’oggetto che in quel momento
era utile e introvabile per eseguire un
lavoro, agli artigiani che erano anche
artisti perché creavano dal legno e dal
ferro delle vere opere d’arte.
Oltre agli operai
ed agli artigiani, fra cui inserirei
alcuni orefici di particolare talento e
creatività, gli italiani lavoravano
nelle ditte, imprese e banche con
incarichi di vario livello.
Poiché eravamo lontani
dall’Italia, dal mondo politico e dai
suoi clientelismi e raccomandazioni, le
persone venivano giudicate e premiate
per i loro meriti e capacità.
La mancanza di impegno e la
cialtroneria erano considerati molto
severamente e chi si “macchiava” di
questi difetti era visto e trattato come
persona non affidabile.
Da un punto di vista etico, il
senso della morale e l’orgoglio di
appartenenza ad una comunità rispettata
come la nostra, impediva che ci fossero
comportamenti scorretti; le trattative
di affari, anche milionari, si
concludevano spesso con una stretta di
mano e nei rari casi di “furbetti” che
contravvenivano a queste regole scattava
un ostracismo ed un isolamento che li
costringeva a partire per altri lidi.
Un cosa importante
da ricordare, per chi pensa che i Libici
venissero trattati male o come categoria
di serie B, era che ogni attività doveva
avere un “prestanome” libico che
percepiva, senza far nulla, una parte
significativa dei guadagni della ditta a
cui, appunto, prestava il nome.
Inoltre, in ogni attività
condotta da occidentali c’era l’obbligo
di assumere uno o più operai
libici, anche solo per fare il tè
o il caffè, cosa che facevano volentieri
tutto il giorno invece di interessarsi
al funzionamento o alla riparazione di
un motore o di qualsiasi altra attività
che si svolgeva in un’officina o in una
ditta condotta da occidentali.
La certezza di percepire comunque
uno stipendio più che dignitoso credo
che abbia azzerato completamente quel
minimo di curiosità e ingegnosità che
ogni essere umano dovrebbe avere verso
il mondo che lo circonda ..!
Nel campo del
commercio, gli arabi avevano una
presenza predominante nel campo della
vendita dei generi alimentari e, a
Suk-el- Turk e Suk–el-Mushir, di
tutti gli articoli più vari che lì si
possono trovare (tessuti, tappeti,
oggettistica locale varia, oggetti d’oro
finemente lavorati in filigrana, argento
altrettanto ben lavorato con tecniche
caratteristiche e iscrizioni coraniche
sottili e stilizzate).
|
Mercato Suk el Turk |
L’attività’ gestita
dalla comunità ebraica era svolta
prevalentemente nel campo
dell’abbigliamento e dei tessuti, di
foggia e moda occidentale; altro settore
era quello dell’oggettistica moderna e
della gioielleria più recente in fatto
di gusti e modelli europei. Erano
presenti anche nel campo impiegatizio
senza alcuna distinzione con gli
italiani di religione cattolica.
La comunità
americana, meno numerosa rispetto a
quella italiana, era formata
principalmente dai militari e dalle loro
famiglie che vivevano nella Base Aerea
di Wheelus Field a pochi km fuori
Tripoli. Era una base molto grande,
quasi una cittadina, con scuole e
depositi pieni di ogni genere di
prodotti di ultima generazione
provenienti dagli Stati Uniti
(elettrodomestici in particolare) ed era
assolutamente autonoma ed indipendente.
Cominciammo ad apprezzare il rock e
tutti i più grandi cantanti americani
prima dei nostri coetanei che vivevano
in Italia perché avevamo a portata di
mano tutti gli ultimi dischi prodotti
negli States.
|
Wheelus Field alla Mellaha |
Quando il
Colonnello Gheddafi cacciò via gli
Americani (furono i primi ad andarsene),
ci fu un colossale ponte aereo
che, oltre a portar via tutti gli
americani presenti in Libia,
naturalmente anche le famiglie dei
dipendenti delle compagnie petrolifere,
provvide, attraverso personale
specializzato, allo smantellamento di
tutti gli edifici all’interno
della base e fu portato via fino
all’ultimo chiodo; portaerei americane
appena fuori dalle acque territoriali
libiche, supportavano logisticamente lo
sgombero totale di cose e persone e
fornivano una tranquillità ed una
sicurezza psicologica che noi Italiani
purtroppo non abbiamo avuto quando
arrivò il nostro turno.
Oltre alla base
militare di Wheelus Field, una grossa
comunità americana viveva a Tripoli nel
quartiere chiamato Giorgimpopoli;
erano le famiglie dei dipendenti
delle Compagnie petrolifere ed anche lì
si viveva uno stile di vita
assolutamente americano: scuole di
lingua inglese e giardini e barbecue
come nelle più classiche immagini che si
vedono in tutti i films americani.
|
Una strada di Giorginpopoli |
Non dimenticherò
mai le sensazioni che provavo, da
bambina, quando entravo in una casa
americana: odore di burro e latte in
crema Nestlè, profumi di dolci appena
sfornati e, naturalmente, l’offerta
immediata agli adulti di una bella birra
fredda in attesa della bistecca in
cottura sul barbecue.Mi colpiva molto
vedere tutte quelle bambine e madri
biondissime, con gli occhi chiari ed i
capelli lisci come spaghetti: noi
italiani eravamo molto belli comunque ma
le caratteristiche fisiche, soprattutto
occhi e capelli, erano decisamente molto
più mediterranee!! Crescendo, ho
provato spesso una punta di invidia nel
vedere queste ragazze adolescenti molto
più libere e disinibite di me, che
andavano tranquillamente alle feste nei
vari club senza l’obbligo di tornare a
casa allo scadere della mezzanotte!! I
miei genitori, come la stragrande
maggioranza dei genitori italiani, erano
molto attenti ai giudizi
della gente sulla moralità e
reputazione dei propri figli e questo
significava inevitabilmente una
possibilità di movimento molto limitata.Anche con la
comunità americana, nonostante il
rispetto reciproco,le affinità
culturali, etiche e religiose, non
c’era, come si potrebbe supporre, una
comunanza di interessi e rapporti
interpersonali che andassero al di là
dei rapporti di lavoro;
un po’ era dovuto al fatto che
per comunicare bisognava necessariamente
usare la lingua inglese (si rifiutavano,
allora come adesso, di imparare altre
lingue e non tutti gli italiani erano in
grado di farlo correntemente).
Mi sono spesso raffigurata il
crogiolo di razze e nazionalità presenti
a Tripoli come una serie di macchie di
olio, più o meno grandi, che
galleggiavano vicine ma senza mai
veramente toccarsi.
Per un bambino,
vivere a Tripoli era come vivere nel
paese delle meraviglie:
si cominciava ad andare al mare a maggio e si finiva ad ottobre, alla
riapertura delle scuole. La vita e le attività erano scandite
dall’avvicendarsi delle stagioni, ognuna
con il proprio fascino anche se
predominavano l’estate ed un inverno
mite. In estate era impensabile svolgere qualsiasi attività
nell’orario che andava dalle 13.00 alle
15.00: chi usciva per strada in quelle
ore si trovava di fronte onde di calore
che deformavano la linea dell’orizzonte
e rischiava seriamente di rimanere con
le scarpe incollate al terreno a causa
dell’asfalto che si fondeva per il caldo
torrido (a me è successo, ma non ricordo
assolutamente come ho fatto a tornare a
casa!). Le abitazioni erano
chiuse ermeticamente per tenere fuori il
caldo e, soprattutto nei balconi delle
case arabe, si vedevano le musharabie,
ovvero grate di legno incrociato e
ricoperto da stuoie che avevano la
doppia funzione di maggior riparo dal
sole durante il giorno e di possibilità
di guardare fuori, senza essere visti
dall’esterno, nella sera.
Un altro
ingrediente dell’estate, molto sgradito,
era il ghibli, vento rovente e
fortissimo che portava con sé enormi
nuvole rosse di sabbia che si infilava
ovunque, negli spiragli delle finestre,
sotto gli usci delle porte e addirittura
fra i denti per cui a volte sentivi i
granelli minuscoli scrocchiarti in
bocca. Il ghibli, o hamsin
come viene anche chiamato perché di
norma dura da uno a cinque giorni, è di
una potenza
incredibile e sposta dune alte
centinaia di metri nell’arco di poche
ore.
|
Il ghibli sposta dune alte
centinaia di metri nell’arco di poche
ore
|
Mio padre e mio
fratello si sono
trovati spesso ad affrontarlo in
pieno deserto ed il pericolo è che
l’autotreno o comunque il mezzo su cui
si viaggia possa venire completamente
ricoperto dalla sabbia se non si usano
determinati accorgimenti. Perdersi nel
deserto oggi sembra impossibile grazie
alla tecnologia di cui si dispone ma
all’epoca si viaggiava senza gps e
spesso i punti di riferimento erano solo
le stelle ed un grande senso di
orientamento; autisti poco esperti hanno
perso la vita perché si sono persi in
quegli spazi infiniti e perché le loro
riserve di cibo ma soprattutto di acqua
non erano sufficienti ad attendere
l’arrivo dei soccorsi. Mio fratello è
stato per me una fonte di racconti
affascinanti sulle sue esperienze nel
Sahara; percorrendo lo stesso tragitto
(non si parla di strade nel deserto)
fatto magari una settimana prima, gli
capitava di imbattersi in grotte con
graffiti preistorici raffiguranti uomini
e animali e rinveniva spesso stoviglie
di quelle ere remote;
alcuni reperti li consegnava al
Museo di Storia Naturale che ha sede nel
Castello di Tripoli ma qualcosa l’ha
tenuta lui: punte di lancia di selce
affilata come appena fatta, dischi di
pietra su cui venivano pestati i cereali
e, naturalmente, una quantità di piante
e pesci fossili.
|
|
Una rosa del deserto |
Il Castello di Tripoli |
Queste grotte e
caverne scomparivano poi nel giro di
pochi giorni ed era impossibile portare
sul luogo archeologi
interessati a studiare quei siti. Nella mia mente ho
sempre pensato che il Sahara sia come
l’Oceano più profondo e che nasconda
tesori favolosi:
forse la grotta di Alì Babà non è
solo una fiaba per bambini!
Alcuni ritrovamenti
erano invece molto tristi; più volte ha
trovato i resti di militari italiani,
inglesi e tedeschi morti e dispersi nel
deserto durante l’ultimo conflitto
mondiale. In quei casi raccoglieva le
piastrine di riconoscimento e le portava
a Tripoli alle rispettive Ambasciate in
modo che ne dessero notizia
alle famiglie di quei poveri
ragazzi.
Poche pietre ammucchiate su quei
resti indicavano che lì si era conclusa
una giovane vita ed era tutto quello che
si poteva fare per onorare la loro
memoria.
*****
Il mese di ottobre
significava la ripresa del’anno
scolastico ed era una festa perché si
rivedevano tanti amici che durante
l’estate frequentavano altre spiagge o
altre compagnie o erano partiti per
trovare parenti in Italia.
Non esistevano i
cellulari ed era abbastanza raro che ci
fossero apparecchi telefonici nelle
abitazioni, quindi l’amicizia era
coltivata da rapporti stretti, da
abbracci concreti e non virtuali, dai
sorrisi che ti mostravano l’affetto o la
comprensione della persona che ti stava
di fronte.
Era tutto più semplice, capire
gli altri era facile, non ci si
nascondeva dietro messaggini e tutti si
assumevano la responsabilità di dire in
faccia quello che pensavano, di
esprimere apertamente anche se con
difficoltà le proprie paure e le proprie
emozioni. Per noi, che non
avevamo neppure la televisione (i
segnali televisivi della RAI non
arrivavano in modo chiaro), le giornate
erano fatte di lunghe chiacchierate in
cui si parlava di tutto, dai perché
della vita ai misteri dell’amore;
l’amicizia si arricchiva continuamente
perché alimentata dalla curiosità e
dall’interessamento reciproco.
Può sembrare
incredibile ma eravamo tutti
completamente ignoranti in fatto di
politica e, nonostante amassimo
profondamente l’Italia al punto da
piangere al suono dell’Inno di Mameli,
sapevamo appena il nome del Presidente
della Repubblica.
Eravamo più informati sui fatti
dei paesi arabi e dei contrasti fra loro
e lo Stato di Israele ma capii
profondamente quanto grave fosse questo
contrasto una mattina a scuola quando un
insegnante libico di storia e
letteratura araba (materie inserite nel
programma scolastico italiano) fece un
gesto che non riuscirò mai a
dimenticare.
Era il giugno del
1967, appena scoppiata la guerra
arabo-israeliana, la cosiddetta “Guerra
dei 6 giorni”. L’anno scolastico stava
per terminare e, durante la pausa di
ricreazione eravamo tutti nel cortile,
alunni ed insegnanti; risate, voci
confuse, brusio come in un alveare
gigantesco dove centinaia di persone
parlavano tutte insieme.
All’improvviso, un
suono ha azzittito tutti, quello di un
sonoro ceffone percepito dai quattro
angoli del cortile; prima stupiti, poi
raggelati, vedemmo un insegnante arabo,
apparentemente rispettabile nella sua
età matura e con la sua barba bianca
che, tutto fiero del suo gesto vile,
aveva strappato la catenina con la
stella di Davide dal collo della mia
compagna di classe , Meri Meghnagi, e la
lanciava a terra con grande disprezzo.
Meri si teneva la guancia colpita e
aveva negli occhi un’ espressione di
puro stupore! Io mi trovavo a pochi
passi da lei e sentivo anche io il
bruciore di quello schiaffo, la rabbia
per quel gesto vigliacco e brutale.
Dopo un attimo di
silenzio irreale, tutti ci precipitammo
chi verso Meri per abbracciarla e,
quasi, proteggerla, chi verso l’essere
paludato nella sua gellabia bianca: i
ragazzi più grandi cominciarono a
spingerlo gridandogli in faccia di
vergognarsi, arrivarono gli insegnanti
per evitare problemi più grossi e infine
arrivò il Preside che gli ricordò, con
aria dura e determinata che quanto
avvenuto era un episodio inaccettabile e
che la scuola era territorio italiano in
cui tutti erano accolti con lo stesso
rispetto, qualunque fosse la loro razza
ed il
loro credo religioso.
Quel gesto era un
presagio di ciò che sarebbe accaduto
anche a noi qualche anno più tardi e ci
fece intravvedere scenari e abissi di
odio di cui non eravamo mai stati
consapevoli. Fu anche l’inizio
del grande esodo delle famiglie ebree, i
nostri compagni partirono tutti, chi per
l’Italia e chi per gli Stati Uniti o
altri Paesi in cui avevano amici e
parenti.
Molti di loro si trasferirono in
Israele dove, un po’ alla volta nel
corso degli anni, so che affluirono
molti amici. A scuola le classi
quasi si dimezzarono, i nostri amici
ebrei erano brillanti,belli,
intelligenti, sani, atletici, onesti,
simpatici, vivaci…… eravamo tutti più
tristi e più poveri, il cuore cominciava
a sentire il peso della realtà ma la
mente si rifiutava ancora di accettarla.
*****
Il tempo passava,
ci si avvicinava alla fine delle
superiori e si cominciavano a fare
programmi su cosa fare “dopo”:…
l’Università…...dove?...che cosa?? Si faceva più
attenzione alla realtà circostante,
cercavamo di essere più attenti alla
politica internazionale, ascoltavamo con
più attenzione i giornali radio che
commentavano le vicende internazionali e
soprattutto quelle concernenti i
rapporti fra Israele e gli Stati Arabi,
incattiviti e furiosi per lo smacco
subito nella Guerra dei sei giorni. Eravamo preoccupati
per i nostri amici, di alcuni si sapeva
che vivevano nei Kibbutz ma erano sempre
notizie frammentarie e incerte.
Finite le superiori
nel Luglio 1969 seguite dalla solita
vacanza estiva, mi preparai a partire
per l’Inghilterra per un anno di studio
e approfondimento della lingua inglese.
Poco prima di
partire, il 21 settembre,
si verifica
in Libia un colpo di stato
incruento che detronizza l’anziano Re
Idris che fugge in Egitto. E’ la fine dell’apertura all’Occidente, si
demonizza tutto ciò che non è l’Islam ma
si chiudono anche le porte ai
sostenitori di Al Qaeda e quindi nessun
permesso per i campi di addestramento ai
guerriglieri di Bin Laden:
Gheddafi è, e vuole rimanere,
l’unico e incontrastato dittatore della
Libia.
|
|
Gheddafi 1969 |
Gheddafi 2009 |
Si torna indietro
di 50 anni, il livore e le frustrazioni
trovano sfogo in atteggiamenti arroganti
e spesso intimidatori.
Per fortuna parto per Londra e mi
risparmio un lungo periodo in cui, fra
gli adulti, cresce l’angoscia anche se
continua a prevalere l’ottimismo.
Ritorno a Tripoli
nel Giugno del 1970 e, dopo un mese,
esattamente il 21 di Luglio, la radio
libica che trasmette in lingua italiana
ci informa che è stata decisa la nostra
espulsione dalla Libia Avremmo dovuto
capire che stava per succedere, le
avvisaglie c’erano state, l’odio verso
gli occidentali era sempre più palpabile
ed il fanatismo e l’impudenza dei libici
era sempre più aperto; l’aria un tempo
profumata di salmastro si faceva sempre
più pesante, come se ci fosse un veleno
a contagiarla e sapeva di marcio. Era solo questione
di giorni,la mente si rifiutava di
accettarlo ma oggi mi appare fin troppo
chiaro che non poteva essere altrimenti
e mi chiedo quali strani meandri
percorra la mente umana per proteggerci
dalla paura, dall’ingiustizia,
dall’inaccettabile.. Ma andiamo con
ordine.
Il 9 Luglio 1970
arrivò la notizia, trasmessa anche in
lingua italiana sulla radio libica, che
gli americani dovevano abbandonare la
Libia immediatamente;lo speaker dava
l’annuncio con aria marziale e
trionfale, in quei toni c’era qualcosa
che mi ricordava tragedie ancora recenti
nella storia del mondo moderno. A distanza di pochi
giorni diedero la stessa notizia per gli
inglesi e giorni dopo toccò ai francesi.
Tutte queste
informazioni terminavano sempre con la
rassicurazione che nulla sarebbe
accaduto ai “fratelli Italiani” che
nessuno ci avrebbe fatto alcun male e
che queste decisioni non intaccavano gli
stretti rapporti di amicizia fra i due
popoli. Queste parole,
ripetute ormai quotidianamente,
iniziarono a preoccuparci: non credevamo
a questo continuo riaffermare tanta
amicizia nei nostri confronti,
cominciavamo a intravvedere la
volontà di assopire le nostre reazioni. Molti ormai
facevano progetti a brevissimo termine,
si cominciava a trovare il modo di
portare fuori dalla Libia i propri
risparmi ma la maggior parte degli
italiani aveva attività in corso e non
liquidi fermi in banca.
In quel periodo
diverse persone, fra i quali alcuni
italiani fino ad allora onesti e
rispettabili, si arricchirono alle
spalle di altri chiedendo interessi da
usurai sulle somme che promettevano di
far uscire dalla Libia tramite canali
del tutto ignoti ai più.
Molti si fidarono e
non rividero mai più i loro risparmi,
altri, i più fortunati, ne rividero il
50%, questo era il tasso richiesto dagli
strozzini
che alla fine arrivarono a
chiedere, e ad ottenere, il 70% delle
somme loro affidate.
*******
E alla fine arrivò
anche il 21 luglio 1970.
Come tutte le
mattine ci sintonizzammo sulla stazione
libica che trasmetteva in lingua
italiana e con grande stupore sentii lo
speaker che leggeva una lista di nomi e
cognomi di italiani, tutti in ordine
alfabetico. Non ci capivo nulla, mi ero
persa la parte iniziale in cui
sicuramente veniva spiegato il perché di
quella lista di nomi in cui riconoscevo
amici e conoscenti.
La mia curiosità fu ampiamente
soddisfatta perchè quella lista e le sue
motivazioni vennero più volte ripetute
nel corso delle successive 48 ore, senza
interruzione:
era la lista di tutti gli
italiani residenti in Libia che
possedevano beni immobili da quel giorno
confiscati: case, terreni coltivati,
magazzini, negozi e via dicendo. In nome della
grande rivoluzione libica e del
Colonnello Gheddafi, finalmente la Libia
si sbarazzava di tutti i parassiti che
da sempre si arricchivano alle loro
spalle ed era giunto il momento di
buttarli tutti in mare, fuori dalla loro
terra!
La loro terra coltivata dagli italiani, asfaltata
dalle ditte italiane, arricchita dal
lavoro degli italiani che con il loro
ingegno ed i loro sacrifici avevano
permesso ad un gruppo di tribù, schiave
sotto gli Ottomani, di diventare un
popolo e vivere da persone libere.
E’ vero, avevamo
invaso quelle terre con la forza quando
ancora non esisteva la nozione di popolo
libico e, in seguito, la II querra
mondiale aveva portato anche là tutti
gli orrori e le atrocità che la
accompagnarono. Ma chi viveva lì
prima, le persone comuni, gli operai, i
commercianti, chi ci è nato, non ha mai
avuto atteggiamenti da colonialista, non
abbiamo portato via ricchezze, non
abbiamo mai approfittato di quella terra
per opportunismi temporanei.
Al contrario, la abbiamo amata e
abbiamo dato tutte le nostre energie per
vederla crescere e prosperare e, con
noi, tutti vivevano e prosperavano in
pace, non c’erano poveri o abbandonati. La solidarietà era
per tutti e dove venivano accolti gli
orfani italiani venivano ugualmente
accolti ed amati quelli arabi.
Il petrolio
nascosto sotto le sabbie del Sahara ha
portato loro la ricchezza ma non la
voglia di civiltà e di progresso. Nelle
case che il regime di Gheddafi ha fatto
costruire per gli arabi che abitavano
fuori Tripoli nelle zeribe (abitazioni
fatte di tende e pellami in cui più
volte Gheddafi si è vantato di aver
vissuto) per dare della Libia
un’immagine moderna, ebbene questi arabi
ci andavano a vivere
malvolentieri, costretti a forza
dalle forze di polizia.In quelle case
continuavano a vivere come nelle loro
zeribe, con gli animali dentro le
stanze, le capre sotto i letti, il bagno
usato come ripostiglio,
mosche che ronzavano a sciami e
si posavano ovunque, negli occhi dei
bambini e degli adulti che quasi non se
ne curavano, le scacciavano con gesto
indolente già sapendo che dopo un attimo
sarebbero tornate.
La civiltà non ha
nulla a che fare con i soldi, è fatta di
cultura, di tolleranza, di apertura
mentale, di accettare il diverso ed il
nuovo e cercare di capirlo.
Per quanto ne so, non è cambiato
nulla da 40 fa, la Libia è indietro di
un secolo come apertura mentale
ed i suoi abitanti, quelli che
all’epoca esultarono per la nostra
cacciata, hanno infine capito quanto
hanno perso.
Me lo ha detto pochi giorni fa un
compagno di scuola libico che viene
spesso in Italia per motivi di lavoro e
per trovare i vecchi amici; c’è
nostalgia nelle sue parole e rammarico
per quello che avrebbe potuto essere e
che non è stato.
Ma torniamo al 21
Luglio, divago molto perché da quel
giorno è stato tutto un susseguirsi
rapido di situazioni ed emozioni che
solo chi le ha vissute può capire.
Oltre alla confisca
di tutti i beni ed attività, ci erano
stati bloccati anche i conti in banca e
quindi, chi non aveva soldi in casa non
sapeva neppure come fare la spesa.
Non eravamo padroni neppure dei
mobili di casa nostra, dovevamo lasciare
le nostre case senza toccare, rovinare o
rompere nulla perché le famiglie libiche
che si sarebbero installate nelle nostre
abitazioni dovevano trovarle intatte.
Rivedo una sequenza
di immagini che sono impresse nella mia
memoria come in un film e che per la
prima volta sto tirando faticosamente
fuori:
il viso di mia madre, quando una
famiglia di libici, a cui era stata
assegnata la nostra casa, venne a
vederla.
Mia madre piangeva
e gemeva, quasi silenziosamente,
accarezzando i mobili della sua casa che
aveva amato e curato e pulito con tanto
amore per tanti anni e che avevano
custodito i nostri vestiti, i nostri
oggetti , i nostri ricordi, una casa in
cui aveva allevato sei figli. Il suo era
un dolore grande, che le ha toccato le
corde più profonde del cuore e della
mente.
La coppia di libici
era in evidente imbarazzo, il marito
evitava accuratamente di incontrare i
nostri occhi mentre la moglie, ad un
certo punto , prese la mano di mia madre
e la strinse forte fra le sue, perché
capiva, perché sentiva il suo dolore
e sembrava volesse scusarsi..
Rivedo il viso
terrorizzato di mia sorella quando un
pomeriggio arrivò piangendo a casa
nostra portando con sé le due figlie, di
cui la più piccola, Ornella, aveva solo
5 anni.
Durante il tragitto, brevissimo,
per venire da casa sua a casa dei miei
genitori, un libico le aveva urlato
contro facendole il segno come di chi
impugna il coltello per tagliare il
collo.
Era fuori di sè, continuava a
ripetere piangendo: ”ci ammazzeranno, ci
ammazzeranno tutti e nessuno verrà a
salvarci” e la soluzione fu che non
tornò più a casa, vivemmo tutti insieme
in quegli ultimi scorci di tempo prima
della partenza.
Nessuno verrà a
salvarci...questo era un pensiero comune
e ricorrente.
Avendo visto
l’imponente schieramento di forze
americano che aveva facilitato e reso
immediato e sicuro l’esodo delle loro
famiglie, in qualche modo speravamo che
ci fosse anche da parte del governo
italiano un intervento drastico, un
monito deciso che impedisse qualunque
pensiero di poter fare di noi quello che
a parole, per strada, minacciavano di
farci. Nulla di tutto ciò,nessun
“arrivano i nostri”, il nostro governo
era talmente impegnato nei sotterranei
della diplomazia che non ci arrivò mai
un messaggio forte e rassicurante per
farci dormire tranquilli.
A pensarci bene,
siamo stati molto fortunati, perché il
fanatismo dei libici,
alimentato quotidianamente da
trasmissioni radio in cui parlavano
degli italiani come di assassini che
avevano trucidato i loro padri per
rubare la loro terra, avrebbe potuto
portare ad una mattanza che in una notte
ci avrebbe fatto scomparire. Anche i
muezzin dalle loro moschee contribuivano
ad attizzare fuochi già accesi, parlando
dei Rumi, così vengono chiamati i
cristiani, come di infedeli che non
conoscevano il vero dio.
Nel frattempo le
nostre Chiese e la nostra splendida
Cattedrale venivano profanate da orde di
musulmani arrivati a “purificare” la
loro terra da un Dio che non si chiama
Allah ma che sicuramente è più
misericordioso.
Oggi la Cattedrale
è stata trasformata in una grande
moschea e nel retro sono ammucchiate
carte e suppellettili varie che
ricordano un passato ancora recente.
|
|
La
Cattedrale ieri |
La
Cattedrale oggi ,
diventata Moschea |
Il peggio paventato
per fortuna non
si è verificato, penso più per la
loro innata vigliaccheria che per la
paura che incutevano le nostre navi da
guerra in rada nelle basi in Sicilia... Se fosse scoppiata
una scintilla, le nostre navi da guerra
sarebbero servite a trasportare in
Patria qualche decina di migliaia di
morti...! Come dicevo,
dovevamo partire ma per farlo eravamo
obbligati a presentare una serie di
documenti che sarebbero serviti ad
ottenere il “Certificato di
Nullatenenza”.
Questi documenti,
scritti in italiano e poi tradotti in
arabo con tutti i bolli necessari,
dovevano attestare che, prima di
lasciare la Libia, non eravamo più
proprietari di nulla, che avevamo pagato
la tassa sul cane (inventata sul momento
e dovevi pagarla anche se i cani non li
avevi mai avuti), la tassa sul balcone,
che pagammo pur abitando a piano
terra…..ecc. ecc.
Non ricordo quante
altre tasse del genere si inventarono,
ma provate ad immaginare migliaia di
persone che contemporaneamente affollano
uffici pubblici per farsi preparare
queste carte in italiano e poi portarle
presso agenzie per farle tradurre in
arabo!! Giorni e giorni di attesa e
cifre da pagare; ormai molti andavano al
Consolato d’Italia o all’Ambasciata per
farsi dare i soldi per comprare il cibo,
per pagare le “tasse” e anche per pagare
il biglietto della nave. Per fortuna mio
padre aveva a casa dei soldi che
dovevano servirgli per una transazione
d’affari mai avvenuta, altrimenti anche
noi avremmo fatto parte della schiera
sempre più folta dei postulanti. Alla fine, dopo una
specie di gioco dell’oca in ci si andava
avanti di una casella e si tornava
indietro di cinque, riuscimmo ad avere
tutta la mole di documenti necessaria ad
ottenere il suddetto “certificato di
nullatenenza”.
Sembrava finalmente
tutto a posto, finalmente potevamo
imbarcarci e lasciare questa terra che
ormai faceva parte di un incubo
infinito...invece no, per presentare
questi documenti all’apposito ufficio
“emigrazione” bisognava mettersi in fila
e la fila era infinita, centinaia,
migliaia di persone in pieno agosto
sotto il sole che, come in un girone
dantesco, giravano attorno all’edificio
in più cerchi e non abbandonavano mai il
proprio posto. Uomini giovani e
anziani, tutti sotto il sole cocente, in
piedi o seduti per terra; le mogli, le
sorelle, i figli che arrivavano con cibi
ed acqua fresca finchè, finalmente,
calava la sera e c’era un po’ di
sollievo nella brezza notturna.
Quando finalmente
si arrivava all’ingresso dell’edificio,
c’erano da fare tre piani di scale,
anche qui tutti ammucchiati sui gradini
per tempi infiniti e quando infine si
arrivava davanti al funzionario libico
incaricato dell’incombenza, poteva
succedere che ti dicesse che il timbro
non era chiaro o che la traduzione non
era esatta...e tutto cominciava
nuovamente!!
******
Mio padre. Evito di
ricordare il suo volto sfinito e
preoccupato, la sua grande forza e
personalità ridotta all’impotenza da
eventi che assolutamente erano fuori da
ogni controllo.
La sua disperazione, che cercava
di nascondere, nel vedere distrutta
un’attività portata avanti con
sacrificio e passione, una vita di
lavoro gettata via, una vita passata per
lunga parte in mezzo al deserto e che
nel deserto era improvvisamente
sprofondata. Lo scoprivo nella
sua fragilità e per questo lo amavo di
più e stavo ancora più male perché mio
padre era stato fino ad allora il perno
su cui ruotava tutta la famiglia, forte
e sicuro come una quercia.
Tutto quello che stava succedendo
era fuori dal suo mondo, era impreparato
ad affrontare tutte quelle pastoie
burocratiche ed era quasi inebetito da
un senso di grande inadeguatezza.
|
Tunisi 1930 - Matrimonio di papà
e mamma |
Inoltre, mi
spaventava tremendamente l’idea che
tutte quelle umiliazioni ed angherie
facessero a pezzi gli ultimi brandelli
della sua pazienza e che esplodesse, nel
suo perfetto arabo parlato, dicendo a
funzionari, poliziotti e militari tutte
le cose che pensava di loro e di
Gheddafi. Proprio in quei
giorni venni a sapere da un’amica che
per presentare i documenti c’era anche
una fila per le donne, molto più breve e
con diritto di precedenza. Prendo la
palla al balzo e, con la decisione e
l’energia dei miei 19 anni, convinco mio
padre che sarei andata io a sbrigare
quelle pratiche, che non c’era da
preoccuparsi perché, davanti a tante
centinaia di persone, non avrebbero mai
osato comportarsi male con una donna.
Riuscita
nell’impresa titanica di convincere i
miei genitori, mi avviai nell’edificio
dove veniva legalmente espletata la
pratica della cacciata degli italiani e,
incredibile ma vero, mi trovo a passare
davanti a tutti, nella fila
dove trovo solo due
o tre donne che mi precedono; gli amici
in attesa mi guardano preoccupati e
sento il calore del loro affetto
protettivo ma
comincia anche a spargersi sempre
più la voce che per la fila delle donne
c’era la precedenza!
Dopo un paio d’ore
di attesa entro nell’ufficio del
funzionario libico, un militare
graduato, non so se maggiore o tenente. Mi riceve con le
gambe sul tavolo e mi chiede in tono
beffardo ed arrogante, parlando in
arabo, come mai mio padre aveva mandato
me e non fosse venuto lui per sbrigare
le pratiche. In quel momento mi resi
conto che non avevo nessuna paura,
sentivo dentro una rabbia che soffocava
ogni altro tipo di emozione e, per
un’incredibile mistero che risiede
nell’area più remota del nostro
cervello, risposi a tutte le domande
parlando in arabo anche io, attingendo a
tutte le nozioni, agli studi ed ai
discorsi in arabo sentiti dalla mia
nascita fino a quel momento. Non avevo
mai parlato veramente in arabo fino a
quel momento se non con poche e semplici
frasi. Risposi che mio
padre stava provvedendo a spiegare i
dettagli della sua attività alla persona
che l’aveva rilevata (!) e che quindi
ero venuta io per velocizzare i tempi. Fra le varie
insulse domande, mi chiese quanti
eravamo in famiglia e se ero sicura che
mio padre non avesse altri figli oltre a
noi!!! Era talmente evidente la voglia
di ferire ed umiliare che raggiunse
l’effetto contrario, mi veniva quasi da
ridere e gli risposi che se avesse
conosciuto mia madre avrebbe capito che
non era una donna con cui scherzare e
che quindi era impossibile che io avessi
fratelli o sorelle sconosciute!
Mi chiese poi,
guardando il mio passaporto su cui
spiccava il visto di rientro
dall’Inghilterra, cosa ero andata a fare
a Londra. “A studiare l’inglese
ovviamente” risposi e,
per sincerarsene o per far vedere
che era istruito anche lui, mi pose
delle domande in lingua inglese alle
quali risposi con assoluta tranquillità
Alla fine,
stanco
di
inutili
punzecchiamenti
che non
provocavano
alcuna
reazione
confusa o
spaventata
da parte
mia, mi
disse in
perfetto
italiano
che
potevo
andar via e
che era
una
fortuna
che
tutti
i
documenti
fossero a
posto.
Salutai
educatamente ed uscii da quell’ufficio
sentendomi sul collo uno sguardo
penetrante e solo quando uscii
dall’edificio mi resi conto che l’incubo
era terminato, avevo finalmente ottenuto
il Certificato e potevamo partire senza
problemi!!
|
Anna Maria Viscuso anni
'70 |
*****
Nel frattempo, la
situazione a Tripoli era precipitata dal
punto di vista della vita di tutti i
giorni ed anche i libici cominciavano a
sentirne le conseguenze.
Era passato neanche un mese da
quando tutte le attività degli italiani
erano state chiuse: negozi, officine,
magazzini, ma sui bordi delle strade già
cominciava ad aumentare il numero delle
auto ferme perché non c’era nessuno in
grado di cambiare una batteria,
sostituire una candela, cambiare un
fusibile, senza parlare di problemi di
meccanica o elettrici.
Si arrivò al paradosso che, non
potendo aggiustare l’auto, ne
acquistavano una nuova!! Eppure avevano
anche loro lavorato nelle stesse
officine dove lavoravano i meccanici o
gli operai italiani ma non si erano mai
preoccupati di imparare, preferivano
fare il tè tutto il giorno tanto lo
stipendio lo prendevano ugualmente!
Il massimo
dell’impegno era smontare un motore, ma
rimontarlo neanche a parlarne!!
Nel giro di pochi
giorni la situazione divenne
insostenibile: negozianti libici di
generi alimentari dove normalmente e
quotidianamente si andava a fare la
spesa, che ci invitavano, ricambiati,
alle loro feste di matrimonio e con cui
ci si scambiava gli auguri nelle
festività e nelle nascite,
all’improvviso si rivolgevano a noi con
sguardi incattiviti, alcuni addirittura
facevano finta di non capire quando
parlavamo in italiano. Incredibile!
Erano persone amiche, che conoscevo da
quando ero nata, avevo giocato con le
loro figlie, le madri si conoscevano e
si scambiavano i piatti di cuscus e di
dolci. Sempre più mi
immedesimavo nei miei amici ebrei, in
tutti gli ebrei scomparsi
nell’Olocausto, nel genocidio degli
Armeni accaduto sotto gli occhi di tutti
e taciuto, ancora adesso, per motivi
politici. Noi non eravamo in guerra, ma
eravamo degli indesiderati in una terra
improvvisamente straniera ed ostile e
così entravamo a far parte di quella
categoria di persone abbandonate a sé
stesse.
Finalmente arriva
il momento della partenza, non ne
potevamo più di stare chiusi a casa e di
uscire solo per fare la spesa nel
negozio accanto a casa; per motivi di
sicurezza evitavamo di lasciare la casa
e le famiglie vivevano spesso riunite
nella casa dei genitori.
Ma non era finita,
non ancora!
Ricordo benissimo
la notte prima di partire, a letto al
buio con gli occhi spalancati perché la
testa era piena di pensieri confusi. Il
futuro
era un grosso punto interrogativo
al quale i più giovani guardavano
comunque con ottimismo ma per gli
anziani era solo un vuoto senza
speranza, perché quando l’età non ti
consente di fare progetti ci si trova a
non avere un futuro dopo aver perso il
passato.
Alcuni non ressero allo stress
psicologico: arrivati in Italia soli e
senza soldi, ormai in età avanzata,
preferirono il suicidio all’umiliazione
di un’esistenza stentata e poco
dignitosa.
La notte prima della
partenza era anche particolarmente calda
ed afosa, l’umidità nell’aria era
altissima ed impediva di rimanere fermi
per più di un minuto nella stessa
posizione; all’improvviso, dalle
finestre semi aperte si cominciarono a
sentire voci concitate, la gente si
cominciò a riversare nelle strade sempre
più numerosa, tutti in pigiama,
calzoncini e sandali: era scoppiato il
colera nel vicino Egitto e c’erano stati
due casi anche in
Libia! Bisognava correre
in tutte le strutture autorizzate e
farsi iniettare il vaccino anti-colera
altrimenti l’indomani, anzi, dopo poche
ore, non saremmo potuti partire senza il
certificato che attestava l’avvenuta
vaccinazione. Cercare di
descrivere l’agitazione provocata da
quella notizia è impossibile, sono
sicura che neanche il più bravo dei
registi possa mai inventare tutti questi
colpi di scena!!
Tutti insieme, e
intendo la nostra famiglia ma anche
migliaia di altre persone, andammo al
presidio medico più vicino dove, in
condizioni igieniche indicibili, venimmo
tutti vaccinati a velocità vertiginosa;
ricordo che nel trambusto che accompagnò
quelle ore e soprattutto subito dopo
l’iniezione del vaccino fatta sul
braccio in modo brutale, quasi svenni ma
fui subito tenuta in piedi da mia madre
e mio fratello che mi sostenevano sui
due lati e ricordo che mia madre mi
diceva:”Non svenire per carità, ci
stanno guardando, penseranno che stai
male o che hai il colera e non ci
faranno più partire”.
Questo servì a farmi superare
l’attimo di vertigini, non avrei
sopportato di rimanere a Tripoli un
giorno di più! Dopo poche ore, preparati
i bagagli nel numero massimo consentito,
ci dirigemmo al porto per espletare le
formalità prima dell’imbarco.
Era il 20 Agosto
1970, avevo compiuto da poco 19 anni e
già avevo vissuto una serie di
esperienze
così forti
che tanti non faranno mai
nell’arco di una vita intera. Ho ricordi confusi
di quel giorno, ero esausta ed il caldo
al porto era feroce, alleviato solo da
una leggera brezza.
Nessuno aveva voglia di parlare
ed il mio braccio, quello del vaccino,
era gonfio e dolorante.
Credo di ricordare
che la nave su cui ci imbarcammo fosse
la “Sicilia” ma non ne sono sicura.
I nostri bagagli furono aperti e
rovistati con puntigliosa malagrazia e
fu faticoso riporre nuovamente tutto per
bene, in modo da poter richiudere
nuovamente le valigie. Alcune persone
furono perquisite; un’amica di mia
madre, persona molto mite e riservata,
fu portata dentro un ufficio, fatta
denudare da una donna poliziotto e
perquisita in modo approfondito. Pianse
a dirotto per ore per la vergogna e
l’umiliazione, aveva oltre 60 anni e
nella sua vita era stata toccata solo da
suo marito.
Ci imbarcammo
finalmente
nel tardo pomeriggio e ricordo
che la nave partì salutata da un
tramonto grandioso ricco di tutte le
tonalità del rosso. Ho rimosso
completamente quei momenti, non ho
memoria di facce o volti conosciuti che
viaggiarono con noi su quella nave. Di
sicuro c’erano i miei genitori ma
proprio non riesco a ricordare altro, lo
shock fu tale che mi cominciai a
riprendere almeno un anno dopo, a Roma,
dove mi sembrava comunque di vivere,
all’inizio, su un altro pianeta a me
sconosciuto, con persone che ragionavano
e parlavano di cose del tutto inedite.
Eravamo diretti a
Napoli, dove arrivammo la mattina di due
giorni dopo ma fummo fermati al largo
dalla guardia costiera..
Altro colpo di
scena! Eravamo in quarantena!!!
Per tutto il giorno
ci fu un viavai di motovedette e la
situazione cominciava a precipitare
perché la nostra pazienza era veramente
giunta al di là di ogni sopportazione:
eravamo stati cacciati dalle nostre case
e venivamo accolti come appestati dalla
nostra Patria!! Era veramente troppo,
pur capendo i motivi che avevano portato
a quella decisione non eravamo in grado
di accettarli ed il Comandante della
nave molto sensatamente
chiese l’intervento delle
autorità sanitarie perché controllassero
i documenti comprovanti l’avvenuta
vaccinazione e verificassero
personalmente la possibilità che ci
fossero a bordo persone all’apparenza
poco sane. Anche nel porto di
Napoli nel frattempo si era radunata una
grande folla, amici e parenti in attesa
di riabbracciare i propri cari ma anche
giornalisti ed uomini politici ansiosi
di apparire in prima pagina; anche al
porto la situazione cominciava a
scaldarsi e cominciavano a volare parole
grosse dettate dalla rabbia e
dall’esasperazione.
Nel tardo
pomeriggio di quella lunghissima
giornata, finalmente arrivarono a bordo
dei medici e autorità varie per
controllare che tutti fossimo in regola
ed in buona salute; espletate queste
ultime formalità, la nave attraccò al
porto di Napoli, salutata da un
lunghissimo applauso, uno dei pochi
ricordi chiari che ho e che ancora oggi
mi commuove.
*****
E così iniziò la
diaspora degli Italiani di Libia, la
maggior parte sparpagliati nelle varie
città italiane ma alcuni ripartiti per
posti lontani: Australia, Canada, Stati
Uniti e, naturalmente, Israele. Grazie ad
Internet, a Facebook
e ad alcuni siti dedicati ai tripolini,
ci si tiene in contatto ed ogni tanto ci
si incontra ancora, nonostante siano
passati quasi più di 40 anni.
|
Roma 2013 -
Anna Maria Viscuso
al raduno ex-lali di
Libia |
Anna Maria Viscuso
|