La stanza  did Tonino Virone


Tonino Virone



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I primi trent'anni

di Tonino Virone

 da Testimonianze

 

Una strana “creatura culturale”

 

Essersi impegnato a ripercorrere la storia, numero per numero, per i primi cinquant’anni anni di “Testimonianze”dal suo primo fascicolo del lontano 1958 – e poi di essermi quindi concentrato nell’analisi del primo trentennio, come quello più misconosciuto e dimenticato - non è certo cosa che mi ha lasciato “indenne”. Nel senso che mi ha coinvolto ancora più di quanto non pensassi. Anzitutto perché anch’io ho fatto parte di questa “cosa” dal 1981, con periodi di collaborazione frequente, alternati a pause più o meno lunghe: ora ero in una di queste ultime, prima che Severino Saccardi mi “sfidasse”, assieme a Maurizio Bassetti (conoscendomi in questo molto bene, perché non resisto alle sfide, soprattutto quando appaiono strane e impossibili, ma abbiano un senso e un respiro non effimeri). Oltre quindi a sentire di fare anch’io parte di questa storia - e quindi di vivere una sorta di nostos, mi sono trovato catturato in una progressiva immersione come dentro un giacimento sempre più profondo, fatto dei materiali più vari e inaspettati. Dopo ogni immersione, ho via via iniziato un qualche primo stoccaggio dei materiali che avevo rilevato, ma con la netta sensazione che, alla successiva immersione, la sistemazione dei vari frammenti avrebbe preso una piega più complessa, e così è stato fino alla fine. E ancora adesso, a bocce ferme, questi appunti, fotocopie, sono comunque là a interrogarmi un po’ beffardi, e se poi mi guardo dal basso in alto la teoria di tutti questi tomi rossi racchiudenti ognuno un’annata della rivista, davvero “per poco il cor non si spaura”…

Il fatto è che spesso ci dimentichiamo che una rivista culturale, o socio-politico-culturale - anzi ancor meglio, questi “quaderni di spiritualità”, secondo l’occhiello con cui si sono autodefiniti per i primi anni - non è un puro parto dello “spirito”, ma è fatta di carne, sangue, nervi, viscere, e queste carni, sangue, nervi, visceri, sono quelli di tutti coloro che vi hanno partecipato. Ora, se questo è avvenuto – e avviene- per mezzo secolo, e se si pensa che questi cinquant’anni si collocano negli anni 50, 60, 70, 80, 90 del “secolo breve”, e si sono già affacciati nel primo settennio del duemila (quando, dopo il “secolo americano”, si parla ormai del “secolo cinese”), beh, allora è impossibile che un po’ di storia, anche quella con la S grande, non si sia impigliata in queste pagine. Prima di dare conto in una sorta di guida ragionata delle importanti collaborazioni in questi primi 30 anni, e contemporaneamente seguire la tracce del suo percorso, giova pensare le condizioni materiali e le “risorse umane” con cui, e su cui, è nata questa rivista.

 

Le origini

In principio si trattava di un prete trentenne con attorno una serie di coetanei e di giovani under 30, alcuni ancora impuberi. Il luogo era Via Gino Capponi non lontano dal Convento di San Marco, dove, in una sua “cella” abitava l’uomo ispiratore iniziale di tutta questa cosa, il mitico Giorgio La Pira.

Non si può capire come è nata “Testimonianze”, se non si comprende l’influenza culturale, politica, psicologica che questo omino, apparentemente soave, ma intellettualmente fiammeggiante, ebbe nel primo quinquennio degli anni 50, innanzitutto su Ernesto Balducci, e contemporaneamente sui giovani che costituirono il nucleo iniziale della rivista.

Certo può essere singolare riflettere che la rivista - come nelle migliori “ouverture” ad un’opera dove ne è già proiettato il destino saliente - se si va a ben vedere, nacque dall’incontro proprio di due “migranti”, di certo stranieri rispetto alla borghesia e all’aristocrazia fiorentina: il figlio di un angolo remoto della già remota provincia ragusana (che da studente universitario si guadagnava da vivere vendendo le “calmine”[1], e che all’inizio non capiva le battute e i doppisensi dell’esprit florentienne), e il brusco figlio del minatore dell’Amiata, che da ragazzino aveva fatto il fabbro e che aveva il complesso di essere un privilegiato, perché egli aveva potuto studiare e, come prete, era scampato alla guerra, mentre i suoi compagni erano stati partigiani e lavoravano nelle miniere, e in qualche modo voleva “scontare” questo suo privilegio dedicandosi a cause importanti per gli “ultimi”, da cui in qualche modo sentiva di provenire.

C’è da osservare che i fondatori, costituenti il primo nucleo della redazione e comunque degli amici di “Testimonianze”, avevano la consapevolezza di essere un’élite, un’avanguardia, in quella Firenze che era stata agitata dal ciclone la Pira, e questo ciclone dava loro l’abbrivio iniziale. Oltre a Balducci, basti pensare al valore che hanno avuto, ed hanno, nei più vari campi della cultura, del giornalismo e/o della politica, uomini, allora tutti giovani (e a volte molto giovani) come Mario Gozzini, Danilo Zolo, Vittorio Citterich, Lodovico Grassi,Giampaolo Meucci, e poi, subito dopo Pietro Bellasi, Luciano Martini, Carlo Prandi, Arnaldo Nesti, e al sodalizio e collaborazione fin dall’inizio, oltre che con La Pira, con figure quali Achille Ardigò, Arturo Paoli, Mario Rossi, Giovanni Michelucci. Le note bio-bibliografiche di ciascuno - presenti in questo lavoro - serviranno a chiarire meglio il quadro.

Ma ancora , i suoi fondatori avevano la consapevolezza del ruolo moderno che doveva assumere la rivista: doveva essere un luogo di riflessione e di elaborazione culturale, ma anche uno strumento con cui fare “pubblica opinione”. Vengono in mente, prima ancora di quelli del primo ‘900 e del dopoguerra, gli ascendenti più antichi, illuministi e poi risorgimentali sia a Milano che a Firenze, con cui nacquero le riviste italiane”impegnate” come “Il Conciliatore”, “Il Caffè”. Con questi antecedenti c’è una certo eco, come un’aria di famiglia, non ideologica, ma di metodo (come anche un’eco papiniana, nel tono e nel linguaggio ardente, percorre non solo gli scritti di Balducci, ma la “temperatura” e lo stile della rivista fin dai suoi inizi): nel senso che più che una rivista autoreferenziale con un accademismo erudito - o in esclusiva dialettica con le varie forme di potere - si voleva arrivare a costruire uno strumento, certo molto ben attrezzato culturalmente, ma soprattutto rivolto alla società civile. E “Testimonianze” faceva opinione, perché veniva molto letta: fino agli anni sessanta si parla di oltre 10.000 abbonati, più tutto un bacino di utenza molto più allargato. E la rivista non solo veniva letta, ma interagiva in modo vitale e diffuso con il suo pubblico, che era non solo, e non precipuamente di addetti ai lavori, ma anche in maggior parte di giovani. C’è, in merito una ricerca sociologica sui lettori di “Testimonianze” effettuata all’inizio del ’68: il 22% sono giovani tra i 20 e 30 anni; il 58% tra i 30 e 40 anni, e non sono solo credenti o chierici: questo pubblico scriveva lettere alla rivista, in una rubrica molto viva, ponendo questioni, critiche, osservazioni, proposte. E in fondo a questa introduzione si approfondirà meglio la natura e la valenza di queste lettere, un autentico patrimonio della rivista.

Contemporaneamente la rivista riusciva ad attivare dibattiti e confronti, e a sollecitare contributi, con interlocutori di prima importanza sia nazionali che internazionali: notevoli le dispute e i dibattiti con “Il Ponte”, “Civiltà cattolica”, e poi con “il Manifesto”, “l’Unità”, “Mondo operaio”, e con Von Balthasar, Danielou, Capitini, Baget Bozzo, Girardi, Ivan Illich, tra i tanti. Gli autori elaboravano di prima mano saggi importanti appositamente per la rivista, a volte bozze inedite per pubblicazioni future, come è accaduto con il futuro papa Ratzinger, qui presente già nel 1970, e poi commentato varie volte fino agli anni 80, nei suoi documenti relativi alla teologia della liberazione.

Con tutti i suoi limiti, con il suo incerto avviarsi, con le sue inesperienze, certo è che “Testimonianze” ha sicuramente anticipato di un quinquennio le problematiche del Concilio, e, almeno fino agli anni sessanta, ha costituito un riferimento per una “concorrenza” qualificata sia laica che cattolica come “Il Mulino”, “il Gallo”, “Il Tetto”, e tutte le altre riviste del genere che poi si sarebbero venute strutturando in Italia.

 

Gennaio 1958

L’editoriale con cui proprio Balducci, nel gennaio del 1958, apriva il primo fascicolo di “Testimonianze”, esprimeva subito il clima di fermento che animava i promotori. La linea guida è appunto l’incipit “capire i tempi è segno di saggezza”, e quanto di seguito si dice ricordando che “sembrò che lo spirito santo soffiasse in modo impetuoso, dilatando l’ardimento cristiano fino alle soglie della rivoluzione sociale”, e pur avendo contemporaneamente piena coscienza di questa “rivoluzione” operata già dal loro ispiratore sia nella Chiesa che nella politica - dove un sindaco posto dalla DC in funzione anticomunista, si era mosso a sostegno, di lotte operaie e occupazioni delle fabbriche, fianco a fianco con le organizzazioni dei lavoratori - c’era in quel fondo di Balducci, come la premura (e la cura) di riaffermare una strenua fedeltà alla Chiesa, e c’è l’iniziale dichiarazione di fede e di ortodossia, per la quale “un cristiano è veramente tale sol quando arriva comprendere che la Chiesa non minaccia piuttosto genera libertà... Essa giudica tutto…Il cristiano che volesse giudicarla già per questo ne sarebbe fuori…”.

Nel fondo si parla al passato di questa rivoluzione, e parrebbe inizialmente una sorta di “addio alle armi”, in cui i giovani che promuovono la rivista “hanno avuto il coraggio di ripiegare in fondo dell’anima i sogni di un audace attivismo”, un anelito quasi sopìto, e si affaccia il senso nemmeno troppo velato di una sconfitta politica di questo “soffio” emesso da La Pira, dove “in lui…e nei giovani che gli furono vicini… prorompeva in modo inusitato e perciò scandaloso,una cattolicità non adatta … (alla) prudenza politica. Era fatale che un testimonianza come quella… venisse respinta e riassorbita”.

Ma che in realtà questo fosse soprattutto l’esordio prudente, la scelta di iniziare volutamente a fari spenti, o comunque attenuati - e di “coprirsi” un poco - piuttosto che un “wishfull thinking”, e che un certo fuoco covasse subito sotto le ceneri, emerge immediatamente nel successivo capoverso: “ma qualcosa è rimasto nell’animo dei giovani”, anche se il tutto sembra proporsi in un abbandono della politica a favore del “primato della contemplazione”, “in una meditazione corale dove circoli il calore di un solo entusiasmo e la luce di una sola verità” (sic).

Sembrerebbe a prima vista un’ incongruenza vistosa, quest’origine della rivista, se la si confronta con quello che poi lungo cinquant’anni la caratterizzò, innanzitutto come foglio del dissenso cattolico, e poi rivista laica tout court, espressione di un pluralismo senza connotazioni esclusive di credo e ideologia - e anche e soprattutto per le posizioni di Balducci, sempre più radicali e insofferenti alle gerarchie ecclesiastiche e al potere, persino rispetto al Don Milani di “l’obbedienza non è più una virtù”.

Ma in realtà, se si va a ben vedere, è proprio la natura di questo primo editoriale che ci dà la chiave di lettura, e il fascino, di un percorso in cui nulla era programmato, e nulla scontato. Nell’ordinare il materiale antologico ci siamo resi conto della difficoltà di dividere per temi i saggi dei primi anni, giacché tutto questo in “Testimonianze”, alle origini, e per decenni, era davvero indistinto, e le istanze religiose e di osservanza mistico-contemplativa erano già scosse da un fervore del fare, dell’impegnarsi proprio in quella politica, che programmaticamente si aborriva; che l’obbedienza ecclesiale entrava in attrito col farsi società civile, laica; che la sintesi teologica vedeva pararsi davanti le relatività e le molteplicità anche contraddittore degli spazi planetari e antropologici, e che un intervento di La Pira era difficilmente classificabile negli “Idealtypus” della polis, della religione, dell’uomo planetario, dell’antropologia, perché includeva tutte queste componenti, e così quelli di un Arturo Paoli, Giuseppe Dossetti, Aldo Capitini, Jean Danielou, Gianni Baget -Bozzo, Chenu, Balthasar, MertonCarlo Maria Martini, e via via dei numerosissimi e prestigiosi uomini di Chiesa e laici, nazionali e internazionali, che sono intervenuti in questi fascicoli. E questo intreccio non si è sciolto così facilmente, se ancora lo stesso Balducci iniziava in varie puntate negli anni 80 un tema a titolo “per una teologia politica”, o un altro dei fondatori della rivista, Mario Gozzini, alla vigilia della sua elezione a senatore indipendente nel PCI, indirizzava, a metà anni settanta, una “lettera aperta ai vescovi italiani”, in cui, consapevole per la “sofferenza” e lo “scandalo” inflitto loro dalla sua opzione, confermava che li riteneva “maestri di fede (sua), ma non di scelte politiche”. Diciamo che per almeno i primi trent’anni, al di là delle affermazioni di principio, per la rivista avviene un processo paragonabile a un vero e proprio sviluppo embriologico dove, da una cellula indistinta, via via si è arrivati a una progressiva differenziazione dei temi e delle funzioni, e contemporaneamente, in vario modo, è rimasto latente qualcosa di questo intrecciarsi di fede e politica, di ricerca di identità e comparazioni antropologiche e multiculturali, una complessità che era anche la radice costituente del suo originario e più lontano ispiratore, La Pira.

 

Posizioni controcorrente e analisi anticipatrici

L’altro elemento di grande interesse nell’immergersi soprattutto nel primo trentennio della rivista, è che si ha anche la possibilità di seguire lo sviluppo, i sussulti, le contraddizioni di un tipo particolare di gruppo intellettuale a dominante cattolica che, nato attorno a un’esperienza potremmo dire di non disincarnata“contemplazione” (la Firenze lapiriana), si è calato sempre più nell’agone culturale, sociale, politico, attraversando la stagione del Concilio e delle sue spinte propulsive e speranze, e poi il momento della “scelta di classe”, del “compromesso storico”, della caduta del Muro. E che, poi, via via ha assunto una pluralità di risorse redazionali, linguaggio e categorie più vicini a una cultura laica e riformista in senso forte, ma senza abiure, senza giocare il ruolo degli “apostati”, in un raro equilibrio nel mutamento, dove il grande patrimonio delle origini conta ancora, eccome.

Oltre che una differenziazione delle tematiche, è molto interessante seguire proprio la storia della trasformazione di un linguaggio che assumeva man mano gli stilemi della cultura e del riferimento politico con cui era più coinvolto, e nel contempo manteneva una possibilità espressiva sua specifica, in un mix che aumenta il fascino di interesse antropologico e storico di questa impresa culturale, e, se si vuole, di questo miracolo editoriale, perpetuatasi fino ad oggi, senza avere mai alle spalle sponsor facoltosi o capitali di rendita. Ed è di non poco rilievo, rileggere questo percorso della rivista, degli strumenti linguistici e metodologici assunti, dove questa vicenda del gruppo di “Testimonianze”, in una dimensione di storia sociale, può essere un capitolo non banale nello studio del rapporto tra intellettuali e società in Italia nel trentennio 1958-87, in un segmento nato da assunti contemplativi e approdato all’ impegno “di classe”, come si diceva allora, fino a non molto tempo fa. Rispetto ai grandi sconvolgimenti politici, culturali, sociali con cui si è misurata, “Testimonianze” potrebbe apparire una sorta di Zelig culturale che si mimetizza con lo Zeitgeist delle varie epoche ma, a differenza che in Zelig, qui scatta la consapevolezza di non farsi inglobare, interamente, testa e piedi, da alcuna pulsione mimetica verso alcun “mondo”, ma a tirare fuori il capo quando occorre, a saper scendere da un treno, anche se lanciatissimo: una specie di patrimonio anticorpale, che di volta in volta genera una riflessione critica su certi percorsi, matura il dubbio, i ripensamenti, a volte puntuali, a volte tardivi, come quelli per avere eluso negli anni settanta fatti come Piazza Fontana, l’affaire Pinelli-Calabresi, l’affaire Moro, la tragedia dei desaparecidos argentini. Ma è proprio qui che la rivista è stata (ed è) una grossa scuola di giornalismo, dove l’engagement, la militanza, non soverchiano mai il jeu d’esprit, non si manda il pensiero al macero, con l’esercizio di un analisi (e autoanalisi) spesso scomoda, controcorrente, all’interno della stessa variegata galassia della sinistra, con i cui totem, tabù, fantasmi, ossessioni, “Testimonianze” si confronta, a volte assumendoli, ma anche rimettendosi in gioco. E’ il caso del ripensamento sui limiti di una critica al potere, fatta per un periodo con un’attrezzatura vetero-marxista incapace di afferrare “Proteo”, e l’assunzione invece di un’analisi moderna, con categorie più adeguate, legate alle metodologie più sofisticate delle scienze politiche e sociali, per indagare, senza ideologismi stantii, nel cuore dei meccanismi e dell’organizzazione complessa delle società a tecnologia avanzata post-industriale; come, altro ripensamento, doloroso, ma necessario, era stato quello che faceva constatare l’esaurirsi del potenziale del Concilio; e ancora i grandi, e altrettanto scomodi, dibattiti su “ripensare l’aborto”, o sulla dimensione interdisciplinare del problema droga, controcorrente rispetto a una cultura acriticamente permissivista; su questo e altri temi la rivista è molto puntuale, ed esercita una capacità previsionale, e di analisi anticipatrici, a volte davvero sorprendenti. Per esempio nell’individuazione e nell’analisi della consistenza culturale,sociale e politica del movimento di Comunione e Liberazione. E altrettanto puntuale la rivista è stata a dibattere fin dai primi anni 70 i problemi dell’emancipazione femminile , della sessualità e della cultura di “genere”, e ai primi anni 80, ancora, su “Testimonianze” si evidenziava la struttura nascosta, manipolata e manipolatrice dei sondaggi di opinione, attraverso una straordinaria ricerca di un semiologo, Andrè Laurentin, e di uno statistico, Jacques Retel, entrambi francesi.

 

Un viaggio sorprendente tra grandi firme e “piccole” lettere

E una nota particolare, per questo vademecum lungo questi trent’anni della rivista, va fatta per la qualità, l’autorità e il prestigio delle collaborazioni alla rivista. Si potrebbe parlare, senza sforare in esagerazioni, di una sorta di Gotha o Parterre de Rois culturale, teologico e anche politico, in relazione ai tanti nomi di livello che si sono succeduti nelle pagine dei fascicoli, come si verificherà dai brani antologici di questo lavoro. Di sicuro, per usare una terminologia ora soprattutto sportiva (ma non solo), si può affermare che questi nomi appartengono – ciascuno nel suo campo - alla categoria dei “fuoriclasse”. E questo è ancor più straordinario, in quanto la rivista non ha mai compensato le sue collaborazioni. Ci sono anche, a vario titolo, ben tre futuri papi, allora solo cardinali: Angelo Roncalli, Giovan Battista Montini, (che risulta essere tra i primi abbonati alla rivista), Joseph Ratzinger. Ci sono futuri ministri: un ventunenne Franco Bassanini, che nel 1961 era un giovane laureando, presidente dell’azione cattolica milanese. Carlo Ripa di Meana, 28enne, che a metà anni 70 in una lettera esortava la rivista ad essere veramente cristiana, a una pratica e logica nonviolenta, rimproverandole un’assunzione pericolosa della “violenza dei poveri”, sulla scia della teologia della liberazione. E poi, sempre a metà 70, un saggio di, un già ben più maturo di anni, Adriano Ossicini, che sarà anche ministro dell’istruzione per un breve periodo. C’è un futuro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, qui “pizzicato” nei primi 70 in una lettera, come allora Ministro dell’Istruzione “repressivo” nei confronti di un’insegnante di lettere. Di parlamentari (futuri o già in essere, deputati, senatori, europarlamentari) ce ne sono un bel po’: oltre a la Pira e Dossetti, Mario Gozzini, Pierluigi Onorato, Raniero La Valle, Elia Lazzeri, Giovanni Bianchi, Pietro Ingrao, Enriques Agnoletti, Valdo Spini, Vannino Chiti, Leonardo Domenici, Achille Occhetto, Baget-Bozzo, Vittoria Franco.

Ma la qualità e il prestigio delle firme alla rivista in questi primo trentennio si confermano ancora di più se si vanno a vedere anzitutto i contributi teologici (che avevano un connotato comunque anche politico, e comportavano sempre implicazioni legate all’impegno civile) di studiosi del Cristianesimo che programmaticamente nella genesi della rivista dovevano essere fondamentali. Si tratta di personalità, di tutte le latitudini e culture, dall’Europa all’Asia, dal Nord America all’America Latina, all’Africa: Jean Danielou, Louis Massignon, Hans Urs Von Balthasar, Maurice Feltin, Raimond Panikkar, Emanuel Mounier, Marie-Dominique Chenu, Henry De Lubac, Thomas Merton, Burkhard Neunheuser, Emmanuel Lanne, Enrico Chiavacci, Gianni Baget Bozzo, Giulio Girardi, José Maria Gonzalez-Ruiz, Ivan Illich, Juan Arias, Josef Ratzinger, Jurgen Moltmann, Jean Cardonnel, Jacques Maritain, Paul Gauthier, Adriana Zarri, Davide Turoldo, Leonard Boff, Clodovis Boff, Hans Kung, James Cone.

E ancora intellettuali sia laici che cattolici come Arturo Paoli, Leopold Senghor, Aldo Capitini, Danilo Dolci, George Heinen, Edouard Glissant, Martin Buber, Paul Chauchard, Alexander Langer, Eliana Montini, Emma Fattorini, Mariella Magherini, Giuseppe Alberigo, Gianfranco Pasquino, Carlo Cardia, Jean Marie Domenach, Giovanni Michelucci, Giuseppe Dossetti, Habib Bardawil, Hernando Ciufentes, Gabriel D’Arbussier, Wlodek Golkorn, Carlo Carretto, Mario Rossi, Peppino Orlando, Vittoria Franco, Renzo Salvi, Carlo Penati, Gabriele Parenti, Mauro Messeri, solo per citarne alcuni. E filosofi come Aldo Gargani, Paolo Rossi Monti, Luigi Lombardi Vallauri, Armido Rizzi, Sergio Givone, Aldo Zanardo. Giuristi come Paolo Barile, Enzo Cheli, Luigi Berlinguer.

Un altro significativo filone la rivista lo annovera nel campo delle scienze sociali, da quelle più specificatamente antropologiche, alla sociologia, alla psicoanalisi: Vittorio Lanternari, Alfonso Di Nola, Bruno Bernardi, Ida Magli, Carlo Prandi, Arnaldo Nesti, hanno fornito eccezionali contributi soprattutto al rapporto tra religione e culture; Achille Ardigò, Pietro Bellasi, Umberto Melotti, Giuliano Della Pergola, Andè Laurentin, Jacques Retel hanno reso acute analisi sociologiche sullo Stato Sociale, sull’urbanizzazione, sul mondo del lavoro, sui movimenti politici, sui mezzi di comunicazioni di massa; James Hillmann, Sergio Caruso, Francesco Donfrancesco, Ileana Montini, Patrizia Adami Rok, hanno evidenziato elementi più specificatamente psicologici e psicoanalitici.

Se alcuni nomi sono notissimi, altri lo sono per gli addetti ai lavori, e comunque, tenendo conto di quanto evanescente sia la memoria storica dell’ultimo decennio, - e a maggior ragione quella legata agli anni 50, 60, 70 e 80 - abbiamo compilato per ognuno di questi nomi una nota bio-bibliografica che sarà puntualmente presente man mano che i personaggi e i loro articoli sono citati o che comunque sono entrati in relazione con la rivista.

In quest’excursus si è cercato di muoversi secondo due criteri, poi convergenti.

Il primo è stato quello di non fornire una semplice antologia di articoli e di nomi, ma di seguire la storia della rivista nel farsi degli anni, e dei decenni, a confronto con i tanti eventi nazionali e internazionali, e i tanti temi sociali, culturali, politici che entravano nella sua orbita. E restituire quindi, in qualche modo, l’idea di questo cammino, come un racconto, non seguendo certo nessun giustificazionismo storico, né tanto meno una lettura storicistica legata a un discorso teleologico unilineare. Qui ci sono percorsi a zig zag, sentieri con varie biforcazioni, cambi di percorsi: ci si è mossi piuttosto, “in lungo e in largo con il passo dell’esploratore”, per usare una felice espressione di McLuhan. L’altro criterio è stato quello di enucleare gli apporti, e le firme, di più grande prestigio e valore culturale pubblicandone via via brani significativi. Ma non abbiamo trascurato nemmeno la storia sociale della rivista, il referente del pubblico con cui ha interagito con vivacità in tutti questi decenni. E quindi a volte citiamo, in questa guida ragionata al percorso di questo trentennio, brani di lettere, giunte costantemente alla rubrica apposita. E sono brani che restituiscono più di mille analisi sociologiche la grana, l’humus di passioni, aspettative, interrogativi che suscitava questa “cosa”. Ci sono lettere a volte di gente sconosciuta (o che in quel momento era sconosciuta) a volte di gente che chiede alla rivista, pone questioni, critica, denuncia, sostiene. Ci sono lettere come quella degli operatori del carcere di Pianosa che si tassano per sostenere la rivista, perché dicono “tu ci servi Testimonianze”. O ancora lettere come quelle di chi, sempre nei anni settanta, non chiede alla rivista se non sia giunto il momento di parlare di “famiglia aperta”, oltre le ossificazioni del matrimonio patriarcale e convenzionale. Ci sono donne che chiedono risposte sull’atteggiamento retrivo della Chiesa verso il genere femminile. E ancora , tante lettere, che in modo o nell’altro, sacerdoti e laici, giovani e meno giovani, che pongono sempre il problema di come conciliare fede e impegno politico. E il bello è che non ci sono mai risposte prescrittive, e che si lascia sempre, “un’opera aperta”. Insomma questo rapporto con “Testimonianze” era vissuto da vicino, in un’osmosi che arrivava, a volte, a risultati sorprendenti. Mi è capitato, tra le tante, di incontrare in questo mio periplo la lettera di un giovane della provincia senese che ai primi anni settanta leggeva la rivista e che si poneva “il problema della scelta socialista” e si chiedeva come mai nella sinistra si trascurano gli aspetti interpersonali, quelli che riguardano le vere motivazioni, l’“affettività, i vissuti., la socializzazione”. Poi un quinquennio dopo questo giovane lettore scriveva ancora alla rivista (che sollecitava suggerimenti per un suo rinnovamento grafico e redazionale imminente) e proponeva in merito una diversificazione in aree tematiche, e gli si rispondeva che, in questa sua proposta, c’era il rischio di una “perdita di identità” e “di un eccessivo eclettismo”. Poi questo giovane è divenuto nei primi anni '80 redattore, e, attualmente, direttore della rivista stessa. Abbiamo selezionato in un archivio specifico tutte queste lettere, pensiamo che sia un patrimonio prezioso, altrettanto ricco e fecondo - come quello dei tanti nomi illustri che compaiono in quest’antologia - che sarebbe davvero da pubblicare e commentare in un lavoro a parte. Alla fine si è compiuta una sorta di circumnavigazione, a risalire un fiume che ha un cuore di tenebra e di luce insieme, che va letta non come semplice cronaca, ma come una storia piena di colpi di scena, di ribolli, del travaglio di una coscienza collettiva che si mette in discussione, si contamina con la storia e il mondo, e riafferma faticosamente la sua difficile e complessa identità, a volte brancolando, e comunque riappropriandosi di tutti i suoi “demoni” e imparando a conviverci (come esortava ai primi ottanta su queste pagine, il grande pensatore junghiano James Hillmann). E non disperdendo mai il suo pluralismo, come grande risorsa cui attingere, soprattutto nei momenti di crisi, anche se può sembrare paradossale. A “Testimonianze”si è sempre molto dibattuto, non si è avuto mai paura di confrontarsi su giudizi diversi. In realtà, hanno collaborato fianco a fianco i tipi umani più diversi l’uno dall’altro, antropologicamente e caratterialmente, diversi anche per storia e formazione personale. E questa è sempre stata la ricchezza della rivista. In fondo è uno strano organismo, una sorta di calabrone, che ha a volte un corpo più grosso delle ali che dovrebbero farlo volare, che pare a volte inabissarsi in un bicchier d’acqua, ma poi bene o male risale piano piano, e alla fine va. Da cinquant’anni. Buon viaggio.

1.Calmine è il nome di un analgesico piuttosto forte: parrebbe una sorta di contrappasso-paradosso, un bizzarro scherzo della sorte, che, il futuro suscitatore di passioni civili e religiose - colui che avrebbe tolto la “calma” a non pochi - da giovane fosse il commesso viaggiatore proprio di “calmanti”.

  

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Alcune delle grandi firme su Testimonianze


Leopold Sedar Senghor
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Ivan Illich
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Giorgio La Pira
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Aldo Capitini
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James Hillman
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Giovanni Michelucci
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Jacques Maritain
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Vittorio Lanternari
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Thomas Merton
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Danilo Dolci
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Alexander Langer
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Giuseppe Dossetti

Partecipò alla Resistenza, ed eletto all’Assemblea Costituente nel 1946, fu un protagonista di primo piano fino agli anni 50 della politica italiana , che abbandonò poi  per continuare  nella sua lunga vita il ruolo di grande pensatore e animatore culturale dal respiro profetico.  

Tonino Virone




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