Chi
poteva immaginare che quell'anno, che
era incominciato più o meno come gli
altri del primissimo dopoguerra tutti
difficili ma senza scosse particolari,
avrebbe segnato la mia vita,
sconvolgendola come per effetto di un
terremoto?
A due
mesi dalla sua fine, nello spazio di tre
giorni, il 1945 si è presentato con due
volti diametralmente contrapposti: uno
luminoso sul piano professionale;
l'altro terrificante sotto il profilo
umano. È stato l'anno del primo pogrom
antiebraico nella storia di Tripoli;
come ebreo certamente l'anno più
doloroso e oscuro della mia Vita. Ma fu
anche l'anno in cui fui chiamato a
dirigere il Corriere di Tripoli. Nel mio
intimo ero orgoglioso in quel I'
novembre del 1945 di prendere il posto
che era stato di Renato Mieli fin dal 23
gennaio 1943, dal giorno stesso della
liberazione di Tripoli da parte dell'VIII
armata di Montgomery.
Anche
se pubblicato dall'Amministrazione
Militare Britannica (BMA), quindi da
un'autorità straniera e per giunta
militare, il Corriere era un quotidiano
italiano sotto ogni aspetto. Era scritto
in italiano, redatto e diretto da
italiani, stampato in una tipografia
italiana, ma requisita, da tipografi
italiani; era destinato in prevalenza ai
lettori nostri connazionali, ma anche
alle altre minoranze europee (inglese,
francese, greca e maltese) residenti a
Tripoli. Allora io avevo ventitré anni.
Ricevere un incarico così delicato a
quell'età sarebbe stato, in tempi
normali, un successo, una conquista
esaltante. Invece in quei giorni di
lutti senza fine e di solo sangue la
nomina suscitò in me una sensazione di
assoluta indifferenza.
La soddisfazione non durò che poche ore.
Mi resi subito conto della
responsabilità che mi era caduta sulle
spalle: mi sentivo schiacciato non dal
solito peso, ma da un macigno grosso
come una casa. Già era un problema, e
non indifferente dirigere il giornale
con equilibrio in quelle condizioni
eccezionali: non solo si era di fronte
allo sconvolgimento totale dell'ordine
pubblico: ma si era verificata una
situazione di emergenza politica che
richiedeva la più attenta sensibilità di
giudizio e di comportamento. Se a questo
elemento veniva aggiunta la mia speciale
identità etnica, si può facilmente
immaginare quale sforzo psichico, e non
solo fisico, sia costato assolvere
l'incarico, con serenità di spirito
certamente no, quanto meno con la dovuta
obiettività. Io non potevo comportarmi
diversamente. l'imparzialità più
assoluta era parte del mio dovere.
L'anniversario della dichiarazione
Balfour. Un piccolo passo indietro
Il 2
novembre del 1945 era l'anniversario
della Dichiarazione Balfour del 1917. Si
trattava di una lettera storica, di
poche righe, con la quale il governo di
Sua Maestà Britannica prometteva agli
ebrei della diaspora l'appoggio per la
costituzione di un focolare ebraico in
Palestina. Quel giorno dei disordini
scoppiarono al Cairo e ad Alessandria.
La notizia dei tumulti rimbalzò in poche
ore a Tripoli come in tutto il mondo
arabo, la tensione salì pericolosamente,
ma nulla faceva presagire che di lì a 48
ore la città sarebbe finita nel caos più
completo, in un crescendo di assalti e
di crudeltà inaudite.
Per
tre giorni una follia omicida e
distruttiva sconvolse Tripoli e altre
località della provincia. In
Tripolitania si salvò solo Jefren, una
cittadina sulle montagne del Gebel alle
porte del Sahara, forse perché abitata
non da arabi ma da popolazione berbera.
E, salvo pochi casi, sfuggirono al
massacro anche le piccole comunità
ebraiche sparse un po' ovunque in
Cirenaica. Il merito della esenzione va
attribuito all'intervento protettivo del
Senusso Idris, molto religioso, divenuto
poi, con l'indipendenza del 1952, primo
e ultimo re di Libia.
Quel
pogrom (altri ne seguirono negli anni,
ma di dimensioni e intensità minori)
segnò per sempre la fine di un rapporto
di mutuo rispetto e di secolare amicizia
tra ebrei e arabi che durava
ininterrottamente da oltre duemila anni:
la comunità ebraica si era insediata in
quelle terre prima ancora che
arrivassero le legioni di Roma. Il
taglio era stato troppo profondo. E
nonostante i tentativi, falsi ed
ipocriti, svolti dai notabili delle due
parti sotto l'egida burocratico formale
ma non meno farsesca dell'autorità
occupante, la ferita non si rimarginò
più. Per secoli non era mai corso del
sangue tra le due etnie. Ma dopo il
pogrom, alla fiducia di un tempo era
subentrata la diffidenza, all'amicizia
l'odio, a volte scoperto altre volte
soffocato, in ogni caso cresciuto e
stabilizzato a livelli di guardia. Ormai
il deterioramento delle relazioni tra le
due comunità, una volta fraterne, era
totale. Aveva colpito al cuore ogni
settore della vita cittadina e del
paese. Il solco che si era aperto tra
arabi ed ebrei non era più colmabile.
Così è stato a Tripoli dopo quel 1945.
Così sarà cinquant'anni dopo a Sarajevo.
Così è avvenuto e avverrà in tutte
quelle terre, dove sciovinismi
esasperati o fanatismi integralisti, più
distruttivi della droga più pesante,
annebbiano la mente degli uomini
esaltando solo l'odio e la violenza.
Dopo 3200 anni un altro segno sugli usci
I
tumulti ebbero inizio nel tardo
pomeriggio di domenica 4 novembre. Le
prime aggressioni si verificarono alla
stessa ora, simultaneamente e in più
punti della città.
Furono attaccate soltanto case di ebrei
e negozi di ebrei. Questa circostanza
conferma che i disordini erano stati
organizzati e coordinati in anticipo, si
dice da piccoli intellettuali che
avevano studiato nelle università del
Cairo abbeverandosi alla fonte del
nazionalismo panarabo più acceso.
L'ipotesi è avvalorata anche dal fatto
che il giorno prima furono notati arabi
ben vestiti (forse gli stessi
organizzatori) segnare col gesso le
porte di tutte le case e botteghe con le
scritte in lingua araba "ebreo",
"italiano", "arabo".
Durante i disordini alcuni testimoni
italiani videro gruppi di giovanottini
eleganti fermare i pochi passanti che
erano in giro e domandare loro la carta
d'identità. Se il possessore era
italiano o arabo veniva lasciato
proseguire indisturbato; se era invece
ebreo non poteva sfuggire: era in
trappola e cadeva sotto i colpi di
bastoni e mazze di ferro, in molti casi
anche di lunghi coltelli e pugnali. In
quel tardo pomeriggio di autunno non
pioveva, ma il tempo era uggioso, faceva
molto freddo e tirava un gran vento. Io
non ero ancora uscito per andare al
giornale. Di solito mi mettevo in
cammino verso le sei. Ad un tratto
sentii delle urla provenire da Corso
Vittorio Emanuele, sempre più forti, più
rumorose. Noi abitavamo all'ultimo piano
del palazzo della Previdenza sociale.
Con mio padre mi affacciai in balcone.
Mia madre invece, sentendo quegli
schiamazzi, si spaventò da morire, corse
in camera sua e non si fece più vedere.
Così l'ho sempre conosciuta: soffriva di
palpitazione per ogni minima emozione.
Fu
allora che con i miei occhi ho
assistito, inorridito e impotente, a una
scena che non dimenticherò mai; la più
spaventosa che abbia mai visto in vita
mia. Un vecchietto piegato in due,
coperto da qualcosa che più che un
cappotto mi sembrò essere un mantello
nero perché svolazzava gonfiato dal
vento, correva o tentava di correre
muovendosi a zig zag da un lato
all'altro del marciapiede. Era inseguito
da una turba di ragazzini sghignazzanti
che lo bersagliavano con lanci di pietre
al grido "he he el jud" (che muoia
l'ebreo). Dopo pochi metri il pover'uomo
cadde per terra e non si rialzò più. Era
stato finito, lapidato. La similitudine
potrà apparire raccapricciante e forse
irrispettosa ma ricordando a distanza di
tanti anni quell'episodio così meschino,
mi sembra di vedere in quella povera
vittima innocente un topolino
terrorizzato inseguito da un branco di
gatti inferociti. Per mia fortuna non
sono stato testimone oculare di altre
nefandezze. Mi è molto difficile
descrivere quei giorni così terribili.
Ero inquieto, sconvolto, come tutti del
resto.
Doris
non era più uscita di casa. Per dei
giorni non ci siamo più incontrati. Ci
vedevamo e ci salutavamo dai balconi
perché abitavamo in due palazzi uno di
fronte all'altro, ma sempre per pochi
minuti. Io non uscivo più a piedi, anche
se il Corriere era a due passi da casa.
Trascorrevo le mie ore o qui o al
giornale, dove venivo accompagnato con
una jeep da un ufficiale britannico
redattore del Tripoli Times. Noi del
Corriere e gli inglesi avevamo gli
uffici in due ali diverse di uno stesso
enorme appartamento. Tornando a quel
pomeriggio del 4 novembre, era già
vicino il tramonto, il presidente della
Comunità, informato che gli avvenimenti
stavano prendendo una brutta piega, non
perse tempo e corse alla Stazione
centrale di polizia; ma il piantone di
guardia lo informò che, data la giornata
festiva, tutti gli ufficiali (ufficiali
britannici) non erano in servizio;
quanto agli agenti, erano tutti fuori
sede, per cui non era possibile prender
contatto né con gli uni né con gli
altri.
Carta bianca per tre giorni
Le
notizie sui primi eccidi e incendi
fecero rapidamente il giro della città.
Per tutti noi ebrei la notte fu molto
lunga, interminabile. Passò, come Dio
volle, insonne in quasi tutte le case,
con l'anima in pena e con gli occhi
sbarrati a guardare il soffitto, al
pensiero del pianto e dello strazio per
i primi lutti. Per tutta la città, in
quella nuova, nella vecchia, alla Hara,
il silenzio era assoluto, rotto dal raro
passaggio di qualche Land Rover della
polizia. Ma era un brutto silenzio, cupo
buio premonitore del peggio. Al mattino
di lunedì, appena fu giorno, i disordini
divamparono di nuovo, questa volta
estendendosi in poche ore a tutti i
punti della città, anche ai più lontani,
sia nella cerchia dei quartieri nuovi
che in quelli vecchi. Le aggressioni e i
saccheggi, gli stupri, gli incendi
furono ovunque. Nessuna zona si salvò.
In quel 5 di novembre l'unico
provvedimento adottato dalle autorità fu
la proclamazione del coprifuoco; di esso
venne dato avviso all'ultim'ora, poco
prima che facesse buio, con manifesti
murali e a mezzo di altoparlanti montati
sulle macchine della polizia. Ne parlerò
più diffusamente più avanti. Il giorno
più tremendo fu martedì. La violenza era
ormai all'apice.
Tripoli
non era più una città, era l'inferno.
Nello spazio di sole ventiquattr'ore
aveva perduto il suo volto civile. Era
stata trasformata in una bolgia
dantesca.
Ma
mercoledì 7 non fu da meno. Procedeva
secondo i piani, un vero e proprio
pogrom, premeditato, di qualità
primitive, di proporzioni spaventose.
Nell'orrore della carneficina, la furia
degli aguzzini, se non altrettanto
scientifica, non è stata meno bestiale
di quella. nazista. A Tripoli le
aggressioni più gravi si verificarono
nella città nuova dove, a differenza del
ghetto, le famiglie ebraiche vivevano in
case isolate, spesso lontane l'una
dall'altra.
Fra i
tanti casi ne devo ricordare uno per la
sua incredibile ferocia. A una donna
prossima al parto che abitava al
Colosseo, un palazzo così chiamato per
la sua conformazione architettonica, fu
tagliato il ventre e il bambino che
teneva in grembo fu lanciato per strada
giù dal balcone. Il ghetto era una
piccola città nella città vecchia dove
almeno ventimila ebrei (di loro non
pochi erano sulla soglia della miseria)
vivevano e lavoravano gomito a gomito in
un dedalo intricato di piazzette e di
vicoli strettissimi. Ma la resistenza di
quella gente fu strenua e gli
assalitori, nonostante l'impeto rabbioso
e la superiorità di numero, non
riuscirono a far breccia e a penetrare
nella cittadella. Se quegli assalti non
fossero falliti, difficile immaginare
quanto alto sarebbe stato il bilancio
delle vittime. In provincia, nella notte
tra martedì e mercoledì, eccidi in massa
avvennero, tra crudeltà e sevizie
inaudite, a Zavia e a Zanzur. Qui, in
particolare, dove vivevano 120 ebrei, ne
furono massacrati 40. All'Amrus, il
quartiere ebraico di Suk el Giuma, a
pochi chilometri da Tripoli, gli
assassini dopo averle uccise infierirono
barbaramente sulle loro vittime. Le
cosparsero di benzina o di petrolio, poi
appiccarono il fuoco. Bombe a mano
furono lanciate proprio a Suk el Giuma
contro la Sinagoga e alcune case. A
Kussabat, non una donna fu risparmiata;
tutte, anche le più anziane, subirono
violenza. In qualche caso furono
sterminate intere famiglie, dal nonno
all'ultimo dei nipotini, trucidate tra
torture di impensabile crudeltà.
Mutilazioni furono constatate in più
parti dei loro corpi. Ma proprio a
Kussabat, alcuni ebrei - per la verità
pochi - pur di aver salva la vita
abiurarono la religione dei padri
convertendosi all'Islam.
"Very
Urgent - Top Secret"
Nei quattro giorni di pogrom, e la
stessa operazione si è ripetuta nei
giorni successivi, verso le dieci di
sera da un motociclista venivano
recapitati al giornale dei plichi
sigillati con la stampiglia very urgent
top secret. Si poteva capire l'urgenza,
non la segretazione. In quelle buste
c'erano i comunicati ufficiali emanati,
indifferentemente, o dall'autorità di
governo o dal quartier generale della
polizia. Portavano le notizie sui
disordini della giornata, poche righe
stringate, asettiche, con il conto
ufficiale dei morti e dei feriti,
seguito dall'elenco dei danneggiamenti
più importanti. Sono sempre ridotte
all'osso, in tutti i paesi del mondo, le
notizie ufficiali quando devono riferire
di tumulti o di disastri, ma soprattutto
di stragi. Naturalmente quei comunicati
avevano già il loro spazio riservato che
li aspettava sulla prima colonna di una
prima pagina che, a quell'ora, era già
in fase di avanzata composizione. Quando
aprivo quelle buste, di un giallino
sbiadito ma
nefasto, le mani mi tremavano. Perché
toccava a me, primo ebreo, sapere quanti
altri ebrei erano stati fatti a pezzi
nelle ultime 24 ore. E mentre le
scorrevo, quelle quattro righe, avevo di
fronte il volto rosso e nero della
strage, vedevo l'assassinio di un
vecchio malato che moriva dissanguato
senza la forza di un lamento, sentivo le
urla disperate di spose bellissime
appena incinte, il pianto desolato di
bambini ancora in fasce, tutti ebrei
come me, tutti fratelli miei.
Quella
lettura serale, che era inevitabile
perché non potevo delegarla ad altri,
con il passar dei giorni era diventata
una specie di condanna, uno spettro che
mi tornava continuamente davanti agli
occhi, senza che riuscissi a
liberarmene. E ogni volta un brivido mi
scorreva lungo la schiena. Mi veniva da
piangere, ma non potevo. Rientravo a
casa protetto dal coprifuoco, non prima
dell'una, dopo aver vistato l'ultima
bozza passata al torchio. Anche se per
la tensione accumulata e per le energie
che avevo consumato mi sentivo a pezzi,
completamente svuotato, prender sonno
era diventato un problema. Vedevo passar
le ore una dopo l'altra, ed ero sempre
sveglio. Poi mi addormentavo, verso le
cinque o le sei, quando l'alba era già
vicina.
Si respirava il silenzio
Al
giornale si lavorava sotto una cappa di
piombo per la tensione, che fu sempre
altissima, e anche per la paura. Perché
non dirlo? Non c'era da vergognarsi: di
fronte al terrore non c'è eroismo che
tenga. Anche il coraggio, quello più
insensato, va a farsi benedire. In
tipografia, più nessun dialogo tra noi;
rumoroso vivace, spesso allegro come era
di solito. Facce scure e solo poche
parole, quelle strettamente
indispensabili: Per favore, ci son
queste tre righe da ricomporre; dov'è la
bozza della terza? È stata già
corretta?. A parte il ticchettio delle
linotype e il dolce fruscio delle
rotative (quanta passione per quel
mestiere e che nostalgia ... ) si
respirava il silenzio, quasi fossimo in
chiesa. Eppure, nonostante l'atmosfera
così pesante, grazie all'impegno forte
di tutti i redattori e i tipografi - mi
volevano bene e devo dire che li ho
sempre avuti fraternamente vicini -
riuscii a tener duro e il giornale
continuò le sue pubblicazioni,
regolarmente. Uscì ogni mattina di quei
disgraziati giorni.
Le
armi del massacro
Per compiere il massacro - si legge
in una relazione ufficale della Comunità
di Tripoli - gli assalitori avevano
fatto uso delle armi più disparate:
coltelli, pugnali, randelli, sbarre di
ferro, rivoltelle, e perfino bombe a
mano. In generale le vittime venivano
prima colpite alla testa con un corpo
contundente; poi, una volta stramazzate
al suolo, venivano finite a coltellate o
a pugnalate e spesso sgozzate.
Soltanto il mercoledì, a tarda sera, fu
proclamato lo stato di emergenza. Fu
disposto dall'esercito. Vietati gli
assembramenti, vietato il possesso di
armi o di corpi contundenti. Corte
marziale e processi per direttissima per
i trasgressori. l'ordine era finalmente
ripristinato. I tumulti cominciarono
così a scemare; ma lasciavano dietro di
loro una lunga scia di sangue e di
disperazione.
Le
stime sui morti, il servizio funebre Le
stime sul numero del morti non
concordano: ufficialmente 167, ma
secondo altre fonti, più vicine alla
realtà, sono state 300 o addirittura
350. Centinaia e centinaia di feriti,
molti i bambini, ricoverati negli
ospedali di
Tripoli e di Misurata, dove i
medici e gli infermieri italiani, dai
primari all'ultimo portantino, si
prodigarono, con straordinaria
generosità, al limite delle forze 24 ore
su 24. Ricordo che i funerali delle
vittime si svolsero al buio, sotto
coprifuoco, lungo un percorso blindato
da un cordone di truppe con baionetta
innestata, senza la presenza di nessun
parente. Il servizio religioso fu
officiato da un solo rabbino. Ricordo
ancora che Clemente, il fratello minore
di Doris, fu tra i pochi correligionari
che con molta umanità e grande coraggio
si prestarono piamente alla
ricomposizione delle salme, al lavaggio
rituale e alla tumulazione dei corpi,
dei troppi corpi straziati da sevizie
senza confronto o, come ho già riferito,
arsi vivi. I danni materiali furono
incalcolabili.
Nove furono le sinagoghe profanate:
calpestati, fatti a pezzi o incendiati
decine di rotoli della Torah. Si
contarono a centinaia le case date dalle
fiamme, i negozi di lusso rasi al suolo,
le botteghe più misere devastate. Senza
numero furono i depositi di grossisti
ebrei saccheggiati fino all'ultima pezza
di tessuto o all'ultimo sacco di caffè o
di spezie, e poi dati alle fiamme con
taniche di benzina.
I
tentativi di riconciliazione: solo una
farsa tragicomica. Tornata la calma, ma
solo apparente perché la tensione rimase
a livelli esplosivi per settimane, i
giornali in lingua araba si fecero in
quattro per condannare il massacro che
non aveva fatto onore al popolo di
Libia; i notabili religiosi, dal gran
cadi al mufti, promossero tentativi di
riconciliazione, non senza aver
deplorato, bontà loro, lo spiacevole
avvenimento. Incontri e discorsi di
prammatica si susseguirono per giorni e
mesi tra i maggiorenti delle due
comunità, sotto il patrocinio
dell'autorità occupante la quale, ora,
dopo un sonno profondo durato quattro
giorni, invocava il ritorno
dell'amichevole convivenza tra arabi ed
ebrei e il ripristino della reciproca
fiducia per il bene del paese. Ma né
l'una né l'altra rinacquero più.
Un'armonia plurisecolare era morta e
sepolta per sempre.
Un
tentativo di pogrom nel 1948
Andiamo avanti. Un tentato pogrom si
è ripetuto nel 1948, alla nascita dello
Stato d'Israele.
Ma questa volta la resistenza ebraica fu
forte e decisa, e gli arabi ebbero la
peggio. Dopo il '45 la gioventù ebraica
del ghetto si era addestrata
clandestinamente e clandestinamente si
era procurata anche delle armi da fuoco.
Pentoloni di olio bollente furono
riversati dall'alto delle mura della
Hara sugli attaccanti disseminati sulla
spianata sottostante. In quella
occasione le perdite degli arabi furono
di molto superiori a quelle ebraiche.
I
primi esodi
Dopo i fatti del '45 e del '48, gli
ebrei si misero l'anima in pace. Si
resero conto, molto a malincuore, che
quella terra non era più per loro. Era
diventata terra nemica. Cominciarono
così a partire. Il via all'alijà, cioè
all'emigrazione verso Erez lsrael,
organizzata in modo splendido dall'Ose
(Organizzazione sanitaria ebraica,
diretta in Italia dal benemerito rag.
Raffaele Cantoni) e dalla Jewish Agency
fu dato dagli inglesi il 2 febbraio
1949. Ricordo molto bene quel giorno
perché in poche ore Tripoli fu coperta
da una abbondante nevicata. Era una cosa
molto rara veder la mia città, già tutta
bianca, ammantarsi di altro bianco. Era
di buon auspicio, così dissero i vecchi.
La notizia dell'ordinanza inglese si
sparse in un baleno in tutta la città.
La Comunità, gli uffici di polizia, il
Dipartimento dell'immigrazione furono
presi d'assalto, addirittura travolti da
una folla impressionante accorsa, chi
per informarsi, chi per richiedere il
visto d'uscita. L'animava un solo
desiderio: quello di andarsene al più
presto anche con poche cose, di
abbandonare per sempre la vecchia
patria, per ritrovarsi in quella sognata
da duemila anni nel Seder di Pesah.
"Quest'anno qui, un altr'anno a
Gerusalemme". Dei trentamila aspiranti
all'espatrio, almeno venticinquemila
riuscirono a partire, a scaglioni
massicci, tra il 1949 e il 1950.
Lasciarono Tripoli a bordo di grosse
navi venute da Israele.
A questo numero vanno aggiunti i quasi
1.200 ebrei, quasi tutti ragazzi, i
quali se ne andarono via come emigranti
clandestini, senza passaporto e senza
neanche uno zaino o una valigia. Mio
cugino Daniele Forti (Lele), un giovane
bellissimo, alto e forte di 17 anni, non
riuscì a raggiungere un'imbarcazione di
fortuna che si trovava al largo, di
fronte al Lido Maccabi. Morì in pochi
giorni, di febbre tifoidea dopo
un'infruttuosa nuotata.
Disordini anche nel 1956
Ma altri tumulti, sedati sul nascere
dal governo libico, scoppiarono nel 1956
all'epoca della spedizione
anglo-franco-israeliana di Suez. L'esodo
allora ricominciò di nuovo, alla
spicciolata, con rotta su Israele, ma
anche verso l'Italia, verso Roma e
Milano. Questa volta lasciavano la terra
di origine anche i primi nuclei
familiari della media e alta borghesia,
i cosiddetti benestanti.
La
guerra dei sei giorni
Con la guerra dei sei giorni, nel 1967,
altro terrore, altri morti (almeno 17),
altre rovine. Quel fatto di storia epica
per Israele determinò la partenza totale
e definitiva dell'antica comunità
ebraica di Libia. Nel suo libro La terra
promessa, al re del Marocco Mohammed V -
che gli aveva chiesto: "Ma perché mai i
miei sudditi ebrei, che considero cari
quanto i miei figli, vogliono andarsene
via?" - Joe Golan diede una risposta:
"Maestà, un ebreo se ne va quando sente
che è venuto il momento". Anche per noi
stato così. Rimasero a Tripoli un pugno
di correligionari, per lo più anziani e
di salute malferma. Non se la sentivano
di andare incontro a nuove culture e
nuove genti, di affrontare un mondo
moderno, progredito. Forse erano troppo
legati a quella terra.
L'avvenire dei figli
L'essere stati costretti alla fuga, ad
abbandonare ogni cosa, dalle più care -
i nostri morti - ai più piccoli oggetti
del sentimento, era una disgrazia
tremenda resa ancora più tragica perché
inimmaginabile, fuori da ogni
previsione, Per tutto il viaggio mille
pensieri si erano rincorsi e intrecciati
nella mia mente, ma uno fra tutti li
aveva soverchiati. Quella partenza,
disorganizzata, disordinata, decisa e
compiuta in fretta e furia, con due sole
valigie di biancheria intima e poche
sterline libiche in tasca, non era forse
uguale all'altra fuga, quella dalla
terra d'Egitto? Cosa c'era di diverso
nella sostanza? Io proprio così l'avevo
voluta sentire in quella sera caldissima
del 17 giugno 1967 quando dall'aereo
dell'Alitalia che ci portava in salvo
continuavo a inseguire per l'ultima
volta il profilo della mia città. Vedevo
Tripoli scomparire dietro la nebulosa
della costiera e gli ultimi ciuffi di
palme. Nel cielo pulito, che stava
passando con i colori di Chagall dal
rosa al viola dell'imbrunire, una luna
piena ci guardava quasi con aria di
protezione. Pochi minuti ancora; poi più
nulla. Sotto di noi non c'era che il
mare, un grande piatto d'argento.
Avevamo gli occhi umidi e la gola secca.
Tra le mie braccia tenevo stretta
Marina, la mia bimba di appena cinque
anni. Dormiva tranquilla. In quell'ora e
mezzo di volo non una sola parola.
Ma quante cose ci siamo detti con gli
sguardi che erano tristi, rassegnati.
Disumano, disumano da morire, troppo
brutale era stato lo strappo da quello
che per tutta una vita noi, i nostri
padri, i nonni e i bisnonni, avevamo
considerato e amato come la nostra
patria. Ma era tutt'altro che una
sciagura. Su quell'aereo, senza saperlo,
con il cuore a pezzi, stavamo correndo
verso la fortuna, per noi e quel che più
contava per i nostri figli. Fa miracoli
il tempo. E’ un unguento che non ha
rivali. Lecca le ferite e attenua il
dolore, anche il più forte. E quando,
dopo i primi legittimi sfoghi della
disperazione, a mente fredda si passa
dalla tensione alla meditazione, la
ragione ha il sopravvento, e vince. Come
per noi stato così per tutti gli ebrei
che si erano battuti il petto per aver
perduto Tripoli.
Cause, responsabilità, connivenze.
Molte
le verità: ma quella vera qual'è ? È
stata una catastrofe. Essa ha portato
non solo lutti rovine e miseria, ma ha
sconquassato dalle fondamenta rapporti
intercomunitari pacifici e l'economia di
un paese che si stava lentamente
riprendendo dalla guerra. Sulle cause
che sono alla sua origine gli storici
non sono concordi. Com'è nella prassi
comune, ognuno tira l'acqua al proprio
mulino. Le versioni sono molteplici e
diversificate, spesso contraddittorie.
Anche
i rapporti custoditi negli archivi
storici delle diplomazie conducono a
conclusioni difformi. Cosi come avviene
nelle controversie territoriali
internazionali, dove le ragioni non sono
mai tutte e completamente da una parte
sola, può essere condivisa l'ipotesi che
l'immigrazione ebraica in Palestina da
un lato, il nazionalismo panarabo in
rapida lievitazione dall'altro, abbiano
avuto un peso determinante nel far
germogliare tra le masse libiche, e in
particolare tra il popolino, un odio
irrazionale verso i cugini semiti, fino
ad allora inesistente e del tutto
sconosciuto. Le due comunità, va
ripetuto perché è un dato essenziale,
erano sempre andate d'amore e d'accordo.
Salvo episodi rarissimi e sporadici (una
litigata incruenta dopo una bevuta di
legbbi - la bevanda alcolica estratta
dalla palma - o il passaggio all'Islam
di una bella ragazza del ghetto di cui
si era perdutamente invaghito il vicino
di casa arabo) nulla di grave o di
irrimediabile era mai avvenuto tra le
due collettività.
È vero
che dopo la liberazione di Tripoli, i
commercianti ebrei avevano allargato le
proprie attività in ogni campo
costruendo fortune anche molto
consistenti (anche con l'Afrikakorp di
Rommel avevano lavorato bene), ma ciò
poteva aver provocato risentimento o
invidie nelle file della concorrenza
mussulmana: quindi niente di più che un
puro e semplice antagonismo, economico.
È anche vero che subito dopo l'ingresso
degli inglesi a Tripoli (c'era anche la
Brigata Palestinese, composta dai futuri
israeliani) la riapertura festosa dei
due circoli, il Maccabi (laico) e il
Benjehuda (religioso), aveva
incoraggiato la gioventù ebraica del
posto a mobilitarsi nella diffusione
degli ideali sionisti.
Di
fronte alla nuova situazione che si era
venuta a creare, ad opera di
propagandisti bene addestrati in alcuni
circoli politici arabi, si era perfino
arrivati a insinuare
l'esistenza di un complotto sionista
(contro chi? e con quali obiettivi?). Di
qui, la strada breve, una rabbia
montante e l'invocazione di una risposta
salutare, se del caso anche feroce, da
dare all'aggressione ebraica.
Ma
secondo altre fonti più attendibili, è
stata un'altra la causa principale del
massacro o, più correttamente,
l'obiettivo ultimo del massacro. La
politica britannica del momento
appoggiava il cosiddetto Piano
Bevin-Sforza (erano i ministri degli,
Esteri inglese e italiano), in base al
quale le Nazioni Unite avrebbero dovuto
affidare all'Italia l'amministrazione
fiduciaria della Tripolitania, alla Gran
Bretagna quella della Cirenaica. Ma poi
il piano naufragò per una serie di
ragioni che non starò qui ad elencare,
ma anche perché fortemente osteggiato
dai primi movimenti indipendentisti
libici, i quali avevano fatto la loro
comparsa al Cairo. In sostanza, secondo
quelle fonti l'eccidio doveva servire
alla politica imperiale di Londra per
dimostrare al mondo che gli arabi di
Libia non erano ancora maturi per
l'indipendenza.
Che
poi fossero stati proprio gli inglesi
gli istigatori e gli organizzatori dei
tumulti è una supposizione abbastanza
fondata, ma prove certe a conforto di
una tale ipotesi non sono state trovate.
Figuriamoci se sarebbe stato facile
scoprire gli intrighi orditi
dall'Intelligence Service, a quei tempi
il più illustre servizio segreto del
mondo.
Esistono invece prove inconfutabili in
base alle quali l'atteggiamento delle
autorità inglesi fu quasi certamente
connivente. Un elemento molto strano va
anzitutto sottolineato. La domenica 4
novembre, quando nel pomeriggio
scoppiarono i primi torbidi, non erano
in sede né il governatore militare
Blackley, inspiegabilmente assente dalla
capitale libica da più giorni, né il
colonnello Oulton senior officer del
Civil Affairs Office. Secondo elemento:
lunedì 5, quando la situazione era ormai
fuori controllo e tutta la città era in
mano alla teppaglia, l'atteggiamento dei
britannici fu prima passivo, poi
tardivo, quanto meno incerto. Il che,
era inevitabile, non poteva che indurre
i rivoltosi a pensare di avere carta
bianca. E in effetti - lo si è visto -
la ebbero totale e ininterrotta per 72
ore.
Per
conseguenza non si può escludere una
corresponsabilità o una chiamata di
correo (quando si è di fronte a una
strage non ci sono sottigliezze
giuridiche, più o meno una cosa vale
l'altra) della British Military
Administration. D'altra parte è pacifico
che la polizia libica, agli
ordini di ufficiali britannici, fu
certamente infedele. Questo sostennero
di rimando e con forza gli inglesi, per
ribattere le accuse che erano state
mosse nei loro confronti. L'alibi
contiene, in effetti, una buona dose di
verità. Ma altrettanto vero che quegli
stessi ufficiali provenivano dalle
guarnigioni del Medio Oriente.
Testimoni diretti degli atti di
terrorismo compiuti dall'Irgun Zvei
Leumi o dalla Banda Stern in Palestina,
non potevano nutrire molta simpatia per
la comunità ebraica di Libia. Al limite,
chissà, forse potevano anche gradire che
venisse rotta la testa a qualche ebreo.
Devo anche aggiungere che i
provvedimenti volti a ripristinare
l'ordine pubblico, oltre che in ritardo,
furono emessi con il contagocce.
Prima
il coprifuoco; ma non servì a nulla
perché le bande di assassini sfinite per
le scorrerie della giornata e sazie per
i primi bagni di sangue avevano bisogno
di qualche ora di sonno per ritemprarsi,
tanto è vero che all'indomani di ogni
notte i tumulti divampavano con eguale
intensità e violenza. Poi, dopo due
giorni, ma solo dopo due giorni, venne
proclamato, vivaddio, lo stato di
emergenza. Per completare il quadro del
comportamento incerto e ondeggiante
delle autorità di governo inglesi va
soprattutto ricordato che la calma
ritornò nel paese soltanto dopo
l'intervento dell'esercito.
L'impiego delle truppe -la notazione non
è meno importante - fu deciso dal
brigadiere generale Temple, comandante
in capo della Piazza di Tripoli,
autonomamente, di propria iniziativa,
senza che ne fosse stato richiesto, come
invece avrebbe dovuto essere, dal Civil
Affairs Office.
Secondo alcune fonti non è da
escludersi, e questa potrebbe essere
un'altra faccia della verità, che
l'ordine di intervenire con le baionette
sia giunto direttamente da Londra,
scavalcando il governatore Blackley e i
suoi collaboratori. Come scrive Renzo De
Felice nel suo volume Ebrei in un paese
arabo, tutto ci autorizza a concludere
che con il loro ambiguo comportamento
gli inglesi si erano resi praticamente
corresponsabili dell'eccidio. La
chiamata di correo dell'amministrazione
civile, quindi, è più che un sospetto. È
un giudizio negativo su tutta la linea,
un'accusa che gli ebrei di Tripoli hanno
sempre sostenuto, senza reticenze o
perplessità. Per motivi di spazio ho
dovuto limitarmi all'essenziale.
Ho
solo punteggiato la posizione
dell'autorità occupante. Per analizzarla
in tutti i suoi meandri più oscuri
occorrerebbero pagine e pagine e lunghe
ricerche di archivio. Ma non è questo
l'obiettivo del mio scritto, che ha
finalità ben più modeste.