FUGA DA TRIPOLI

da Peace Reporter  18/10/2008


Nel giugno del 1967 circa 6mila ebrei italiani fuggirono da Tripoli. La guerra dei 6 giorni, la violenta reazione in Libia al conflitto, la morte di 17 persone li costrinse alla fuga in Italia. 
Tra quei 6mila ebrei, alcuni di nazionalità italiana, c’era anche il tredicenne Yoram Ortona, oggi consigliere della Comunità Ebraica di Milano e dell’UCEI, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Che ricorda quei giorni in questa intervista.

All’epoca avevo tredici anni e mezzo. Mio padre, Marcello Ortona, nato anch'egli in Libia durante il  mandato britannico, era giornalista. Nel 1945 assunse la direzione del Corriere di Tripoli. Aveva preso il posto di Renato Mieli, padre di Paolo, che era rientrato in Italia per dirigere l’Unità. Il 5 giugno era un lunedì. Ricordo che quel giorno dovevo andare a scuola, la Dante Alighieri, per svolgere il tema di italiano al fine di conseguire la licenza media. Mentre eravamo in classe ci dissero che dovevamo abbandonare la scuola perché nel centro di Tripoli erano scoppiate manifestazioni molto violente. Si diede fuoco a tutti i negozi degli ebrei, furono distrutte delle sinagoghe e furono trucidate due famiglie. Morirono in tutto diciassette persone. Ricordo ancora che mi recai di fretta a casa di mio zio e attraversai la manifestazione. Era cominciata la caccia all’ebreo. Attraversai la città e ricordo ancora l’odore acre del bruciato dei negozi. Il cielo di Tripoli, che la mattina ricordo di un azzurro meraviglioso, si era trasformato in un cielo plumbeo. Mio fratello e mia sorella più piccoli erano a scuola dalle suore, mio padre era in ufficio, mia madre a casa. La famiglia era dispersa per la città. Ci riunimmo solo alle sette di sera durante il coprifuoco e rimanemmo chiusi asserragliati a casa per dodici giorni, con tapparelle abbassate. Ricordo che mio padre, tra la preoccupazione di mia madre, tutte le mattine usciva per prendere un po’ di pane, della frutta e dell'insalata e le immancabili sigarette perché era un accanito fumatore. 

 

Alla fine di quei giorni?

Il 17 giugno, era Shabbat, proprio nelle prime ore del pomeriggio, ricordo quel caldo afoso terribile, venimmo scortati verso il terminal e di lì all’aeroporto. Senza niente. Con due valigie e 20 sterline. Lasciammo tutto. Ricordo sull’aereo, era un Caravel dell’Alitalia, mio padre si tenne sulle ginocchia per tutto il viaggio la mia sorellina più piccola perché non c’era più posto.  E poi arrivammo all’aeroporto di Fiumicino e ricominciammo tutto da capo.


Tornaste in Italia. Si sentì più profugo o fu più un ritorno a casa? 

Mi sentii profugo perché non avevamo più niente. Ripeto: solo due valigie e 20 sterline. Nient’altro. Fummo ospitati da nostri parenti per quattro mesi.  
Mi ricordo l’ingresso al liceo. Era il 1967, in classe c’era un fascista che mi disse: “Tu sei uno sporco ebreo”. Io avevo quattordici anni. Venivo da una società come quella di Tripoli molto ovattata; ero arrivato in un paese come l’Italia di quegli anni, inserito in un contesto sociale ben diverso. Avevo un nome ebraico. Mi sentii per la prima volta apostrofato così e ci stetti male, molto male. Mi fece per la prima volta sentire diverso: non ero considerato come gli altri. E’ chiaro che furono anni molto difficili. 
Ma per fortuna avevo due genitori che ebbero la forza e il coraggio di ricominciare un’altra vita e portandoci in salvo dall’inferno di Tripoli, furono capaci di sostenerci e farci studiare. 
Nessuno di noi ha abbassato la testa. Anzi è aumentata l’energia, la voglia di ricominciare; pur in una società con il '68 in arrivo, l’autunno caldo. Però l’Italia ci accolse, la comunità ebraica di Roma ci aiutò. Forse nel mio paese sarei tornato anche solo per studiare, ma così fu tutta un’altra cosa. 

 

E oggi si rivede nelle immagini di chi sbarca in Italia in cerca di un futuro migliore? 

Sì assolutamente. Lasciammo Tripoli con due valigie e 20 sterline, cioè lasciammo tutto quello che avevamo. Fu drammatico. Mio padre stette in silenzio per tutto il viaggio, le lacrime agli occhi. Ma era felice di aver salvato le nostre vite, quelle di sua moglie e dei suoi figli. Ricordo le luci accecanti dell’aeroporto Leonardo da Vinci e ricordo l’immagine di un manifesto pubblicitario con la cupola dorata della moschea di Omar e il Muro del pianto con la scritta a caratteri cubitali: visitate Israele, Gerusalemme d’oro. Avevamo raggiunto la salvezza. Riscoprimmo la libertà di essere noi stessi. Sono ricordi che mi tengo stretti, non ero un adulto e nemmeno un bambino. Fui scosso molto…Infatti ogni volta che lo racconto non riesco a non  commuovermi e il ricordo è sempre molto vivo. Ecco la memoria, ecco perché è importante. Per non ripetere il futuro. Non possiamo dimenticare il 1967, come non possiamo dimenticare la Shoah, le leggi razziali. Quella memoria ci deve aiutare a costruire una società più giusta, basata sul rispetto, sulla tolleranza. Altrimenti non c'è futuro.