La stanza  di Emilio Luigi Parlato


Emilio Luigi Parlato



 

CAPITOLO IV

 

Ricordi tripolini di   gioventù

  

La mia infanzia 

Finora ho raccontato episodi della mia vita, avvenuti quando ero già in e matura, questa volta vorrei soffermarmi su avvenimenti accaduti prima del 1943, sconosciuti ai giovani nati dopo quella data, stuzzicando i  ricordi di quelli della mia età, ma continuando sempre a  parlare  di  Tripoli,  nome  caro  a  tanti  di  noi,  che  vi hanno vissuto.

Sono nato in questa bella città da genitori siciliani, che si chiamavano Carmela Sferrazza e Antonio Parlato. Carmela  era  nata a  Castrofilippo  il  2  Dicembre  1892, aveva  altri  fratelli  più grandi,  di  cui  uno,  Salvatore, stabilito  da alcuni  anni  in America.  Nel  1908,  i  fratelli più grandi decisero di raggiungerlo negli Stati Uniti, per cercare fortuna, portando con loro anche la sedicenne Carmela, che con una sorella cominciò a lavorare in laboratori tessili, mentre i maschi si dedicarono alla manutenzione   bituminosa   della   strade,   incontrando tanti altri siciliani, che come  loro si adattavano ai lavori più umili e pesanti.

Il mio Atto di Nascita

Mio padre era nato a Favara il 19 Marzo 1888. Anche lui era emigrato in America e aveva intrapreso la strada di molti come lui, incontrando nel luogo di lavoro dei castrofilippesi. Quando si vive lontano dalla patria, conoscere persone che abitavano vicino al tuo paese dorigine, sembra di respirare la stessa aria, per cui il giovane  Antonio,  lavorando  con  i maschi  della  famiglia Sferrazza,   si   era   talmente   sentito   parte   di   loro,   da conoscere e frequentare anche il resto della famiglia, il ramo femminile, per cui presto Carmela e Antonio, attraverso vari inviti, simpatizzarono, tanto che, quando al principio del 1911, i fratelli Sferrazza decisero di ritornare  al  paesello,  Antonio,  pur  non  facendo  parte della famiglia, decise di fare altrettanto. Naturalmente anche tra Favara e Castrofilippo ci si scambiava qualche visita e lamicizia continuava. Proprio quell’anno lItalia aveva   intrapreso   una   guerra   con   la  Turchia   per   il possesso della Libia.

La vinse e molti avventurosi giovani vi si recarono, per trovare una sistemazione migliore. Tra questi intrepidi garibaldini cera Antonio, mai stanco di provare altre emozioni, che, prima della partenza, andò a salutare la famiglia  Sferrazza,  promettendo  alla  giovane Carmela che sarebbe ritornato.

Erano  i  primi  anni  del  1912.  In  quella  terra  deserta, tutto si doveva costruire e creare dal nulla e lui cominciò con   quello   che  sapeva   fare:   il   falegname.   Aprì   una bottega, costruendo con le proprie mani mobili e suppellettili, che servivano ai nuovi abitanti di Tripoli. Il suo pensiero però era rivolto a Castrofilippo, a quella giovane, a quella promessa.

Infatti nei primi mesi del 1913 ritornò, si presentò alla famiglia Sferrazza, accompagnato dai suoi genitori e il 4 Maggio 1913 Antonio e Carmela, uniti in matrimonio, compirono il viaggio di nozze alla volta di Tripoli, sulla motonave   Arborea.   Le   cose  andarono   bene   per   il giovane Antonio, che, con laumento della famiglia, ebbe il  coraggio  di  iniziare  una  nuova  attività, aprendo,  in una  via  molto  centrale  di  Tripoli,  corso  Vittorio Emanuele, un bar, che intitolò Concordia. Si trovava di fronte al Palazzo di Giustizia, perciò era frequentato da tanta gente e funzionari del palazzo e per essi mio padre produceva   tante   specialità   come   la   granita   di   puro limone  in  estate  e  i  pupi  di  zucchero  nel periodo  dei morti.

Era  il  14  Maggio  1923,  quando  ho  visto  la  luce,  in Zenghet   Hassuna   Pascià   n.12.   Sebbene   fosse   una piccola  strada,  si trovava  al centro  della  cit  ed univa due grosse arterie importanti, corso Vittorio Emanuele e via Lombardia, poi diventata via Costanzo Ciano. Il mio arrivo è stato accolto con grande festa da mamma, papà, mio fratello Vincenzo, di 9 anni, Angela di 8 e Carmelo, che anni ne aveva 3. Nel 1929 è nata lultima, Maria, quando  io avevo già 6 anni e frequentavo  la scuola dei Fratelli Cristiani,  in  via  Roma.  Conservo  di  quellanno, una foto  di gruppo  con i due Fratelli,  insegnanti  e noi, 39  alunni,  con  il  tricolore  al  centro.  Poi  sono  passato alla  scuola  Roma  per completare  le  elementari.  Nella scuola cattolica era stato possibile iscrivermi senza presentare documenti; passando alla scuola Roma, pubblica, che richiedeva un documento di identità, mia madre, al Comune, si trovò di fronte ad una grande sorpresa. Il figlio, che per sette anni aveva conosciuto e chiamato Luigi, aveva un primo nome Emilio. Il mistero si svelò a casa, quando mio padre, messo alle strette, confessò che, dato che ero il terzo figlio maschio e padre e suocero erano stati accontentati nel nome, recandosi allufficio anagrafe con laccordo, tra marito e moglie di chiamarmi Luigi, in un impeto di ribellione e di novità, pensò ad un nome nuovo per la famiglia, chiamandomi Emilio Luigi. Ma, molto coraggiosamente, di questa decisione, non fece parola con nessuno, tanto che tutti, e  anche  lui,  mi  chiamavano  solo  Luigi.  Dopo,  con  il passare  degli  anni,  essendo  tutti  abituati  a chiamarmi così, sono rimasto Luigi o Luigino; anche per i Castrofilippesi sono ancora zi Luigì e per i miei nipoti nonno  Gigi.  Uso  Emilio  per  le  firme  ufficiali  e  per  il codice fiscale.

Alla  scuola  pubblica  avevo  un  bravo  maestro  Mario Villani, che era molto severo e pretendeva il massimo dell’attenzione, usando, qualche volta, la bacchetta sulle nostre   mani.  Anche   di   questa scuola  ho  le   pagelle, quella  del  33  e  quella  del  36  con  scritte un  po  in grassetto Opera Balilla e fasci Littori, infatti eravamo inquadrati alla G.I.L. Gioventù Italiana del Littorio, che un po nelle ore  di educazione fisica e un po il sabato pomeriggio, chiamato sabato fascista, ci teneva in forma, nelle palestre e negli stadi dove avveniva pure il saggio ginnico il 24 maggio, anniversario dellentrata dellItalia nella prima guerra mondiale.

Tripoli,  Scuola Roma, 1934 - Pronti per il saggio ginnico (io sono il 4° in piedi da sinistra)

Si partecipava   con   grande   entusiasmo   prima   come Balilla, poi come avanguardista, quindi come giovane Fascista,  secondo letà. La  nostra  divisa ginnica consisteva in un paio di pantaloncini neri, una maglietta bianca a maniche corte, orlata da una fettuccia nera alle maniche  e al  collo,  al  centro del  petto  un fascio  con fronde   ai   lati   e   scarpette   da   ginnastica.   Le  giovani Italiane portavano  scarpette  da  ginnastica,  calzini bianchi,  gonna nera  a pieghe, camicetta  aderente  al corpo, con una grande M, che simboleggiava il nome del Duce.  Oltre  la scuola  frequentavo  pure la  chiesa  e  mi rivedo in Cattedrale ad ascoltare la messa domenicale e al  catechismo del  pomeriggio,  e  dopo  la  benedizione, tutti  di  corsa,  passando  dalla  sacrestia  e dal cortile attorno al campanile, a prendere i posti migliori per assistere   alle  proiezioni   del  cinema   parrocchiale.   Mi ricordo di aver visto un film con Amedeo Nazzari, era Luciano  Serra pilota, che impersonava  uno dei  nostri eroi   nella   guerra   in  Abissinia.   Ricordo   il   vescovo Vittorino Facchinetti,  padre Umile Oldani,  padre Illuminato Colombo, questultimo molto amico della mia famiglia. Aveva labitudine di andare in bicicletta e passando per Collina Verde, dove abitavano ormai i miei genitori, si fermava per riposare, prima di raggiungere la chiesetta di quella zona, accettava una bibita, chiacchierando   cordialmente,   sotto   un   bellalbero  di limone lunario.

Durante il periodo scolastico, mio fratello Carmelo ed io abbiamo avuto lidea di allevare bachi da seta, naturalmente  per hobby, non per commercio,  anche se ciò   ci   portava   via   molto   tempo  che   doveva   essere dedicato  allo  studio.  Alcuni  coetanei  ci  hanno  fornito delle  uova  di  bachi,  attaccati  su  un  grande  foglio di carta bianca, per come erano state deposte dalla farfalla; erano grandi come una testa di spillo, di colore giallo e diventavano scuri man mano che il baco incominciava la sua vita, poi dopo circa tre mesi di incubazione, nasceva un vermetto dalla grandezza di tre millimetri, che forava luovo.  Noi  sempre  attenti  a  questi  eventi che aspettavamo con ansia, eravamo già pronti con le più piccole e tenere foglie di gelso, di cui loro si cibavano voracemente.

I primi tempi della nascita erano i più faticosi, ci voleva tanta attenzione e cura, perché i bachi erano così piccoli che     quasi    non   si   vedevano,   ma  mangiavano continuamente. Quando diventavano grandi come una sigaretta e  prendevano   un   bel   colorito   giallo   dorato salivano su dei rametti a croce, che noi ci eravamo procurati negli alberi di gelso, cominciavano a tessere la seta, chiudendosi nel bozzolo, dove restavano chiusi, trasformandosi in crisalide. Quando questa rompeva il bozzolo  e  ne usciva,  divenuta  farfalla,  il  nostro gioco-lavoro era terminato.

Andando ancora un po indietro nel tempo, chi si ricorda di Busadiya? Era un vecchietto smilzo e magro, aveva appesi  al  corpo  dalla  testa  ai  piedi molte  cose,  lattine, specchietti  e  ossa  che producevano  strani  suoni, facendoli dondolare con i suoi movimenti. Aveva anche il tamburo,   che  annunziava   il   suo  arrivo,   e   quando qualche  spettatore  gli  buttava  una  monetina, con una finta battaglia, la faceva scomparire, catturandola, e così viveva con poco, divertendo noi ragazzi.

Continuando   a   parlare   di   vecchie   usanze,   non   si possono dimenticare i forni arabi. Erano proprio caratteristici, si indovinava la loro presenza, dal buon odore che sprigionavano. Si entrava da un portoncino abbastanza largo e al piano terra si trovava un assito in tavole che serviva ad appoggiare ciò che ognuno portava da infornare.  Dopo  queste  tavole  cera  una  buca  larga circa sessanta centimetri, dove stava il fornaio, che si vedeva solo dalla cintola in su e che aveva alle spalle il forno,  dove  veniva  cotto tutto  ciò che la gente  portava, dietro pagamento di pochi soldi, che lui faceva scivolare in  una fessura  fatta  apposta  sull’assito. Anche  io  sono stato assiduo frequentatore di quei forni, infatti mia mamma,  con  laiuto  di  mia sorella Angela preparava  a volte pane,  pietanze,  biscotti, battezzati  da  noi tripolini”,  e  incaricava me o mio  fratello  di portarli  al forno  arabo  più  vicino,  che  si trovava  in  via  Liguria, strada che andando in su e girando a sinistra sboccava in  via  Vittorio  Veneto,  conosciuta  dai  vecchi tripolini come Sciara Macchìna. Avevamo preso labitudine di consumare queste delizie, anche quando andavamo tutti al bosco Littorio, che si trovava tra porta Benito e porta Azizia, allombra degli eucaliptus, per festeggiare la Pasquetta.

Il bosco Littorio, allorigine era unampia area sabbiosa; negli ultimi anni venti, durante il governatorato di Badoglio, fu trasformata in parco pubblico, ombreggiato da gigantesche piante di eucaliptus , dove le famiglie passavano  intere  giornate.  Un’altra  opera  memorabile per la realizzazione dovuta alla volontà ed intelligenza italiana,  fu  nei  primi  anni  trenta,  la  via  Balbia,  che univa la Tripolitania alla Cirenaica, mentre prima le due provincie erano di fatto materialmente separate. Prima della litoranea, le poche agevoli piste del gran deserto sirtico potevano essere difficilmente attraversate a causa delle sabbie invadenti. La nuova strada di circa 2000 chilometri lungo tutto il litorale  libico, con i suoi pontile case cantoniere disseminate ogni 50 chilometri, per la sua continua manutenzione, rese rapido ed agevole il percorso. E stata sfruttatissima la barzelletta secondo la quale Balbo dice orgogliosamente a dei capi tribù in un ricevimento a palazzo:- Vedete? Prima con le vostre carovane   impiegavate   tre   settimane  per   andare   da Tripoli a Bengasi, ora ci potete arrivare in una sola giornata!-  -E  vero,  risponde   il capo  tribù,  ma  cosa faremo negli altri venti giorni?-

Nel  periodo  estivo,  ogni  anno  mio  papà  prendeva  in affitto sulla spiaggia, nella zona chiamata tomba dei Caramanli, sul lungomare Badoglio, un pezzetto di terra, con lobbligo di sistemarvi una cabina in legno. Essendo mio papà falegname, ne ha costruito una con la collaborazione di tutti noi, quella era una abitazione che usavamo per tre mesi e qualche volta qualcuno di noi restava a dormire, potendo ammirare il mare di sera e ai primi albori. Proprio di mattina presto, prima che la spiaggia si popolasse, mio fratello Carmelo ed io praticavamo un tipo personale di pesca subacquea. Prendevamo due pentole grosse e profonde, attaccavamo al loro fondo un impasto di mollica di pane e formaggio grattugiato   e   le  coprivamo   con  un   panno   bianco, lasciando un foro di circa tre centimetri al centro. Con le pentole, andavamo in mare, fino a che l’acqua non ci arrivava al mento, piano piano, facevamo riempire le pentole    dal    buco,   e    le    depositavamo    sul   fondo,ritornando a riva. Dopo un po di tempo ritornavamo  al largo, correndo quando l’acqua ci arrivava ai ginocchi e allo  stomaco, rallentando quando  ci  arrivava  al  collo. Tenevamo  gli occhi aperti  anche sott’acqua  e potevamo vedere  uninfini  di pesci che gironzolavano  attorno  al buco della tela per entrarvi, fino a riempire la pentola. Rapidamente  a  testa  in  giù,  la  afferravamo con  una mano,  chiudendo  con  l’altra  il  buco,  avviandoci verso riva,  portando   in  trionfo   il  nostro   bottino.   Questa operazione veniva  ripetuta,  fino  ad  ottenere  un  pasto abbondante per tutta la famiglia. Da ragazzo, dopo le ore scolastiche,  ho  lavorato presso  una  parrucchiera  per signora, al  pian  terreno  del  palazzo  Gadzinschi,  in  via Vittorio   Veneto,  prima   d’arrivare   alla  Cattedrale.   La proprietaria  era  triestina, la signorina  Ines Kavalla.  Ho cominciato   come ragazzo   di bottega,  poi  ho  preso  a rispondere  al  telefono,  prendere appuntamenti  e  fare qualche shampoo. Quando la Ines faceva le ondulazioni, io  riscaldavo  e  le  porgevo  i  ferri  adatti,  che dovevano essere ben caldi, ma non bruciare i capelli. Per sentirne il  calore,  avvicinavo  il ferro alla guancia,  se era  troppo caldo,  lo  facevo  roteare  velocemente,  per  raffreddarlo  e poi  glielo porgevo;   con   essi   Ines   creava   delle   belle pettinature. Con me lavoravano altre due ragazze, ma la più brava era la Ines. Una volta si è assentata per una ventina  di  giorni,  per andare in Italia,  ci  ha  affidato  il suo salone, alle ragazze il lavoro di parrucchiera, a me le chiavi del negozio, la cassa, il libro ho delle entrate e uscite, compito che io svolto con gran serie e precisione. Al suo  ritorno,  Ines  ha  trovato  tutto  a  posto  e  mi  ha elogiato. Ma quel viaggio era servito per tastare il terreno nella  sua  città  e ben  presto  vi  è  ritornata,  cantando Trieste mia.

LOfficina

Mentre  ero  ancora  a  scuola,  lItalia si  preparava  alla guerra in Africa orientale, era il 1935. I nostri soldati guidati   da   due   grandi  generali,   Badoglio   dal   fronte eritreo e Graziani dal fronte somalo, con travolgenti manovre, dopo aver occupato Adua, Amba Alagi e altri punti nevralgici, ben presto presero Adis Abeba e tutto il resto del territorio, sconvolgendo lesercito etiope. Con questa conquista il nostro re poteva fregiarsi del titolo di Imperatore dEtiopia. Io da casa mia seguivo con molta attenzione e amor patrio tutti i commenti dati per radio, in una parete tenevo appesa una grande carta dellAbissinia, dove cerano segnate tutte le locali e ad ogni conquista, vi spillavo una bandierina. Ho sempre avuto la passione per la meccanica, che poi è diventato il mio mestiere.

Nel 1935 sono entrato come apprendista nelle officine Santagati e Covato e ho avuto la fortuna di essere assegnato  ad  un  bravo maestro.  Questa     officina  si trovava   in   corso   Sicilia,   quasi   di  fronte   al   palazzo Tascone, era autorizzata  ed ha vinto la gara di appalto con le forze armate italiane, per la riparazione di tutti i mezzi fuori uso.  Al  principale  venivano  assegnate  dalle autorità 15 macchine  da rimettere  a nuovo,  per lo  più camionette 615, camion 38 SPA , lancia3RO. Venivano portate  al nostro  deposito ed ogni reparto  faceva il suo lavoro, chi in carrozzeria, chi in verniciatura, chi

allimpianto elettrico, chi di frenatura e noi al motore, cambio e differenziale. Il mio maestro ed io prendevamo in consegna un motore, che veniva sistematicamente smontato  e pulito,  si  portavano al  comando  militare  i pezzi fuori uso che venivano sostituiti  con quelli nuovi. Io,   con   del  cartoncino,  facevo   tutte   le   guarnizioni occorrenti e pronte per il montaggio. Porgevo al maestro i  pezzi,    bulloni   dadi,   tutti    puliti   ed  allineati   per grandezza e misura, il motore veniva montato e si faceva rullare nel banco prova. Con il tempo, il maestro ha cominciato a farmi montare qualche pezzo, controllando tutto, ma dandomi sempre più fiducia. Quando il mezzo era pronto in tutte le sue parti e rimesso a nuovo, veniva caricato con delle zavorre, tali, da raggiungere la sua portata e passava al controllo e revisione dellesercito. Passata la revisione, si consegnavano i mezzi rimessi a nuovo, se ne prendevano altri dal deposito dellesercito e si ricominciava da capo.

Durante  la  corsa  automobilistica  dei  Milioni,  abbinata alla   Lotteria   di   tutta   Italia,  arrivavano  a  Tripoli, le macchine da corsa con le loro scuderie, che venivano ospitate in varie officine o autorimesse, nei giorni antecedenti  la  corsa.  Una  di  queste officine  era  quella dove lavoravo  io in Corso Sicilia.  Per  noi  quei giorni erano una festa, specialmente per quelli della mia età. I loro meccanici ci permettevano di curiosare e di toccarele grosse ruote e qualche volta anche dare una mano a spingere  le macchine,  a metterle  in moto e posteggiarle nei box, di cui la nostra officina era dotata, mentre fuori, al cancello, la gente si affollava curiosa, e tanti miei coetanei mi pregavano di farli avvicinare e io mi sentivo invidiato  e  pieno  di  gioia.  Poi  quando si  disputava  la corsa, mio fratello ed io avevamo il permesso dei miei genitori di allontanarci fino al circuito della Mellaha. Arrivavano i più forti assi internazionali di allora, Achille Varzi, Tazio Nuvolari, Brilli Peri, Taruffi, Borzacchini, vi erano anche piloti stranieri come Langh ed altri, che con le loro Mercedes ed Autounion, davano del filo da torcere alle  nostre  Alfa  Romeo, Maserati,  ecc. 

Achille Varzi Tazio Nuvolari Hermann Lang

Allo  stadio  di Tripoli venivano pure i più famosi ciclisti, Bartali, Magni, nella pista, attorno  al campo  da gioco facevano  le  loro competizioni di velocità, di americana a coppie e qui, io, attaccato alla rete di protezione, sistemata tra le tribune e la  pista,  ho  avuto  la  fortuna  di  parlare  e  toccare Bartali, che si era fermato proprio davanti a me, per aspettare  il compagno che faceva il suo turno di corsa. Che  grande  emozione!  

Fiorenzo Magni Gino Bartali

Queste  sono continuate assistendo alle gare dei corridori tripolini, con il trio più in vista degli assi del pedale Cason, Berti, Vella. Tripoli si  è distinta  anche  nel  pugilato,  con  il  bravo  e  forte Santino De Leo, peso massimo,  che  aveva il mulino in sciara  Maccna  e noi assistendo  ai suoi incontri  ed ai suoi  poderosi  uppercut  e pesanti  diretti,  lo  incitavamo gridando  dai  sciara  Macchìna.  E  arrivato  a conquistare il titolo di campione europeo. Un altro bravo campione  è  stato  Vincenzo Anastasi,  che  conquistò  il titolo europeo dei pesi mosca. Era molto dinamico, sembrava   danzasse  sul   ring,   mentre   combatteva   e metteva a segno i suoi veloci diretti e i suoi ripetuti uno-due.   Con  lui   ho   avuto   più  vicinanza,   perché,   dopo sposato,  sono andato  ad  abitare  in  via  Raffaello,  31. Questa strada cominciava da Corso Sicilia e finiva in via Ponchielli. Tra queste due grosse vie, ve ne erano altre trasversali, come  via Bellini,  via  Verdi, via Vignola, via Canova, in  una  di  queste  vi  era  lui,  Vincenzino,  che aveva il panificio dove io ogni mattina compravo il pane. Era bello rivedersi dopo un suo incontro e discutere e complimentarsi della sua vittoria sul ring.

Anche il nuoto aveva la sua importanza e si concludeva con  la gara  regina  annuale  della  traversata  del  porto, dove si cimentavano i più forti nuotatori fondisti. Non dimentichiamoci del calcio. A Tripoli vi erano diverse squadre  dilettanti, che  facevano furore  e  si distinguevano, come lIttiad, con l’attaccante Zentuti, bravissimo  a  realizzare  bei  gol.  Un  avvenimento  che merita essere ricordato e al quale ho assistito personalmente è stato larrivo di Mussolini a Tripoli. Era il 18 Marzo 1937. Da qualche settimana prima del suo arrivo, ogni sera, perché doveva arrivare di sera, si provavano  lilluminazione,  le sfilate  dei meharisti,  con i loro cammelli, che procedevano  a passo ondeggiante, e, al suono delle trombe, i reparti di cavalleria al galoppo. Io partecipavo pure per quello che mi competeva, inquadrato nei reparti della gioventù. Dopo le prove, la grande notte è arrivata, con lentusiasmo di tanti, mai si era vista Tripoli così illuminata a giorno, imbandierata e festosa. Il Duce arrivava da Bengasi, percorrendo la via Balbia, opera grandiosa, che univa la Cirenaica alla Tripolitania, da poco costruita e che portava il nome del governatore. Arrivato  a  Tripoli, Mussolini  percorse   a cavallo  tutto  il  lungomare  Volpi,  poi  si  è immesso  in piazza Castello, dove, sempre a cavallo, ha tenuto un discorso. Ha proseguito per corso Vittorio, passando davanti la Cattedrale, e ancora fino al palazzo del governatore,  anche questo inondato di luce. Mi sentivo, e  sicuramente  anche  tanti  altri,  orgoglioso  di appartenere  ad  un  popolo  così  glorioso.  Poi  gli avvenimenti sono precipitati, ma nessuno quella notte avrebbe immaginato come.

Quando  gli Italiani  erano  arrivati  a Tripoli,  nel  lontano 1911, (tra essi cera mio padre), avevano trovato solo deserto;   la   loro  industriosi   rese   quel  deserto   un giardino. La colonizzazione agricola fu una delle cose più belle  creata,  poi,  nel   periodo  fascista.   Nacquero   dal nulla,  nel  deserto, popolati  dai  coloni,  interi  villaggi, come Oliveti , Bianchi, Giordani, Breviglieri, Crispi, Garibaldi, Micca, Marconi ed altri.

La   mattina   del   3   novembre   1938   fu   una   giornata veramente storica  per la  Libia.  Più  di  una decina  fra  i più grandi piroscafi italiani, tra i quali anche qualche transatlantico,   tutti   imbandierati   e   inalberati   con   il gran Pavese”,  arrivarono  nel porto  di  Tripoli,  con  un carico  di  ventimila  italiani, venuti  ad arricchire  con  il loro  lavoro  la  Quarta  sponda.  Da  quelle  navi sbarcarono  tutti  i  ventimila,  uomini,  donne,  bambini e con   un  lungo  corteo,   ordinato,   a   piedi,   dal   porto arrivarono  fino  a  piazza  Castello.  Era  una  fiumana  di gente, che silenziosa, camminava in mezzo ad ali di folla plaudente. Assistevo commosso a questo grandioso spettacolo, pensando che anche la mia famiglia ed io, avevamo contribuito, con il lavoro, a rendere più bella Tripoli. Dalla piazza Castello, dopo il discorso del Governatore della Libia Italo Balbo e la benedizione del Vescovo Facchinetti, i ventimila partirono alla volta dei loro villaggi, a bordo di centinaia   di   automezzi   militari.  

Il Governatore della Libia Italo Balbo Il Vescovo Mons. Vittorino Facchinetti

Al  loro   arrivo,   ogni famiglia trovò una bella casetta arredata, la mucca, il pollaio,  un   pezzo   di  terreno   da  coltivare   e   tutti   gli attrezzi agricoli. Quei villaggi, con il lavoro dei coloni italiani,  poi sono  diventati  centri  abitati,  dove  gli  arabi del luogo hanno visto che anche dalla sabbia, potevano nascere alberi, ulivi, viti, aranceti.

La guerra a Tripoli

Nel 1939 lEuropa entrò in guerra, e noi a Tripoli incominciammo  a sentire le prime privazioni  di beni, di cui fino a quel momento avevamo beneficiato. Nel pomeriggio del 10 giugno 1940 il popolo di Tripoli sentì alla radio e nelle piazze il discorso del Duce, che aveva dichiarato  guerra  alla  Francia  e  alla  Gran  Bretagna; anche io ero lì, illudendomi, come tanti altri che sarebbe stata  una passeggiata.  Ma  la  stessa  sera,  subimmo  il primo bombardamento da aerei francesi, partiti dalla Tunisia.  Questo  fu il  primo  shock,  giunto  così rapidamente   e   inaspettato.   Ma   un  altro   ne   doveva ancora arrivare, la morte improvvisa di Italo Balbo, che, nel   recarsi   ad   ispezionare   le   truppe  al   confine  con lEgitto, a bordo di un SM79, era stato abbattuto dalla nostra stessa contraerea, che si trovava sulla nave San Giorgio, ancorata nel porto di Tobruk.

La  notizia  fu  accolta  con  grande  sbalordimento,  ma anche col dispiacere di aver perso, così banalmente, per un  errore,  si disse, di  identificazione,  un personaggio tanto rispettato anche dai nemici ed avversari.

Allimponente   funerale,   formato   da   otto   bare,   il   29 giugno 1940, partecipammo  tutti,  nessuno  escluso.  Al suo  posto  fu nominato  il  generale  Rodolfo  Graziani, perché generale dellesercito e protagonista in Etiopia, mentre  Balbo  era  stato  un triumviro  della  marcia  su  Roma.

A  Tripoli  cominciò  la  vera  guerra,  continui bombardamenti di aerei inglesi provenienti da Malta, ci costringevano a correre dentro i rifugi e nelle campagne fuori città. Noi abitavamo a Collina verde, distante tre chilometri da Tripoli, e lì, chi dentro casa, chi attendato nel  giardino  adiacente,  passavamo  le  notti.  Nella  notte del 21 Aprile 1941, dopo unora di bombardamenti, abbiamo   visto,   come   dincanto,   tutto   illuminato.   Gli aerei  inglesi  avevano  sganciato  dei  razzi  illuminanti,  a cui erano agganciati  dei  piccoli  paracadute;  quelle  luci erano i segnali dei luoghi da colpire. Mentre noi guardavamo quelle luci, si scatenò il finimondo. Per quarantacinque  minuti  si  sentirono  passare  proiettili, non  più  sopra  le nostre  teste,  ma  striscianti,  perché erano  proiettili  da  305  sparati  dalle navi  della  flotta inglese. Lindomani, scendendo in città, trovammo un disastro, Tripoli era irriconoscibile, ovunque macerie di fabbricati  che  erano stati  distrutti,  senza  incontrare  la più piccola resistenza da parte nostra. Al porto oltre alla distruzione di navi, sul piazzale davanti al nostro bar, trovammo un proiettile da 305 inesploso, che aveva centrato in pieno il faro ed era venuto a cadere davanti al bar. Dopo che i genieri lo resero innocuo, con lincoscienza  della  gioventù,  mi  feci  scattare  una  foto, con un piede sopra, come se fosse stato preda di guerra. Il rifugio  della Banca dItalia, invece, era stato  centrato in pieno da uno di quei proiettili, che esplodendo, aveva provocato  tanti  morti;  esso  era  stato  costruito  per  le bombe aeree, ma non ha resistito a quelle navali, che provenivano orizzontalmente.

La  guerra  negli  anni  40-41  in  Africa  settentrionale  si svolse aspra da tutti e due i fronti, Graziani avanzò con le truppe italiane oltre il confine con lEgitto fino ad occupare  Sidi  Barrani  e  Massa  Matruk,  ma  non  andò oltre. I miei due fratelli più grandi erano sui fronti di combattimento. Gli inglesi e gli italo-tedeschi, comandati dal generale Rommel, la volpe del deserto, si

fronteggiavano,   finchè   lesercito   inglese,   travolgendo quello tedesco, entrò a Tripoli, era il 23 gennaio 1943. Questa volta, non ho potuto seguire questa guerra, segnando le vittorie con le bandierine, come avevo fatto con  quella  dEtiopia,  sia  perché  non  ci  furono  vittorie, sia  perché lho  vissuta  sulla  mia  pelle  e  cera  poco  da stare  allegri.  Arrivato  a  questo  punto  delle  mie narrazioni e dalle date, mi accorgo che anche la mia gioventù è passata, ma mi restano, intatti, tutti i ricordi. Termino,  salutando  tutti  i  lettori,  ma  in  particolare  il caro  Paolo  Cason,  che  con  la  sua  tenacia,  continua  a tenere vivo il suo sito e a tenerci uniti, a lui va un indimenticato ricordo e un grazie di cuore.

Pianta di Tripoli - anni '30    (clicca sulla foto per ingrandirla)

 



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