CAPITOLO
IV
Ricordi
tripolini
di
gioventù
La
mia
infanzia
Finora
ho
raccontato
episodi
della
mia
vita,
avvenuti
quando
ero
già
in
età
matura,
questa
volta
vorrei
soffermarmi
su
avvenimenti
accaduti
prima
del
1943,
sconosciuti
ai
giovani
nati
dopo
quella
data,
stuzzicando
i
ricordi
di
quelli
della
mia
età,
ma
continuando
sempre
a
parlare
di
Tripoli,
nome
caro
a
tanti
di
noi,
che
vi
hanno
vissuto.
Sono
nato
in
questa
bella
città
da
genitori
siciliani,
che
si
chiamavano
Carmela
Sferrazza
e
Antonio
Parlato.
Carmela
era
nata
a
Castrofilippo
il
2
Dicembre
1892,
aveva
altri
fratelli
più
grandi,
di
cui
uno,
Salvatore,
stabilito
da
alcuni
anni
in
America.
Nel
1908,
i
fratelli
più
grandi
decisero
di
raggiungerlo
negli
Stati
Uniti,
per
cercare
fortuna,
portando
con
loro
anche
la
sedicenne
Carmela,
che
con
una
sorella
cominciò
a
lavorare
in
laboratori
tessili,
mentre
i
maschi
si
dedicarono
alla
manutenzione
bituminosa
della
strade,
incontrando
tanti
altri
siciliani,
che
come
loro
si
adattavano
ai
lavori
più
umili
e
pesanti.
|
Il mio
Atto di Nascita |
|
|
Mio
padre
era
nato
a
Favara
il
19
Marzo
1888.
Anche
lui
era
emigrato
in
America
e
aveva
intrapreso
la
strada
di
molti
come
lui,
incontrando
nel
luogo
di
lavoro
dei
castrofilippesi.
Quando
si
vive
lontano
dalla
patria,
conoscere
persone
che
abitavano
vicino
al
tuo
paese
d’origine,
sembra
di
respirare
la
stessa
aria,
per
cui
il
giovane
Antonio,
lavorando
con
i
maschi
della
famiglia
Sferrazza,
si
era
talmente
sentito
parte
di
loro,
da
conoscere
e
frequentare
anche
il
resto
della
famiglia,
il
ramo
femminile,
per
cui
presto
Carmela
e
Antonio,
attraverso
vari
inviti,
simpatizzarono,
tanto
che,
quando
al
principio
del
1911,
i
fratelli
Sferrazza
decisero
di
ritornare
al
paesello,
Antonio,
pur
non
facendo
parte
della
famiglia,
decise
di
fare
altrettanto.
Naturalmente
anche
tra
Favara
e
Castrofilippo
ci
si
scambiava
qualche
visita
e
l’amicizia
continuava.
Proprio
quell’anno
l’Italia
aveva
intrapreso
una
guerra
con
la
Turchia
per
il
possesso
della
Libia.
La
vinse
e
molti
avventurosi
giovani
vi
si
recarono,
per
trovare
una
sistemazione
migliore.
Tra
questi
intrepidi
garibaldini
c’era
Antonio,
mai
stanco
di
provare
altre
emozioni,
che,
prima
della
partenza,
andò
a
salutare
la
famiglia
Sferrazza,
promettendo
alla
giovane
Carmela
che
sarebbe
ritornato.
Erano
i
primi
anni
del
1912.
In
quella
terra
deserta,
tutto
si
doveva
costruire
e
creare
dal
nulla
e
lui
cominciò
con
quello
che
sapeva
fare:
il
falegname.
Aprì
una
bottega,
costruendo
con
le
proprie
mani
mobili
e
suppellettili,
che
servivano
ai
nuovi
abitanti
di
Tripoli.
Il
suo
pensiero
però
era
rivolto
a
Castrofilippo,
a
quella
giovane,
a
quella
promessa.
Infatti
nei
primi
mesi
del
1913
ritornò,
si
presentò
alla
famiglia
Sferrazza,
accompagnato
dai
suoi
genitori
e
il
4
Maggio
1913
Antonio
e
Carmela,
uniti
in
matrimonio,
compirono
il
viaggio
di
nozze
alla
volta
di
Tripoli,
sulla
motonave
“Arborea”.
Le
cose
andarono
bene
per
il
giovane
Antonio,
che,
con
l’aumento
della
famiglia,
ebbe
il
coraggio
di
iniziare
una
nuova
attività,
aprendo,
in
una
via
molto
centrale
di
Tripoli,
corso
Vittorio
Emanuele,
un
bar,
che
intitolò
Concordia.
Si
trovava
di
fronte
al
Palazzo
di
Giustizia,
perciò
era
frequentato
da
tanta
gente
e
funzionari
del
palazzo
e
per
essi
mio
padre
produceva
tante
specialità
come
la
granita
di
puro
limone
in
estate
e
i
“pupi”
di
zucchero
nel
periodo
dei
morti.
Era
il
14
Maggio
1923,
quando
ho
visto
la
luce,
in
Zenghet
Hassuna
Pascià
n.12.
Sebbene
fosse
una
piccola
strada,
si
trovava
al
centro
della
città
ed
univa
due
grosse
arterie
importanti,
corso
Vittorio
Emanuele
e
via
Lombardia,
poi
diventata
via
Costanzo
Ciano.
Il
mio
arrivo
è
stato
accolto
con
grande
festa
da
mamma,
papà,
mio
fratello
Vincenzo,
di
9
anni,
Angela
di
8
e
Carmelo,
che
anni
ne
aveva
3.
Nel
1929
è
nata
l’ultima,
Maria,
quando
io
avevo
già
6
anni
e
frequentavo
la
scuola
dei
Fratelli
Cristiani,
in
via
Roma.
Conservo
di
quell’anno,
una
foto
di
gruppo
con
i
due
Fratelli,
insegnanti
e
noi,
39
alunni,
con
il
tricolore
al
centro.
Poi
sono
passato
alla
scuola
Roma
per
completare
le
elementari.
Nella
scuola
cattolica
era
stato
possibile
iscrivermi
senza
presentare
documenti;
passando
alla
scuola
Roma,
pubblica,
che
richiedeva
un
documento
di
identità,
mia
madre,
al
Comune,
si
trovò
di
fronte
ad
una
grande
sorpresa.
Il
figlio,
che
per
sette
anni
aveva
conosciuto
e
chiamato
Luigi,
aveva
un
primo
nome
Emilio.
Il
mistero
si
svelò
a
casa,
quando
mio
padre,
messo
alle
strette,
confessò
che,
dato
che
ero
il
terzo
figlio
maschio
e
padre
e
suocero
erano
stati
accontentati
nel
nome,
recandosi
all’ufficio
anagrafe
con
l’accordo,
tra
marito
e
moglie
di
chiamarmi
Luigi,
in
un
impeto
di
ribellione
e
di
novità,
pensò
ad
un
nome
nuovo
per
la
famiglia,
chiamandomi
Emilio
Luigi.
Ma,
molto
coraggiosamente,
di
questa
decisione,
non
fece
parola
con
nessuno,
tanto
che
tutti,
e
anche
lui,
mi
chiamavano
solo
Luigi.
Dopo,
con
il
passare
degli
anni,
essendo
tutti
abituati
a
chiamarmi
così,
sono
rimasto
Luigi
o
Luigino;
anche
per
i
Castrofilippesi
sono
ancora
“zi
Luigì”
e
per
i
miei
nipoti
nonno
Gigi.
Uso
Emilio
per
le
firme
ufficiali
e
per
il
codice
fiscale.
Alla
scuola
pubblica
avevo
un
bravo
maestro
Mario
Villani,
che
era
molto
severo
e
pretendeva
il
massimo
dell’attenzione,
usando,
qualche
volta,
la
bacchetta
sulle
nostre
mani.
Anche
di
questa
scuola
ho
le
pagelle,
quella
del
‘33
e
quella
del
‘36
con
scritte
un
po’
in
grassetto
Opera
Balilla
e
fasci
Littori,
infatti
eravamo
inquadrati
alla
G.I.L.
“Gioventù
Italiana
del
Littorio”,
che
un
po’
nelle
ore
di
educazione
fisica
e
un
po’
il
sabato
pomeriggio,
chiamato
sabato
fascista,
ci
teneva
in
forma,
nelle
palestre
e
negli
stadi
dove
avveniva
pure
il
saggio
ginnico
“il
24
maggio”,
anniversario
dell’entrata
dell’Italia
nella
prima
guerra
mondiale.
|
Tripoli,
Scuola Roma,
1934
-
Pronti per il
saggio ginnico
(io
sono il 4° in piedi da
sinistra) |
Si partecipava
con
grande
entusiasmo
prima
come
Balilla,
poi
come
avanguardista,
quindi
come
giovane
Fascista,
secondo
l’età.
La
nostra
divisa
ginnica
consisteva
in
un
paio
di
pantaloncini
neri,
una
maglietta
bianca
a
maniche
corte,
orlata
da
una
fettuccia
nera
alle
maniche
e
al
collo,
al
centro
del
petto
un
fascio
con
fronde
ai
lati
e
scarpette
da
ginnastica.
Le
giovani
Italiane
portavano
scarpette
da
ginnastica,
calzini
bianchi,
gonna
nera
a
pieghe,
camicetta
aderente
al
corpo,
con
una
grande
M,
che
simboleggiava
il
nome
del
Duce.
Oltre
la
scuola
frequentavo
pure
la
chiesa
e
mi
rivedo
in
Cattedrale
ad
ascoltare
la
messa
domenicale
e
al
catechismo
del
pomeriggio,
e
dopo
la
benedizione,
tutti
di
corsa,
passando
dalla
sacrestia
e
dal
cortile
attorno
al
campanile,
a
prendere
i
posti
migliori
per
assistere
alle
proiezioni
del
cinema
parrocchiale.
Mi
ricordo
di
aver
visto
un
film
con
Amedeo
Nazzari,
era
Luciano
Serra
pilota,
che
impersonava
uno
dei
nostri
eroi
nella
guerra
in
Abissinia.
Ricordo
il
vescovo
Vittorino
Facchinetti,
padre
Umile
Oldani,
padre
Illuminato
Colombo,
quest’ultimo
molto
amico
della
mia
famiglia.
Aveva
l’abitudine
di
andare
in
bicicletta
e
passando
per
Collina
Verde,
dove
abitavano
ormai
i
miei
genitori,
si
fermava
per
riposare,
prima
di
raggiungere
la
chiesetta
di
quella
zona,
accettava
una
bibita,
chiacchierando
cordialmente,
sotto
un
bell’albero
di
limone
lunario.
Durante
il
periodo
scolastico,
mio
fratello
Carmelo
ed
io
abbiamo
avuto
l’idea
di
allevare
bachi
da
seta,
naturalmente
per
hobby,
non
per
commercio,
anche
se
ciò
ci
portava
via
molto
tempo
che
doveva
essere
dedicato
allo
studio.
Alcuni
coetanei
ci
hanno
fornito
delle
uova
di
bachi,
attaccati
su
un
grande
foglio
di
carta
bianca,
per
come
erano
state
deposte
dalla
farfalla;
erano
grandi
come
una
testa
di
spillo,
di
colore
giallo
e
diventavano
scuri
man
mano
che
il
baco
incominciava
la
sua
vita,
poi
dopo
circa
tre
mesi
di
incubazione,
nasceva
un
vermetto
dalla
grandezza
di
tre
millimetri,
che
forava
l’uovo.
Noi
sempre
attenti
a
questi
eventi
che
aspettavamo
con
ansia,
eravamo
già
pronti
con
le
più
piccole
e
tenere
foglie
di
gelso,
di
cui
loro
si
cibavano
voracemente.
I
primi
tempi
della
nascita
erano
i
più
faticosi,
ci
voleva
tanta
attenzione
e
cura,
perché
i
bachi
erano
così
piccoli
che
quasi
non
si
vedevano,
ma
mangiavano
continuamente.
Quando
diventavano
grandi
come
una
sigaretta
e
prendevano
un
bel
colorito
giallo
dorato
salivano
su
dei
rametti
a
croce,
che
noi
ci
eravamo
procurati
negli
alberi
di
gelso,
cominciavano
a
tessere
la
seta,
chiudendosi
nel
bozzolo,
dove
restavano
chiusi,
trasformandosi
in
crisalide.
Quando
questa
rompeva
il
bozzolo
e
ne
usciva,
divenuta
farfalla,
il
nostro
gioco-lavoro
era
terminato.
Andando
ancora
un
po’
indietro
nel
tempo,
chi
si
ricorda
di
Busadiya?
Era
un
vecchietto
smilzo
e
magro,
aveva
appesi
al
corpo
dalla
testa
ai
piedi
molte
cose,
lattine,
specchietti
e
ossa
che
producevano
strani
suoni,
facendoli
dondolare
con
i
suoi
movimenti.
Aveva
anche
il
tamburo,
che
annunziava
il
suo
arrivo,
e
quando
qualche
spettatore
gli
buttava
una
monetina,
con
una
finta
battaglia,
la
faceva
scomparire,
catturandola,
e
così
viveva
con
poco,
divertendo
noi
ragazzi.
Continuando
a
parlare
di
vecchie
usanze,
non
si
possono
dimenticare
i
forni
arabi.
Erano
proprio
caratteristici,
si
indovinava
la
loro
presenza,
dal
buon
odore
che
sprigionavano.
Si
entrava
da
un
portoncino
abbastanza
largo
e
al
piano
terra
si
trovava
un
assito
in
tavole
che
serviva
ad
appoggiare
ciò
che
ognuno
portava
da
infornare.
Dopo
queste
tavole
c’era
una
buca
larga
circa
sessanta
centimetri,
dove
stava
il
fornaio,
che
si
vedeva
solo
dalla
cintola
in
su
e
che
aveva
alle
spalle
il
forno,
dove
veniva
cotto
tutto
ciò
che
la
gente
portava,
dietro
pagamento
di
pochi
soldi,
che
lui
faceva
scivolare
in
una
fessura
fatta
apposta
sull’assito.
Anche
io
sono
stato
assiduo
frequentatore
di
quei
forni,
infatti
mia
mamma,
con
l’aiuto
di
mia
sorella
Angela
preparava
a
volte
pane,
pietanze,
biscotti,
battezzati
da
noi
“tripolini”,
e
incaricava
me
o mio
fratello
di
portarli
al
forno
arabo
più
vicino,
che
si
trovava
in
via
Liguria,
strada
che
andando
in
su
e
girando
a
sinistra
sboccava
in
via
Vittorio
Veneto,
conosciuta
dai
vecchi
tripolini
come
Sciara
Macchìna.
Avevamo
preso
l’abitudine
di
consumare
queste
delizie,
anche
quando
andavamo
tutti
al
bosco
Littorio,
che
si
trovava
tra
porta
Benito
e
porta
Azizia,
all’ombra
degli
eucaliptus,
per
festeggiare
la
Pasquetta.
Il
bosco
Littorio,
all’origine
era
un’ampia
area
sabbiosa;
negli
ultimi
anni
venti,
durante
il
governatorato
di
Badoglio,
fu
trasformata
in
parco
pubblico,
ombreggiato
da
gigantesche
piante
di
eucaliptus
,
dove
le
famiglie
passavano
intere
giornate.
Un’altra
opera
memorabile
per
la
realizzazione
dovuta
alla
volontà
ed
intelligenza
italiana,
fu
nei
primi
anni
trenta,
la
via
Balbia,
che
univa
la
Tripolitania
alla
Cirenaica,
mentre
prima
le
due
provincie
erano
di
fatto
materialmente
separate.
Prima
della
litoranea,
le
poche
agevoli
piste
del
gran
deserto
sirtico
potevano
essere
difficilmente
attraversate
a
causa
delle
sabbie
invadenti.
La
nuova
strada
di
circa
2000
chilometri
lungo
tutto
il
litorale
libico,
con
i
suoi
pontile
case
cantoniere
disseminate
ogni
50
chilometri,
per
la
sua
continua
manutenzione,
rese
rapido
ed
agevole
il
percorso.
E’
stata
sfruttatissima
la
barzelletta
secondo
la
quale
Balbo
dice
orgogliosamente
a
dei
capi
tribù
in
un
ricevimento
a
palazzo:-
Vedete?
Prima
con
le
vostre
carovane
impiegavate
tre
settimane
per
andare
da
Tripoli
a
Bengasi,
ora
ci
potete
arrivare
in
una
sola
giornata!-
-E’
vero,
risponde
il
capo
tribù,
ma
cosa
faremo
negli
altri
venti
giorni?-
Nel
periodo
estivo,
ogni
anno
mio
papà
prendeva
in
affitto
sulla
spiaggia,
nella
zona
chiamata
tomba
dei
Caramanli,
sul
lungomare
Badoglio,
un
pezzetto
di
terra,
con
l’obbligo
di
sistemarvi
una
cabina
in
legno.
Essendo
mio
papà
falegname,
ne
ha
costruito
una
con
la
collaborazione
di
tutti
noi,
quella
era
una
abitazione
che
usavamo
per
tre
mesi
e
qualche
volta
qualcuno
di
noi
restava
a
dormire,
potendo
ammirare
il
mare
di
sera
e
ai
primi
albori.
Proprio
di
mattina
presto,
prima
che
la
spiaggia
si
popolasse,
mio
fratello
Carmelo
ed
io
praticavamo
un
tipo
personale
di
pesca
subacquea.
Prendevamo
due
pentole
grosse
e
profonde,
attaccavamo
al
loro
fondo
un
impasto
di
mollica
di
pane
e
formaggio
grattugiato
e
le
coprivamo
con
un
panno
bianco,
lasciando
un
foro
di
circa
tre
centimetri
al
centro.
Con
le
pentole,
andavamo
in
mare,
fino
a
che
l’acqua
non
ci
arrivava
al
mento,
piano
piano,
facevamo
riempire
le
pentole
dal
buco,
e
le
depositavamo
sul
fondo,ritornando
a
riva.
Dopo
un
po’
di
tempo
ritornavamo
al
largo,
correndo
quando
l’acqua
ci
arrivava
ai
ginocchi
e
allo
stomaco,
rallentando
quando
ci
arrivava
al
collo.
Tenevamo
gli
occhi
aperti
anche
sott’acqua
e
potevamo
vedere
un’infinità
di
pesci
che
gironzolavano
attorno
al
buco
della
tela
per
entrarvi,
fino
a
riempire
la
pentola.
Rapidamente
a
testa
in
giù,
la
afferravamo
con
una
mano,
chiudendo
con
l’altra
il
buco,
avviandoci
verso
riva,
portando
in
trionfo
il
nostro
bottino.
Questa
operazione
veniva
ripetuta,
fino
ad
ottenere
un
pasto
abbondante
per
tutta
la
famiglia.
Da
ragazzo,
dopo
le
ore
scolastiche,
ho
lavorato
presso
una
parrucchiera
per
signora,
al
pian
terreno
del
palazzo
Gadzinschi,
in
via
Vittorio
Veneto,
prima
d’arrivare
alla
Cattedrale.
La
proprietaria
era
triestina,
la
signorina
Ines
Kavalla.
Ho
cominciato
come
ragazzo
di
bottega,
poi
ho
preso
a
rispondere
al
telefono,
prendere
appuntamenti
e
fare
qualche
shampoo.
Quando
la
Ines
faceva
le
ondulazioni,
io
riscaldavo
e
le
porgevo
i
ferri
adatti,
che
dovevano
essere
ben
caldi,
ma
non
bruciare
i
capelli.
Per
sentirne
il
calore,
avvicinavo
il
ferro
alla
guancia,
se
era
troppo
caldo,
lo
facevo
roteare
velocemente,
per
raffreddarlo
e
poi
glielo porgevo;
con
essi
Ines
creava
delle
belle
pettinature.
Con
me
lavoravano
altre
due
ragazze,
ma
la
più
brava
era
la
Ines.
Una
volta
si
è
assentata
per
una
ventina
di
giorni,
per
andare
in
Italia,
ci
ha
affidato
il
suo
salone,
alle
ragazze
il
lavoro
di
parrucchiera,
a
me
le
chiavi
del
negozio,
la
cassa,
il
libro
ho
delle
entrate
e
uscite,
compito
che
io
svolto
con
gran
serietà
e
precisione.
Al
suo
ritorno,
Ines
ha
trovato
tutto
a
posto
e
mi
ha
elogiato.
Ma
quel
viaggio
era
servito
per
tastare
il
terreno
nella
sua
città
e
ben
presto
vi
è
ritornata,
cantando
“Trieste
mia”.
L’Officina
Mentre
ero
ancora
a
scuola,
l’Italia
si
preparava
alla
guerra
in
Africa
orientale,
era
il
1935.
I
nostri
soldati
guidati
da
due
grandi
generali,
Badoglio
dal
fronte
eritreo
e
Graziani
dal
fronte
somalo,
con
travolgenti
manovre,
dopo
aver
occupato
Adua,
Amba
Alagi
e
altri
punti
nevralgici,
ben
presto
presero
Adis
Abeba
e
tutto
il
resto
del
territorio,
sconvolgendo
l’esercito
etiope.
Con
questa
conquista
il
nostro
re
poteva
fregiarsi
del
titolo
di
Imperatore
d’Etiopia.
Io
da
casa
mia
seguivo
con
molta
attenzione
e
amor
patrio
tutti
i
commenti
dati
per
radio,
in
una
parete
tenevo
appesa
una
grande
carta
dell’Abissinia,
dove
c’erano
segnate
tutte
le
località
e
ad
ogni
conquista,
vi
spillavo
una
bandierina.
Ho
sempre
avuto
la
passione
per
la
meccanica,
che
poi
è
diventato
il
mio
mestiere.
Nel
1935
sono
entrato
come
apprendista
nelle
officine
Santagati
e
Covato
e
ho
avuto
la
fortuna
di
essere
assegnato
ad
un
bravo
maestro.
Questa
officina
si
trovava
in
corso
Sicilia,
quasi
di
fronte
al
palazzo
Tascone,
era
autorizzata
ed
ha
vinto
la
gara
di
appalto
con
le
forze
armate
italiane,
per
la
riparazione
di
tutti
i
mezzi
fuori
uso.
Al
principale
venivano
assegnate
dalle
autorità
15
macchine
da
rimettere
a
nuovo,
per
lo
più
camionette
615,
camion
38
SPA
,
lancia3RO.
Venivano
portate
al
nostro
deposito
ed
ogni
reparto
faceva
il
suo
lavoro, chi in
carrozzeria, chi in
verniciatura, chi
all’impianto
elettrico,
chi
di
frenatura
e
noi
al
motore,
cambio
e
differenziale.
Il
mio
maestro
ed
io
prendevamo
in
consegna
un
motore,
che
veniva
sistematicamente
smontato
e
pulito,
si
portavano
al
comando
militare
i
pezzi
fuori
uso
che
venivano
sostituiti
con
quelli
nuovi.
Io,
con
del
cartoncino,
facevo
tutte
le
guarnizioni
occorrenti
e
pronte
per
il
montaggio.
Porgevo
al
maestro
i pezzi,
bulloni
dadi,
tutti
puliti
ed
allineati
per
grandezza
e
misura,
il
motore
veniva
montato
e
si
faceva
rullare
nel
banco
prova.
Con
il
tempo,
il
maestro
ha
cominciato
a
farmi
montare
qualche
pezzo,
controllando
tutto,
ma
dandomi
sempre
più
fiducia.
Quando
il
mezzo
era
pronto
in
tutte
le
sue
parti
e
rimesso
a
nuovo,
veniva
caricato
con
delle
zavorre,
tali,
da
raggiungere
la
sua
portata
e
passava
al
controllo
e
revisione
dell’esercito.
Passata
la
revisione,
si
consegnavano
i
mezzi
rimessi
a
nuovo,
se
ne
prendevano
altri
dal
deposito
dell’esercito
e
si
ricominciava
da
capo.
Durante
la
corsa
automobilistica
dei
Milioni,
abbinata
alla
Lotteria
di
tutta
Italia,
arrivavano
a Tripoli, le
macchine
da
corsa
con
le
loro
scuderie,
che
venivano
ospitate
in
varie
officine
o
autorimesse,
nei
giorni
antecedenti
la
corsa.
Una
di
queste
officine
era
quella
dove
lavoravo
io
in Corso
Sicilia.
Per
noi
quei
giorni
erano
una
festa,
specialmente
per
quelli
della
mia
età.
I
loro
meccanici
ci
permettevano
di
curiosare
e
di
toccarele
grosse
ruote
e
qualche
volta
anche
dare
una
mano
a
spingere
le
macchine,
a
metterle
in
moto
e
posteggiarle
nei
box,
di
cui
la
nostra
officina
era
dotata,
mentre
fuori,
al
cancello,
la
gente
si
affollava
curiosa,
e
tanti
miei
coetanei
mi
pregavano
di
farli
avvicinare
e
io
mi
sentivo
invidiato
e
pieno
di
gioia.
Poi
quando
si
disputava
la
corsa,
mio
fratello
ed
io
avevamo
il
permesso
dei
miei
genitori
di
allontanarci
fino
al
circuito
della
Mellaha.
Arrivavano
i
più
forti
assi
internazionali
di
allora,
Achille
Varzi,
Tazio
Nuvolari,
Brilli
Peri,
Taruffi,
Borzacchini,
vi
erano
anche
piloti
stranieri
come
Langh
ed
altri,
che
con
le
loro
Mercedes
ed
Autounion,
davano
del
filo
da
torcere
alle
nostre
Alfa
Romeo,
Maserati,
ecc.
|
|
|
Achille
Varzi |
Tazio
Nuvolari |
Hermann
Lang |
Allo
stadio
di
Tripoli
venivano
pure
i
più
famosi
ciclisti,
Bartali,
Magni,
nella
pista,
attorno
al
campo
da
gioco
facevano
le
loro
competizioni
di
velocità,
di
americana
a
coppie
e
qui,
io,
attaccato
alla
rete
di
protezione,
sistemata
tra
le
tribune
e
la
pista,
ho
avuto
la
fortuna
di
parlare
e
toccare
Bartali,
che
si
era
fermato
proprio
davanti
a
me,
per
aspettare
il
compagno
che
faceva
il
suo
turno
di
corsa.
Che
grande
emozione!
|
|
Fiorenzo
Magni |
Gino
Bartali |
Queste
sono
continuate
assistendo
alle
gare
dei
corridori
tripolini,
con
il
trio
più
in
vista
degli
assi
del
pedale
Cason,
Berti,
Vella.
Tripoli
si
è
distinta
anche
nel
pugilato,
con
il
bravo
e
forte
Santino
De
Leo,
peso
massimo,
che
aveva
il
mulino
in
sciara
Macchìna
e
noi
assistendo
ai
suoi
incontri
ed
ai
suoi
poderosi
uppercut
e
pesanti
diretti,
lo
incitavamo
gridando
“dai
sciara
Macchìna”.
E’
arrivato
a
conquistare
il
titolo
di
campione
europeo.
Un
altro
bravo
campione
è
stato
Vincenzo
Anastasi,
che
conquistò
il
titolo
europeo
dei
pesi
mosca.
Era
molto
dinamico,
sembrava
danzasse
sul
ring,
mentre
combatteva
e
metteva
a
segno
i
suoi
veloci
diretti
e
i
suoi
ripetuti
uno-due.
Con
lui
ho
avuto
più
vicinanza,
perché,
dopo
sposato,
sono
andato
ad
abitare
in
via
Raffaello,
31.
Questa
strada
cominciava
da
Corso
Sicilia
e
finiva
in
via
Ponchielli.
Tra
queste
due
grosse
vie,
ve
ne
erano
altre
trasversali,
come
via
Bellini,
via
Verdi,
via
Vignola,
via
Canova,
in
una
di
queste
vi
era
lui,
Vincenzino,
che
aveva
il
panificio
dove
io
ogni
mattina
compravo
il
pane.
Era
bello
rivedersi
dopo
un
suo
incontro
e
discutere
e
complimentarsi
della
sua
vittoria
sul
ring.
Anche
il
nuoto
aveva
la
sua
importanza
e
si
concludeva
con
la
gara
regina
annuale
della
traversata
del
porto,
dove
si
cimentavano
i
più
forti
nuotatori
fondisti.
Non
dimentichiamoci
del
calcio.
A
Tripoli
vi
erano
diverse
squadre
dilettanti,
che
facevano
furore
e
si
distinguevano,
come
l’Ittiad,
con
l’attaccante
Zentuti,
bravissimo
a
realizzare
bei
gol.
Un
avvenimento
che
merita
essere
ricordato
e
al
quale
ho
assistito
personalmente
è
stato
l’arrivo
di
Mussolini
a
Tripoli.
Era
il
18
Marzo
1937.
Da
qualche
settimana
prima
del
suo
arrivo,
ogni
sera,
perché
doveva
arrivare
di
sera,
si
provavano
l’illuminazione,
le
sfilate
dei
meharisti,
con
i
loro
cammelli,
che
procedevano
a
passo
ondeggiante,
e,
al
suono
delle
trombe,
i
reparti
di
cavalleria
al
galoppo.
Io
partecipavo
pure
per
quello
che
mi
competeva,
inquadrato
nei
reparti
della
gioventù.
Dopo
le
prove,
la
grande
notte
è
arrivata,
con
l’entusiasmo
di
tanti,
mai
si
era
vista
Tripoli
così
illuminata
a
giorno,
imbandierata
e
festosa.
Il
Duce
arrivava
da
Bengasi,
percorrendo
la
via
Balbia,
opera
grandiosa,
che
univa
la
Cirenaica
alla
Tripolitania,
da
poco
costruita
e
che
portava
il
nome
del
governatore.
Arrivato
a
Tripoli,
Mussolini
percorse
a
cavallo
tutto
il
lungomare
Volpi,
poi
si
è
immesso
in
piazza
Castello,
dove,
sempre
a
cavallo,
ha
tenuto
un
discorso.
Ha
proseguito
per
corso
Vittorio,
passando
davanti
la
Cattedrale,
e
ancora
fino
al
palazzo
del
governatore,
anche
questo
inondato
di
luce.
Mi
sentivo,
e
sicuramente
anche
tanti
altri,
orgoglioso
di
appartenere
ad
un
popolo
così
glorioso.
Poi
gli
avvenimenti
sono
precipitati,
ma
nessuno
quella
notte
avrebbe
immaginato
come.
Quando
gli
Italiani
erano
arrivati
a
Tripoli,
nel
lontano
1911,
(tra
essi
c’era
mio
padre),
avevano
trovato
solo
deserto;
la
loro
industriosità
rese
quel
deserto
un
giardino.
La
colonizzazione
agricola
fu
una
delle
cose
più
belle
creata,
poi,
nel
periodo
fascista.
Nacquero
dal
nulla,
nel
deserto,
popolati
dai
coloni,
interi
villaggi,
come
Oliveti
,
Bianchi,
Giordani,
Breviglieri,
Crispi,
Garibaldi,
Micca,
Marconi
ed
altri.
La
mattina
del
3
novembre
1938
fu
una
giornata
veramente
storica
per
la
Libia.
Più
di
una
decina
fra
i
più
grandi
piroscafi
italiani,
tra
i
quali
anche
qualche
transatlantico,
tutti
imbandierati
e
inalberati
con
il
“gran
Pavese”,
arrivarono
nel
porto
di
Tripoli,
con
un
carico
di
ventimila
italiani,
venuti
ad
arricchire
con
il
loro
lavoro
la
“Quarta
sponda”.
Da
quelle
navi
sbarcarono
tutti
i
ventimila,
uomini,
donne,
bambini
e
con
un
lungo
corteo,
ordinato,
a
piedi,
dal
porto
arrivarono
fino
a
piazza
Castello.
Era
una
fiumana
di
gente,
che
silenziosa,
camminava
in
mezzo
ad
ali
di
folla
plaudente.
Assistevo
commosso
a
questo
grandioso
spettacolo,
pensando
che
anche
la
mia
famiglia
ed
io,
avevamo
contribuito,
con
il
lavoro,
a
rendere
più
bella
Tripoli.
Dalla
piazza
Castello,
dopo
il
discorso
del
Governatore
della Libia
Italo Balbo
e
la
benedizione
del
Vescovo
Facchinetti,
i
ventimila
partirono
alla
volta
dei
loro
villaggi,
a
bordo
di
centinaia
di
automezzi
militari.
|
|
Il
Governatore
della
Libia
Italo
Balbo
|
Il
Vescovo
Mons.
Vittorino
Facchinetti |
Al
loro
arrivo,
ogni
famiglia
trovò
una
bella
casetta
arredata,
la
mucca,
il
pollaio,
un
pezzo
di
terreno
da
coltivare
e
tutti
gli
attrezzi
agricoli.
Quei
villaggi,
con
il
lavoro
dei
coloni
italiani,
poi
sono
diventati
centri
abitati,
dove
gli
arabi
del
luogo
hanno
visto
che
anche
dalla
sabbia,
potevano
nascere
alberi,
ulivi,
viti,
aranceti.
La
guerra
a
Tripoli
Nel
1939
l’Europa
entrò
in
guerra,
e
noi
a
Tripoli
incominciammo
a
sentire
le
prime
privazioni
di
beni,
di
cui
fino
a
quel
momento
avevamo
beneficiato.
Nel
pomeriggio
del
10
giugno
1940
il
popolo
di
Tripoli
sentì
alla
radio
e
nelle
piazze
il
discorso
del
Duce,
che
aveva
dichiarato
guerra
alla
Francia
e
alla
Gran
Bretagna;
anche
io
ero
lì,
illudendomi,
come
tanti
altri
che
sarebbe
stata
una
passeggiata.
Ma
la
stessa
sera,
subimmo
il
primo
bombardamento
da
aerei
francesi,
partiti
dalla
Tunisia.
Questo
fu
il
primo
shock,
giunto
così
rapidamente
e
inaspettato.
Ma
un
altro
ne
doveva
ancora
arrivare,
la
morte
improvvisa
di
Italo
Balbo,
che,
nel
recarsi
ad
ispezionare
le
truppe
al
confine
con
l’Egitto,
a
bordo
di
un
SM79,
era
stato
abbattuto
dalla
nostra
stessa
contraerea,
che
si
trovava
sulla
nave
San
Giorgio,
ancorata
nel
porto
di
Tobruk.
La
notizia
fu
accolta
con
grande
sbalordimento,
ma
anche
col
dispiacere
di
aver
perso,
così
banalmente,
per
un
errore,
si
disse,
di
identificazione,
un
personaggio
tanto
rispettato
anche
dai
nemici
ed
avversari.
All’imponente
funerale,
formato
da
otto
bare,
il
29
giugno
1940,
partecipammo
tutti,
nessuno
escluso.
Al
suo
posto
fu
nominato
il
generale
Rodolfo
Graziani,
perché
generale
dell’esercito
e
protagonista
in
Etiopia,
mentre
Balbo
era
stato
un
triumviro
della
marcia
su
Roma.
A Tripoli
cominciò
la
vera
guerra,
continui bombardamenti di aerei inglesi provenienti da Malta, ci
costringevano a correre dentro i
rifugi e
nelle
campagne fuori città. Noi abitavamo a
Collina verde, distante tre
chilometri
da Tripoli, e
lì, chi dentro
casa, chi
attendato
nel
giardino adiacente,
passavamo
le
notti.
Nella notte del 21 Aprile 1941, dopo un’ora
di
bombardamenti,
abbiamo visto,
come d’incanto,
tutto
illuminato.
Gli
aerei
inglesi
avevano
sganciato
dei
razzi
illuminanti,
a
cui erano
agganciati
dei
piccoli
paracadute; quelle luci erano i
segnali dei luoghi
da colpire. Mentre
noi guardavamo
quelle luci, si
scatenò
il finimondo.
Per quarantacinque
minuti si
sentirono
passare
proiettili,
non più sopra
le nostre
teste,
ma
striscianti,
perché
erano
proiettili
da 305
sparati
dalle navi
della flotta inglese. L’indomani,
scendendo in città, trovammo
un disastro, Tripoli era irriconoscibile, ovunque
macerie
di fabbricati
che
erano stati
distrutti,
senza
incontrare
la
più piccola resistenza da
parte nostra. Al
porto oltre alla distruzione di navi, sul piazzale davanti al
nostro
bar, trovammo un
proiettile da 305 inesploso, che
aveva
centrato in pieno il faro
ed era venuto
a cadere
davanti al bar. Dopo che i
genieri lo resero innocuo,
con l’incoscienza
della gioventù, mi
feci
scattare una foto,
con un piede sopra, come se fosse stato preda di
guerra. Il rifugio
della Banca d’Italia,
invece, era stato
centrato in pieno da uno di quei proiettili, che esplodendo,
aveva provocato
tanti
morti;
esso
era
stato
costruito
per
le
bombe aeree, ma
non ha resistito a
quelle navali,
che
provenivano
orizzontalmente.
La
guerra
negli anni
40-41
in Africa
settentrionale si svolse aspra da tutti e
due i
fronti, Graziani avanzò
con
le truppe italiane
oltre il confine con l’Egitto fino
ad
occupare
Sidi
Barrani
e
Massa Matruk, ma non
andò oltre. I
miei due fratelli
più grandi erano sui fronti
di combattimento. Gli inglesi e gli italo-tedeschi, comandati dal generale Rommel, la volpe del deserto, si
fronteggiavano, finchè l’esercito inglese,
travolgendo
quello tedesco, entrò
a Tripoli, era il 23 gennaio
1943. Questa volta, non ho potuto seguire questa
guerra, segnando le vittorie
con le bandierine, come avevo
fatto
con
quella
d’Etiopia,
sia
perché
non ci furono vittorie,
sia perché l’ho
vissuta
sulla
mia
pelle
e
c’era poco da stare
allegri. Arrivato a
questo
punto
delle
mie
narrazioni e
dalle
date, mi accorgo che anche la mia gioventù
è passata,
ma mi restano,
intatti,
tutti i ricordi. Termino,
salutando
tutti
i
lettori,
ma
in
particolare il caro
Paolo Cason,
che con la sua
tenacia,
continua
a tenere vivo il suo sito e a tenerci uniti, a
lui va
un indimenticato
ricordo e un
grazie di cuore.
|
Pianta di
Tripoli -
anni '30
(clicca
sulla foto
per
ingrandirla) |
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