LA MIA BENGASI
di Angelo Nicosia |
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Lo scorso autunno, del 1993, mi trovavo in casa di mia sorella Teresa,
("Sina", per i familiari), per la morte di mio cognato Giovanni
Nicosia, deceduto a Livorno, anche lui profugo della Libia e sfogliando
distrattamente alcuni vecchi numeri dell'Oasi, il notiziario
trimestrale degli Ex Allievi Lasalliani,l'oasi, mi
sono riconosciuto con stupore ed emozione in una vecchia foto
pubblicata nel n. 3 di Settembre-Dicembre 1993, che ritraeva tutti gli
alunni della prima elementare, nel 1932.
...sfogliando
distrattamente alcuni vecchi numeri dell'Oasi, il notiziario
trimestrale degli Ex Allievi Lasalliani,l'oasi, mi sono riconosciuto
con stupore ed emozione in una vecchia foto pubblicata nel n. 3 di
Settembre-Dicembre 1993, che ritraeva tutti gli alunni della prima
elementare, nel 1932.... |
Ho provato sorpresa ed un'intensa emozione, e incredulo, ho voluto
avere la conferma del riconoscimento dai miei tre figli:
Donatella,Emanuele e Anna, e tutti e tre, unitamente a mia moglie
Graziella, senza esitazione hanno puntato il dito su quel bimbetto che
accovacciato a terra, "all'araba", al centro della prima fila, con il
perenne ciuffetto ribelle sugli occhi, guardava la macchina da presa.
Sìììì! Ero io a cinque anni d’età, assieme a tanti altri amici Fratelli
Cristiani, la cui scuola era in Via Torino a Bengasi.
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...senza
esitazione hanno puntato il dito su quel bimbetto che accovacciato a
terra, "all'araba", al centro della prima fila, con il perenne
ciuffetto ribelle sugli occhi, guardava la macchina da presa. Sìììì!
Ero io a cinque anni d’età,
... |
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...assieme a tanti
altri amici Fratelli Cristiani, la cui scuola era in Via Torino, a
Bengasi ... |
E' stata per me una gran gioia rivedermi bambino. E poi, sfogliando
ancora, rivedere alcune foto di Bengasi, la città che è rimasta nel mio
cuore. E così sono andato a rivedermi tutti i numeri arretrati che ho
potuto reperire, leggendo avidamente gli articoli che la riguardavano,
emozionandomi, quando descrivevano luoghi e fatti a me tanto familiari.
Successivamente, per la ricorrenza del Santo Natale, la mia adorata
sorella, vedendomi così interessato, mi ha regalato due libri
meravigliosi:" LA MIA LIBIA" di Paola Hoffmann e "LA LIBIA" di Torquato
Curotti. Libri interessantissimi, che ho letto immediatamente in pochi
giorni e che tutti i profughi o meglio tutti i discendenti di "Italiani
di Libia" dovrebbero leggere, per comprendere che cosa significa, il
"Mal d'Africa".
Un male sottile, pieno di nostalgia, che nessuno può capire se non ha
vissuto in Libia, e che cosa esso rappresenti per noi anziani, ancora
oggi, a distanza di cinquantaquattro anni, da quando siamo stati
costretti ad abbandonarla.
Ho apprezzato in modo particolare, il libro della Hoffmann, che nata a
Bengasi, e avendo la mia stessa età, ha descritto con dotta perizia
letterale, fatti ed episodi di vita coloniale da me vissuti nello
stesso identico periodo: dal 1928 quando, richiamato assieme alla mia
famiglia, da mio padre, che la si era trasferito tanti anni prima, ero
approdato anch'io sulla Quarta
Sponda, come tanti italiani avevano fatto prima di noi e sino
al 1941,quando siamo stati costretti ad abbandonarla.
"LA MIA LIBIA" ha dato nome e collocazione storico-ambientale a strade
e fatti che si erano persi nella mia memoria. Le descrizioni precise e
dettagliate di luoghi e fatti a me noti hanno all'improvviso fatto
riemergere nella mia memoria, come tanti flash-back, episodi e
particolari dimenticati o meglio, che credevo dimenticati, e che ora
invece si rincorrono velocemente uno dietro l'altro nella mia mente,
mentre scrivo questi appunti.
Mio padre, dopo anni di duro e tenace lavoro, aveva finalmente
costruito tra il 1930 e il 1939, una bella casa a due piani, con
prospetti in Viale Regina n. 43-45-49 e 51, Via Zarrugh Raed n. 1-3 e 5
e Via Luahi n. 1-3-5 e 9,
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...Mio
padre, dopo anni di duro e tenace lavoro, aveva finalmente costruito
tra il 1930 e il 1939, una bella casa a due piani, con prospetti in
Viale Regina n. 43-45-49 e 51, Via Zarrugh Raed n. 1-3 e 5 e Via Luahi
n. 1-3-5 e 9... |
(poi ta durante la seconda ritirata,nella quale abitavo al primo piano,
assieme alle mie sorelle Rosa ed Agata ed ai miei fratelli germani
Giovanni, Pino e Sina Giudice, figli del primo marito di mia madre,
morto in guerra nel 1919.
I miei genitori Emanuele Nicosia e Grazia Liotta gestivano,
autonomamente, due attività commerciali al piano terra dello stabile.
Un locale bar con annessi sala biliardi e sala giochi, e un locale per
generi alimentari, tra loro intercomunicanti, siti sul Viale Regina
quasi di fronte al Comando Truppe del Generale Nasi, mentre nei locali
di Via Luahi n. 9, i miei fratelli Giovanni e Pino Giudice, gestivano
una fabbrica per la produzione di "selz" e di bibite gassate in
bottigliette di vetro, (quelle che avevano come tappo una pallina di
vetro che si abbassava con la pressione del dito), e un deposito di
vino che mio padre importava dalla sua città natìa, Vittoria, in
Sicilia.
Sono vissuto, quindi, in un ambiente di lavoro e di varia astrazione
umana e sociale, tra italiani, arabi, maltesi, ebrei, somali, eritrei,
ecc, dando anch'io alla famiglia un modesto contributo di lavoro come
cassiere (a tempo perso) durante la siesta dei miei, leggendo i miei
giornaletti preferiti: il Monello, Mandrake con il suo fido servo
Lotar, Cino e Franco con il cane Rin Tin, Gordon e altri di cui non
ricordo il titolo.
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...i
miei giornaletti preferiti: il Monello, Mandrake con il suo fido servo
Lotar, Cino e Franco con il cane Rin Tin, Gordon... |
Crescevo così coccolato per la mia tenera età, a contatto con gli
avventori abituali che giocavano al biliardo, la sera, nei due saloni
avvolti dal fumo delle sigarette, oppure al bar. Militari somali e
ascari eritrei del vicino Comando Truppe, che la sera mangiando uova
sode e vino si ubriacavano, litigando spesso, seduti attorno ad un
tavolo. Litigavano senza
accorgersi che qualche volta, le birre che bevevano erano calde mentre
le bottiglie all’esterno erano gocciolanti perché io le avevo resi
tali, rullandole continuamente con le mani su un blocco ghiaccio, nel
retro bar, quando la scorta di birra si esauriva improvvisamente.
Piccoli trucchi del mestiere che io apprendevo dal banconista arabo
Miled Ben Farag, mio mentore, e dal suo giovane aiutante sudanese Iadin
(Eden) Zaret e dal cameriere Ahmed.
Vivevo anche a contatto con i nativi, miei coetanei, con i quali avevo
fraternizzato, avendo facilmente imparato alcune frasi essenziali in
arabo, quelle più comuni per capire ed essere capiti e per difendermi,
rispondendo a tono. Parole e frasi purtroppo, oggi, in parte
dimenticate.
E crescendo così smaliziato in quello ambiente, dove mi muovevo a mio
agio, andavo in giro per la città, prima a piedi nei dintorni e poi
sempre più lontano, sulla mia fida bicicletta nera, passando per strade
e luoghi i cui nomi sono rimasti per tutti questi lunghi anni sepolti
nella memoria, schiacciati da tanti eventi accumulatisi, da quel triste
17
Gennaio del 1941, quando mestamente abbiamo ripercorso la Via Balbia,
in fuga verso Tripoli.
Sono note riguardanti strade, negozi e ambienti che molti lettori forse
non individueranno o gradiranno leggere, ma che potrebbero rievocare ad
altri bengasini nostalgici, emozioni e cari ricordi come è successo a
me leggendo il libro della Hoffmann,.
E per questo mi dilungo a scriverle, corredandole anche di fatti
strettamente personali, perché‚ spero che possano leggerle anche i miei
due teneri nipotini Roberta e Angelo, quando saranno in età per poterlo
fare. Forse quando io non ci sarò più, per raccontare loro a voce, come
fanno tutti i nonni, episodi allegri o tristi della propria vita.
Dal 1928 al 1941, ho passato gran parte della mia vita in casa di mio
zio Diego, fratello maggiore di mio padre, in un grande edificio a due
piani, con esercizio di bar e sala biliardi a piano terra e con
l'abitazione al primo piano. La casa estesa tra la Via San Francesco
d'Assisi, la Via Zuara, faceva angolo acuto con il Corso Italia e parte
di questo angolo, occupato al bar, era coperto con un ampia terrazza,
antistante il salotto "buono" dell'abitazione.
Sembrava il ponte di comando di una nave!
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...Sembrava
il ponte di comando di una nave!... |
Era il mio regno
incontrastato, dal quale giocando, potevo osservare tutto quello che
succedeva di sotto, sulle strade:le parate militari, durante la visita
del Duce e poi del Re a Bengasi,
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...Era
il mio regno incontrastato, dal quale giocando, potevo osservare tutto
quello che succedeva di sotto, sulle strade:le parate militari, durante
la visita del Duce... |
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...e poi del Re a Bengasi...
(clicca
sulla foto e guarda il video
dell'Istituto Luce) |
con i giovani
avanguardisti dritti, impalati e collocati sopra alti piedistalli di
legno, distanziati lungo i due marciapiedi, con il fucile tenuto con le
due mani, in verticale, diritto sotto il naso;il Circolo degli
Ufficiali, tra Piazza Cagni e Via Torino, con il via vai continuo dei
giovani ufficiali agghindati nelle loro bianche uniformi e accompagnati
da leggiadre signorine, che arrivavano, mollemente sedute nelle nere
carrozzelle;
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...il
Circolo degli Ufficiali, tra Piazza Cagni e Via Torino, con il via vai
continuo dei giovani ufficiali agghindati nelle loro bianche uniformi... |
Le accese partite di
calcio che si svolgevano nella grande palestra scoperta dell'antistante
scuola elementare Giosuè Carducci e il passaggio frenetico degli
automezzi militari che spesso si scontravano con fragore con altri
mezzi di trasporto.
Proprio assistendo ad uno di questi incidenti, quando avevo quattro
anni, è legato purtroppo, un triste ricordo della mia vita: una
carrozzella distrutta e un cavallo disteso per terra, in una larga
pozza di sangue.
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...e
un cavallo disteso per terra, in una larga pozza di sangue. ... |
Spaventato dal rumore
delle ferraglie e impressionato dal repentino spettacolo di morte, mi
sono accasciato lentamente a terra, svenuto, con le mani avvinghiate
alle sbarre della ringhiera.
Sono rimasto così, sotto il sole per un bel po’ di tempo, sino a quando
la moglie del Commissario Orecchio, vicina di casa, non provvide a
farmi soccorrere dai miei, che vennero preoccupatissimi a sollevarmi.
Non ricordo quanto tempo rimasi a terra, quel giorno, ma so che da
allora, quando vedo sangue, la scena del mancamento, puntualmente si
ripete.
La prima strada da me frequentata, è ovvio, è stata la Via San
Francesco d'Assisi, meglio nota come Via Torino. Era la strada dei più
moderni negozi d’abbigliamento gestiti quasi esclusivamente da
italiani, e della Chiesa più frequentata dai bengasini, la Chiesa di
San. Francesco d'Assisi.
Di fronte, sull'altro lato della strada, c'era una sala
cinematografica, la Sala Italia, in cui io avevo libero accesso, in
cambio di qualche caffè, sorbito a sbafo dal bigliettaio, al bar di mio
zio Diego.
Era una sala piccola ma graziosa, con pochi posti, sia in platea, che
in tribuna la quale aveva due gallerie laterali dove io, dopo aver
visto i film western con Tom-Mix sul suo cavallo bianco e con il largo
cappello da cow-boy in testa, oppure quelli muti di Charlot,
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...i
film western con Tom-Mix
con il largo cappello da cow-boy in testa, oppure quelli muti di
Charlot...
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sonorizzati da un pianista che strimpellava sul pianoforte collocato
sotto lo schermo, mi addormentavo regolarmente, rannicchiato nella
poltroncina di ferro in prima fila. A fine spettacolo, qualcuno del bar
veniva a prelevarmi.
In questa sala ho visto un film che è rimasto impresso nella mia
memoria, perché segnò una svolta indelebile della mia fanciullezza: "I
ragazzi della Via Paal".
Dovevo avere circa dieci-dodici anni allora e i giorni successivi alla
proiezione del film, assieme a tutti i ragazzi del quartiere ci
riunivamo in due bande, armate e contrapposte, a somiglianza di quelli
visti al cinema. Botte da orbi! Combattimenti all'arma bianca, fatti
dentro gli scavi stradali in cui si stavano posando delle tubazioni, in
Viale Regina.Durante un assalto, una pietra mi colpì in testa,
lasciandomi tramortito, tra lo spavento dei miei amici che mi
accompagnarono a casa sanguinante.
Adiacente al bar c'era lo studio fotografico del Cav.Gaetano Nascia e
Figlio, il più attrezzato della città, dopo quello di Dinami, con i
suoi fondali sceneggiati color seppia, le poltroncine di vimini con
l'immancabile bouquet di fiori su un trespolo di legno e il parco
lampade. Era uno studio molto frequentato, e le sue fotografie stampate
su uno spesso cartoncino con i lati frastagliati e la classica firma,
campeggiano ancora sulle pareti di casa nostra e ritengo d’altre
famiglie bengasine.
Poi, percorrendo la strada più avanti, c'erano i negozi di vini del
sig. Antonino Russo, all'angolo di una stradina coperta, e del sig.
Porromuto. Il negozio del sig. Francesco Senia, quello del tappezziere
Macaluso, il negozio di pelletterie "Alla Città di Napoli", la pizzeria
del sig. Mezzasalma che tra l'altro, faceva delle favolose frittelle,
le "crespelle" di riso con il miele o con le alici, che erano una
delizia. E poi c'erano tanti altri negozi d’abbigliamento: l'emporio
del sig. Rosario Russo pieno di giocattoli, tessuti, pianoforti,
articoli per regali, c'era pure l'Albergo Torino, il ristorante
Centrale e una farmacia.
Ed infine, ricordo, c'era un negozio di generi alimentari, che esponeva
nelle sue vetrine meravigliosi piatti di pietanze già pronte, che in
molti gustavano con gli occhi e col naso incollato al vetro, (cosa che
di tanto in tanto, piccolino, facevo anch'io).
Non è che mi mancava allora l'occasione di gustare pietanze simili, in
casa di mia zia Grazia, ma era la sapiente preparazione del piatto
esposto, che attirava la mia attenzione. A casa nostra, di solito, si
mangiava in modo più frugale sia a causa dell'attività commerciale
esercitata dai miei, che lasciava poco tempo per queste cose, sia
perché‚ "loro", pensavano al risparmio. Conservare in cassaforte tanti
"filus", quei bei bigliettoni da cento lire, grandi come fazzoletti da
naso, era l'aspirazione di tutti gli italiani d’Africa, allora!.
Sicuramente, non era come ai giorni d'oggi, che si ricorre spesso alle
pizzerie o ai fast-food! Raramente si andava al ristorante! E le
pietanze a base di carne si mangiavano, di solito, soltanto la
domenica, quando il pranzo era fatto a base di casalinghe tagliatelle
in brodo di gallina con piccole palline di tritato, e poi gallina
disossata ripiena di riso con fegatini macinati, e frutta e dolce fatto
in casa.
Una domenica, però, non mangiai la solita gallina!
Successe, infatti, che, approfittando dell'assenza delle mie cugine
Rosa, Nellina e Franca che erano andate a messa, m’impossessai di tutti
i cioccolatini che la più grande di esse, Rosa, prepotente e
autoritaria, (se lo poteva permettere perché‚ aveva tredici anni più di
me che ne avevo cinque, allora), teneva conservati gelosamente in un
cassetto.
Per consumare il frutto della marachella, senza essere visto, mi
nascosi sotto il suo letto. Un letto di ferro, con le spalliere arcuate
dipinte con motivi floreali e delimitate da due pomoli di rame che
aveva una rete appoggiata su alti cavalletti di ferro, i cosiddetti
"trispiti". E per maggior sicurezza mi sdraiai tra la parete e una
grossa e bassa cassapanca di legno, che c'era sotto il letto, dove la
cara cugina, che dopo alcuni anni sarebbe diventata mia cognata,
raccoglieva il suo corredo nuziale.
Saranno state le calorie per l'eccessivo numero di cioccolatini
ingoiati, sarà stato il caldo o che so io, il fatto fu che, sazio, mi
addormentai profondamente per diverse ore.
A tavola la mia assenza non destò meraviglia o preoccupazione perché io
ero aduso a queste improvvise sparizioni. Infatti, quando le cose non
mi andavano per il verso giusto, in una delle due "mie" case, io
prendevo i pochi indumenti personali, li raccoglievo in un ampio
tovagliolo e salutando imbronciato, mi trasferivo nell'altra casa
stringendo nella mano "la truscia" (fagotto), sotto l'occhio divertito
dei familiari, ormai abituati a questo mio sdegnoso modo di agire.
Quella volta, però, il mio allontanamento non fu usuale e quindi, dopo
pranzo, tra il serio e il faceto, furono chieste informazioni a mia
madre, la quale non avendomi visto a tavola cominciò ad allarmarsi e
con lei tutti gli altri familiari che incominciarono frenetiche
ricerche, in tutti gli angoli delle due case.
Guardarono sotto tutti i letti, compreso quello dove ero nascosto io,
malauguratamente senza scorgermi, perché ero più corto della cassapanca
che mi occultava interamente. Poi, cominciarono a cercarmi nei vari
posti che solevo frequentare, al porto, dove io ero solito andare in
compagnia di altri ragazzi più grandi o dietro la stazione ferroviaria
nella Sebcha, dove spesso con loro, andavo a caccia con la fionda o con
le trappole. Ma tutte le ricerche condotte, anche da amici e vicini di
casa, furono vane e si cominciò a pensare al peggio.
Io allora, ero il più piccolo, amato e unico rappresentante maschio di
una "famiglia" siciliana che angosciata per la mia lunga assenza, si
riunì nel salotto della casa di mio zio, piangendomi per morto.
Certo, non era tempo di sequestri, come sarebbe avvenuto da noi oggi,
ma l'idea che mi fosse capitata qualcosa di grave cominciò a
serpeggiare in famiglia, mano a mano che passava il tempo,
infruttuosamente. E ogni parente che veniva per consolare mia madre, i
suoi lamenti si facevano sempre più alti: "figghiu, figghiu miu",
diceva lei, struggendosi nel pianto. E furono proprio quegli alti
lamenti a farmi svegliare di soprassalto!
Mia madre aveva un carattere forte e non l'avevo mai sentita piangere,
prima di allora, né dopo per la verità, sino alla morte di mio fratello
Giovanni, e quel pianto che mi giungeva dalla stanza accanto attraverso
il sottile muro a cui io ero addossato, che ci separava, mi sconvolse.
Uscito dal mio nascondiglio, mi presentai carponi nel vano di porta
dell'attiguo salone, e piangendo anch'io, chiesi il perché di quelle
lacrime collettive. Quello che accadde di lì a pochi secondi, non posso
descriverlo. In un attimo mi furono tutti addosso, felici, e contenti,
sollevandomi, abbracciandomi, baciandomi e chiedendomi in coro il
motivo della mia lunga assenza da casa.
Quei pianti di disperazione si trasformarono immediatamente in allegre
lacrime di gioia, quando poi, rasserenatisi gli animi, riuscii
candidamente a raccontare la mia marachella, indicando il luogo dove
avevo trascorso tutto quel tempo, a pochi passi da loro che mi
piangevano per morto Ci fu una risata collettiva, con grande scorno di
mia cugina Rosa.
La Via San Francesco d'Assisi, ultimava nella zona dove prima c'era il
vecchio Cimitero Arabo, ad angolo con la Via Roma e col Palazzo delle
Poste, vicino al quale c'era una libreria con vendita di giornali e il
negozio di generi alimentari gestito anni prima da un altro fratello
minore di mio padre, Salvatore. "U zu' Turiddu" con sua moglie Marietta
e le tre figlie Rosetta, Franca ed Elsa.
A dieci anni, la mia attività ricreativa preferita era, la pesca, che
io praticavo utilizzando una canna preparata con le mie mani. Partivo
per le mie scorribande in bicicletta, (allora si poteva fare!), e mi
dirigevo verso il porto, dove andavo a pescare sull'antemurale, dopo la
Dogana
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...e
mi dirigevo verso il
porto, dove andavo a pescare sull'antemurale, dopo la Dogana...
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e la Stazione Marittima, nel luogo dove attraccavano le maone, grandi
barconi a motore che trasbordavano a terra i passeggeri dalle navi, che
arrivando da Siracusa, allora, non potevano attraccare al molo, per il
suo basso fondale.
E durante il tragitto spesso mi fermavo per entrare o osservare alcuni
locali pubblici, per lo più bar, che erano quelli che maggiormente
attiravano la mia attenzione.
All'angolo tra il Viale Regina e la Via Gasr Ahmed, ricordo, c'era una
moderna tabaccheria di proprietà dell'ex Brigadiere Troia, ben
assortita di tanti tabacchi e dove io compravo le sigarette preferite
da mio padre, le "Macedonia Extra";
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...All'angolo
tra il Viale Regina e la Via Gasr Ahmed,c'era una moderna tabaccheria
di proprietà dell'ex Brigadiere Troia, ben assortita di tanti tabacchi
e dove io compravo le sigarette preferite da mio padre, le "Macedonia
Extra"... |
nella stessa strada c'era l'appaltatore d’opere edili, il sig. Stefano
Fugardi, marito della modista sig.ra Fugardi, e il laboratorio per la
produzione e riparazione di carri dei fratelli Cusumano. Poi
continuando sullo stesso lato del Viale Regina, c'era un bar dove
vicino abitava il Dott. Fusco, medico di famiglia, di fronte alla
Caserma dei Carabinieri, dopo, all'angolo di Via Bazar, c'era un grande
emporio di prodotti per l'edilizia, e di ferramenta e colori di
proprietà del sig. Pietro Ruffatto.
Il Viale Regina terminava all'angolo con Via Aghib, su un grande slargo
trapezoidale. Era la Piazza Generale Cagni, con tanti fabbricati
moderni sui lati ed un monumento sito al centro a mo di spartitraffico.
Su un lato della piazza, c'era il Palazzo del sig. Pietro Aprile, un
siciliano di Ferla, con grandi porticati e con ampi esercizi
commerciali e di rappresentanza.
Sull'altro lato della piazza, c'era il Palazzo Prosdocimo, con un
fornitissimo negozio di generi alimentari,
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...Sull'altro lato
della piazza c'era
il Palazzo Prosdocimo, con un fornitissimo negozio di generi
alimentari... |
poi il grande bar Zizzo, e subito dopo il negozio di cappelli della
sig.ra Gina Modafferi, quello del sig. Menta e quello del sig.
Papouchado.
Di fronte, il Supercinema di proprietà dei fratelli Corrado e Giuseppe
Giardinella, nostri fraterni amici e poi ricordo, c'era pure una
farmacia: la Farmaceutica Coloniale del Dott. De Cesaris di cui ricordo
il figlio, completamente calvo, e vicino, la Pasticceria Tre Marie e un
negozio di articoli di maglieria e articoli simili, Il Filo d'Oro.
Dai lati opposti della piazza, si dipartivano due larghe strade: una
alberata, che si chiamava Viale della Stazione, conduceva alla Berka,
passando davanti alla Stazione Ferroviaria e alle case popolari
I.N.C.I.S.,
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... si
dipartivano due larghe strade: una alberata, che si chiamava Viale
della Stazione, conduceva alla Berka, passando davanti alla Stazione
Ferroviaria e alle case popolari I.N.C.I.S.,.. |
l'altra chiamata Corso Italia, finiva nella zona del porto. Questa era
la strada più bella della città, con le sue palme altissime sui
marciapiedi, con i suoi cento negozi di articoli vari, e con gli studi
dei professionisti più noti , tutti residenti in palazzi costruiti di
recente dagli italiani, come cortina del quartiere arabo retrostante.
Proprio all'inizio del Corso Italia, a sinistra, c'era un bel palazzo
in stile coloniale a due piani, (come quasi tutta l'edilizia
bengasina), in cui aveva sede il Circolo degli Ufficiali, con i suoi
ampi saloni sempre brulicanti di militari e con i rossi campi da
tennis, sull'area retrostante.
Una sede, che era l'ambita meta di tutte le ragazze e anche d’alcune
signore della borghesia, che aspiravano di partecipare al braccio di
qualche giovane ufficiale, alle periodiche feste che ivi si tenevano.
Di fronte al circolo c'era il negozio d’articoli da regalo della sig.ra
Santa Raimondi, suocera del Dott. Beccali che aveva sposato la figlia
Rosetta e i cui figli Giorgio e Mario erano nati in un appartamento
sito nel nostro palazzo di Viale Regina. Ricordo che il padre di
Rosetta, Nunzio Ammirata, aveva una fabbrica di candele in Via Mercato
Nuovo, mentre lo zio Angelo Raimondi con la moglie Concetta Fontana,
aveva un negozio d’articoli da regalo in Corso Italia, vicino alla
modista sig.ra Fugardi. Dopo lo sfollamento da Bengasi, questi due
negozi furono trasferiti dai proprietari, a Palermo, in Corso Vittorio
Emanuele.
Dopo il Circolo degli Ufficiali, c'erano le Scuole Elementari e le
Scuole Medie, due grandi edifici con ampi spazi a verde, in uno dei
quali io ho completato gli studi elementari, iniziati presso i Fratelli
Cristiani. C'era pure una grand’area recintata di fronte le scuole, in
Viale Giacomo De Martino, dove c'erano due palestre coperte e un campo
di calcio, sede di epiche battaglie a calci negli stinchi, che mi hanno
lasciato il segno.
Di quel periodo scolastico,ricordo poche cose, forse perché marinavo
spesso le lezioni: il cucchiaio colmo di olio di fegato di merluzzo con
gocce di limone che ci obbligavano a prendere ogni mattina per
migliorare la "razza ariana"; il grembiule nero con il colletto bianco
e il fiocco azzurro; i nomi di alcuni miei compagni: Emanuele Carfì,
oriundo di Gela, (diventato Deputato del P.C.I. e morto alcuni anni fa,
Angelo Jacobucci di Palermo, Massimo Magnani e la sorella, oriundi di
Cerignola e il cognome di una mia maestra, "Buongiardino", zia di un
mio fraterno amico di nome Nino Rosano, (mi sembra oriundo da
Siracusa), che abitava in Viale Regina, vicino casa mia. Suo padre
faceva il calzolaio e il cortile di casa sua era il ritrovo d’altri
comuni amici tra i quali ricordo solo: Aldo e Gilda Giardinella,
Lillina Sisto, Lina Cusimano, Lucia e Maria Bellavia, figlie di
"Ciccia" e "Peppino" Bellavia, miei compaesani di Agira. Questi
gestivano, insieme con Filippo Bruno (inteso Pacione), una piccola
fabbrica di pasta fresca vicino casa nostra.
Un uomo affabile e simpatico, Peppino Bellavia, dal perenne cordiale
sorriso fra le labbra, ereditato anche dalle due sue care figliole.
Lucia ha due figli, Salvatore e Giuseppe e vive a Catania. Suo marito
Rosario Coletta, purtroppo è morto un anno fa. Maria ha tre figli,
Gaetano, Nuccia e Franca e vive in Belgio, a Bruxelles, assieme al
marito Luigi Musumeci, nato ad Agira come me.
Di fronte alle scuole c'era la casa di mio zio Diego all'angolo di Via
San Francesco d'Assisi, di cui ho già scritto prima.
E adiacenti alla casa, lungo il corso, c'erano alcune fornite
cartolerie e librerie e soprattutto per noi scolari che ci andavamo
spesso c'era, una salumeria fornita di ogni ben di Dio, sempre
affollata: mi sembra si chiamasse Bocconi.
Altro negozio che attirava la mia attenzione era quello di biciclette e
di vari articoli sportivi, di proprietà di Valentino Maganza, sito
all'angolo di Via Santa Barbara, vicino al bar di mio zio Salvatore.
A questo punto, la strada si allargava e ricordo c'era il Ristorante
Bella Napoli e una serie d’edifici moderni, in cui avevano le loro sedi
le istituzioni religiose e politiche più rappresentative della Colonia,
mentre il lato destro era occupato quasi totalmente da negozi e bar al
piano terra e da abitazioni al primo
Lungo il corso, c'era un lungo palazzo con porticato, sede del Convento
delle Suore di Ivrea o di San Francesco, in cui andavano a scuola le
mie cugine, ( come si conveniva per le famiglie della buona borghesia),
e c'era pure la Sede del Vescovato, l'Unione Militare, la libreria del
sig. Guido Vitale, il negozio di articoli sportivi del sig. Mario
Pappalardo e un grande negozio di carne macellata del sig. Giulio
Viciani, vicino al negozio di generi alimentari del sig. Epifani.
Un pò più avanti, si ergeva maestoso il Palazzo del Governatore, con la
sua alta torre quadrata a mo di minareto e di fronte a questo, una gran
piazza con una fontana di marmo travertino al centro, in cui si ergeva
un alto obelisco con in cima un "silfio" in bronzo, una piccola pianta
caratteristica della Cirenaica. Era la vasta Piazza XXVIII Ottobre,
sede del R.A.C.I., (l'attuale Automobil Club Italiano, senza la R
iniziale, che significava Reale), del Museo Archeologico Coloniale e di
noti studi professionali.
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...Era
la vasta Piazza XXVIII Ottobre, sede del R.A.C.I., (l'attuale Automobil
Club Italiano, senza la R iniziale, che significava Reale), del Museo
Archeologico Coloniale e di noti studi professionali... |
Un ricordo preciso, legato a questa piazza, è rappresentato da un mezzo
corazzato inglese, un carro
armato Mark 2, catturato dagli italiani nei primi mesi di
guerra, sul fronte egiziano ed esposto per lungo tempo, come trofeo,
alla curiosità del popolo e di noi ragazzi che tutti attorno,
soddisfatti e fieri, tastavamo le pareti d'acciaio, forate e
completamente ricoperte da una patina di sabbia rossiccia.
Dopo un isolato da detta piazza, il Corso si allargava di nuovo, a
destra, in un grande spazio alberato, chiamato Piazza del Re, l'antica
Piazza del Sale, dove erano ubicati i giardini pubblici, con rigogliosi
e altissimi alberi.
 |
...il
Corso si allargava di nuovo, a destra, in un grande spazio alberato,
chiamato Piazza del Re, l'antica Piazza del Sale, dove erano ubicati i
giardini pubblici, con rigogliosi e altissimi alberi... |
Attorno alla piazza c'erano alcuni dei palazzi più prestigiosi della
città.
A destra, girando dal Corso, c'era l'Albergo Ristorante Italia
 |
...A destra,
girando dal Corso, c'era l'Albergo Ristorante Italia... |
e il largo marciapiedi antistante sempre pieno di tavolini all'ombra di
larghi ombrelloni bianchi, dove un giorno mio zio Diego sorprese,
scandalizzato, le sue figlie e le mie sorelle che sorbivano
l'aperitivo, sedute attorno al tavolinetto, con le sigarette in bocca e
le gambe accavallate.
Vergogna !!!!.
Disse, e dopo averle indotte ad alzarsi, se ne andò sdegnato, per
quell' atteggiamento poco usuale nelle nostre famiglie.
Sull'altro lato della piazza a destra, c'erano il Palazzo del Littorio,
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...Sull'altro
lato della piazza a destra, c'erano il Palazzo del Littorio... |
il Palazzo del Governo, il Palazzo Sichemberg e il Circolo dei
Commercianti.
A sinistra invece, c'era il bar pasticceria Savoia, il Tribunale, il
fioraio Crocivera, la C.I.T., la Cassa di Risparmio della Cirenaica,
dove lavorava un nostro inquilino il Dott. Luigi Beccali, e altri
fabbricati sedi di Banche, Agenzie di viaggio e Consolati esteri.
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...Il
Palazzo della Cassa di Risparmio della Cirenaica, dove lavorava un
nostro inquilino il Dott. Luigi Beccali... |
Sul quarto lato, a chiusura della piazza, si erigeva imponente l'alta
mole del Teatro Municipale Berenice, con la sua ampia scalinata e
l'alto porticato di marmo, in cui ricordo prima della guerra, fu
esposta al pubblico su un palchetto in legno, la prima autovettura di
piccola cilindrata, prodotta dalla Fiat, la mitica Topolino.
Dalla Piazza del Re, girando a destra si andava verso il Municipio,
percorrendo la Via Roma, una moderna strada con palazzoni, alti e in
parte porticati
Gli edifici più rappresentativi, per le loro linee architettoniche,
erano il Palazzo della Banca d'Italia a sinistra e il grande Palazzo
delle Poste, ad angolo con la Via S. Francesco d'Assisi, vicino al
quale c'era il Mercato coperto di recente costruzione, che aveva
occupato il vecchio Cimitero arabo, quindi, un po’ defilato sulla
destra, c'era il Mercato coperto del pesce.
Percorsa l'ampia Via Roma, la strada si restringeva notevolmente perché
entravamo nel quartiere arabo della città.
In questa strada, chiamata Via Generale Briccola, rammodernata di
recente con grandi palazzi porticati, c'erano i negozi più forniti di
Bengasi, gestiti in massima parte da ricchi ebrei e da commercianti
indiani,
 |
...In
questa strada, chiamata Via Generale Briccola, rammodernata di recente
con grandi palazzi porticati, c'erano i negozi più forniti di Bengasi... |
che ostentavano le loro mercanzie, le loro stoffe di seta cinese, gli
avori, i tappeti, e quanto di meglio si poteva trovare in commercio
allora proveniente dalle Indie.
Ricordo alcuni nomi di grandi empori, primo tra tutti quello di Angelo
Aprile, poi quelli di Cardinale e Belleli, Franz Fiorentino, Cosimo
Scarpaci, dei fratelli Legziel, e il negozio di argenteria di Fortunato
Costa.
Il mio emporio preferito era quello del sig. Furia, dove io sostavo
spesso dietro le vetrine, dove erano esposti diversi modelli di fucili
da caccia, armi, radio e altri articoli similari, che mi affascinavano.
La Via Generale Briccola, finiva in un’ampia piazza, dove aveva sede il
Municipio. Una costruzione, che occupava tutto il lato sinistro della
piazza, contornata da altri edifici coloniali,
 |
...Una
costruzione, che occupava tutto il lato sinistro della piazza,
contornata da altri edifici coloniali... |
con bassi porticati bianchi in cui i nativi seduti su
sgangherate sedie attorno ai tavolinetti di ferro, sorseggiavano il
caffè alla menta con le arachidi o fumavano nei loro narghilè.
 |
...
in cui i nativi
sorseggiavano
il caffè alla menta con le arachidi o fumavano nei loro narghilè...
|
Ricordo che c'era un fornitissimo bar di proprietà del sig. Parlato e
la tabaccheria più antica di Bengasi, la n. 1, gestita dal fratello
Giovanni Parlato, la farmacia del Dott. Rinaldi, la torrefazione di
caffè del sig. Giovanni Costa ed infine il gran bazar "Cirenaica" del
sig. Giacomo Papouchado.
Di fronte c'era la Moschea el Kebir, con il suo snello minareto che
svettava in alto, in cui il Muezzin, la sera, intonava la sua dolce
cantilena di preghiere.
 |
...Di
fronte c'era la Moschea el Kebir, con il suo snello minareto che
svettava in alto... |
A destra della moschea, iniziava una stradina stretta e coperta come
una galleria, che diventava ancora più impercorribile per le mille cose
che erano esposte disordinatamente a terra e per il gran numero di
nativi che gesticolando, t’invitavano ossequiosi a comprare le loro
cose, toccandoti con le mani gli abiti.
Era il Suk el Dlam con i suoi mille negozietti piccoli e stracolmi di
mercanzie:
...
Era il Suk el Dlam
con i suoi mille negozietti piccoli e stracolmi di mercanzie... |
stoffe di cotone o di seta vivacemente colorata, barracani, spezie, (il
pepatissimo filfil), tappeti, oggetti di cuoio, ceste di datteri neri,
droghe, profumi inebrianti e tinture rosse e densamente profumate,
l'"henna", con la quale le donne arabe si tingevano le mani e il viso,
e poi tanti dolci. Dolci di mandorla, il gustoso "halgum", la dolce
"helwa", il delizioso dessert baklava, a base di miele e
frutta e mille, mille cose buone ancora.
...
Dolci
di mandorla, il gustoso "halgum", la dolce "helwa", il delizioso
dessert baklava, a base di miele e frutta e mille, mille cose buone
ancora... |
Il gran mondo arabo, nell'espressione più genuina.
Addentrandoci oltre questo stretto percorso, e percorrendo altre
stradine del quartiere arabo, si raggiungeva, passando dalla Piazza
dell'Erba, la Via Osman Bahchek e da qui si raggiungeva la zona dei
Fondugh e, in Viale Regina, il Comando Truppe della Colonia, allora
retto dal Generale Nasi.
Questo poligono stradale, racchiudeva la gran parte della città
vecchia, che si estendeva ancora, con cento strette e contorte
stradine, verso nord, nella zona dei Sabri.
 |
...Questo
poligono stradale, racchiudeva la gran parte della città vecchia, che
si estendeva ancora, con cento strette e contorte stradine, verso nord,
nella zona dei Sabri... |
Percorrendo il Viale Regina,a
sinistra della Via Sciuechat, s’incontrava dopo la Piazza Fondugh,il
grande arco d’ingresso allo Stadio comunale, teatro d’epiche partite a
calcio, di parate militari con le truppe di colore cammellate e di
spettacoli equestri offerti dai cavalieri berberi durante le visite del
Re e del Duce a Bengasi.
In Viale Regina, c'era il panificio del sig. Salvatore Breccia e c'era
 |
Viale
Regina Margherita. In primo piano a sinistra la terrazza del Palazzo
Nicosia, 100 metri più a destra il Palazzo Comando Truppe (indicato
dalla freccia), oggi Sede dell'Ambasciata Italiana. |
un altro esercizio commerciale gestito da un mio parente, lo zio
Pietrino Gulino e da sua moglie, sorella di mio padre di nome Teresa (
ma chiamata "Zia Trisina" dai parenti), unitamente ai figli, Titta,
Giovanni e Angela.
Il Viale, terminava con la Porta Sabri, l'antica porta d’accesso alla
città, subito dopo il nuovo grande Funduk.
Ai lati di tale porta, c'era a sinistra una grand’area recintata con
muri altissimi, comprendente gli edifici dell'Ospedale Coloniale.
Grandi padiglioni di stile coloniale, in cui avevano sede i vari
reparti, sempre affollati d’ammalati.
In quel luogo, nel 1939, unitamente a mia sorella Sina, (che fece poi
da balia al nascituro), sono andato a fare visita ad una mia parente,
moglie del Maresciallo Francesco Arena, di nome "Ciccina" che aveva
partorito prematuramente il figlio primogenito, Enzo.
Questi era così piccolino, così paonazzo che io, impressionato da
quell’insolita visione, mentre gli facevano il bagnetto, sono svenuto,
accasciandomi per terra, tra lo sgomento dei parenti.
A destra di Porta Sabri c'era il Lazzaretto, davanti al quale sostavano
spesso con aspetto trasandato e malaticcio, meretrici arabe, le
cosiddette "mabruke",
 |
...le
cosidette
mabruke... |
anziani beduini ammantati nei loro laceri barracani di lana, assaliti
da nugoli di mosche, e vicino a loro, piccoli, scalzi "diavoletti"
arabi, con l'eterno moccolo giallo pendente dal naso sempre incrostato
e sporco.
Fuori porta, invece, aveva inizio una grande estensione di terreni
pieni di verdi rigogliose palme, tra la strada che conduceva a Tocra e
una spiaggia splendida, sul mare. Era il palmeto dei Sabri, dove, dopo
i primi bombardamenti, abbiamo trovato temporaneo rifugio in alcune
case arabe.
Più in la, a destra della strada, c'erano le fornaci di calce dei
Signori Giardinella, dove io mi recavo per prendere lezioni private di
latino, da Lucia.
Lucia era la figlia maggiore di Giuseppe Giardinella e di sua moglie,
la "Signora Peppina" che assieme a Sarino, Iolanda, Emilio, Aldo e
Gilda, vivevano in una moderna casa a due piani, in Via Zarrugh Raed,
poco lontano da casa nostra. In quella casa io sono cresciuto come un
figlio, assieme agli altri, dopo l'immatura scomparsa del sig.
Giardinella, avvenuta nel 1934. E ricordo ancora oggi, con commozione,
che la piccola Gilda, che allora aveva quattro anni, chiamava
familiarmente e con affetto, i miei genitori, "papà Nenè" e "mamma
Grazietta".
Oggi vivono a Catania.
Il fratello maggiore, Sarino, abile giocatore di calcio, allora, abita
a Sulmona, mentre Aldo, mio fraterno e intimo amico, purtroppo è morto
non molti anni fa. Vicino alla casa dei Giardinella abitava una
famiglia araba di cognome Raed che, data la mia tenera età, mi faceva
entrare liberamente nella loro casa.
Era un'abitazione bella e spaziosa ad un piano, tutta bianca, con una
sola porta d’ingresso. All'interno c'era un ampio spiazzo quadrato
porticato, con tante camere tutt'attorno.
Queste, prendevano luce dalle porte e da strette finestre protette da
fitte griglie di legno, le "musciarabieh"
 |
...Queste,
prendevano luce dalle porte e da strette finestre protette da fitte
griglie di legno, le "musciarabieh"... |
e le belle donne arabe circolavano liberamente senza il velo sul viso,
com’erano costrette a fare quando uscivano per strada. Ricordo i pranzi
luculliani che erano preparati in questa casa per festeggiare la fine
del digiuno, imposto dalla loro religione, per il "Ramadan".
In una casa, simile a questa, abitava in Via Luàhi, quasi di fronte
casa mia, una zia di mio padre, Gaetana, "Tanedda" per i parenti, con
suo marito Filippo Giudice e i figli Fortunato e Giovanni.
Fortunato aveva una giovane moglie "Ciccina" e due figli Filippo, e
Salvino. Un altro maschio, purtroppo gli era morto prima, appena nato
nel 1937, mentre l'ultimo, Giovanni nasceva in seguito a Vittoria, da
profugo.
Altro percorso che io facevo spesso, in bicicletta, era il periplo
della Sebcka, un vasto spiazzo di terreno lagunare collegato con il
mare del porto grande, che serviva da idroscalo per l'idrovolante di
Italo Balbo.
Partivo sempre da Via San Francesco d'Assisi e quindi, percorrevo il
Viale Giacomo De Martino, passando davanti alle scuole elementari
Giosuè Carducci, poi più avanti, a destra c'era la fabbrica d’alcolici
della ditta Xuereb, che ricordo, produceva tra l'altro, una squisita
"anisette", e poi c'era, verso la Sebcha, una clinica privata di
proprietà del Dott. Prosdocimo: mi sembra si chiamasse la Quisisana.
 |
...e
poi c'era, verso la Sebcha, una clinica privata di proprietà del Dott.
Prosdocimo: mi sembra si chiamasse la Quisisana... |
A metà strada c'erano tante case unifamiliari con graziosi giardinetti
fioriti, ben tenuti e recintati tutt'attorno, con alte cancellate di
ferro battuto.
Dietro queste ville a sinistra, c'era il grande Palazzo della G.I.L.,
un edificio di colore oscuro, imponente, con una enorme piazza
antistante, dove noi, Giovani Italiani del Littorio: balilla,
 |
- Angelo Nicosia a
quattro anni - |
avanguardisti, piccole italiane etc, etc, incolonnati e coperti per
tre, marciavamo impettiti e felici !!!, (contrariamente a quello che
per tantissimi anni hanno detto molti italiani.)
Più avanti ancora, a destra, iniziavano gli stabilimenti industriali
tra i quali, ricordo, quello della Ditta Igino Palla e di Adolfo
D'Andrea, con tanti barconi in ferro affondati, semisommersi
dall'acqua, proprio dove aveva inizio il ponte in ferro che conduceva
alla Giuliana.
Ponte che fu parzialmente demolito durante la guerra, per lasciare
ammarare agevolmente gli idrovolanti Savoia Marchetti, che avevano la
loro base nella Sebcha.
Alla spiaggia della Giuliana sono legati i ricordi più belli della mia
fanciullezza.
 |
...
Alla spiaggia della Giuliana sono legati i ricordi più belli della mia
fanciullezza... |
Infatti, tutte le estati, io trascorrevo le vacanze al mare, sempre
ospite di mio zio Diego che aveva una bella villetta lungo la strada
prospiciente la spiaggia o dei sigg. Giardinella, e percorrevo
giornalmente la lunga striscia di sabbia finissima, passando e
ripassando e a volte soffermandomi a guardare le cabine dello
stabilimento balneare del sig. Carlo Trevisani, il ristorante a mare
dei Malvicini , La Sirena e gli altri chalet in legno, colorati
vivacemente, con i terrazzini recintati e coperti di stuoie di palme,
sempre affollati di allegra gioventù in costume da bagno.
Lo chalet del Governatore, e quello degli Ufficiali, invece erano
sempre presidiati da giovani militari in divisa bianca, candida, con la
pistagna del colletto rigido, che vigilavano le terrazze a mare,
gremite di muscolosi giovanotti e giovani damigelle con costume
castigato, all'ombra di bianchi ombrelloni.
Assieme ai miei soliti amici, giocavamo al "chiodo", lanciandolo
roteante in aria per farlo infiggere con la punta nella sabbia bagnata
del bagnasciuga, a Jo-Jo, a tamburello, con le cinque pietruzze da
lanciare in aria, e soprattutto ci divertivamo un mondo con le altalene.
Queste, collocate lungo la spiaggia, erano realizzate con travi di
legno alte circa cinque metri, con una coppia di sedili autonomi appesi
ad un'asse di ferro e su cui noi ci dondolavamo allegramente e
velocemente, sfidandoci a chi andasse più in alto dell'altro. C’era
pure l'altalena, ad un solo sedile, e su questo, spesso, ci mettevamo
in due persone contrapposte, spingendolo con i piedi, una volta
ciascuno, abbassandoci sulle ginocchia.
Oltre questi gioiosi ricordi, però, c'è un altro, macabro questa volta!
Un pomeriggio dell'anno 1935, mentre ero intento a pescare sugli
scogli, vicino al Monumento a Mario Bianco, primo soldato italiano
morto a Bengasi il 19 Ottobre del 1911, durante lo sbarco delle truppe
italiane per l'occupazione della Cirenaica, ho rinvenuto nascosto
parzialmente dalle alghe, il cadavere di un uomo, nudo, con le orbite
degli occhi e altre parti molli del corpo mancanti e pieno di minuti
crostacei appiccicati su gran parte della pelle.
Una visione raccapricciante!.
Allontanatomi velocemente, diedi l'allarme ad alcuni militari che erano
in servizio, nella zona e che accompagnai sul posto. Mi dissero che si
trattava, sicuramente, del corpo di un marittimo imbarcato sulla nave
da carico "Attilio", che molti giorni prima, salpata da Bengasi, era
stata sorpresa al largo da una violenta mareggiata.
 |
...
la nave da carico "Attilio", che molti giorni prima, era salpata da
Bengasi... |
La nave, virando per ritornare in porto, si era rovesciata su un
fianco, affondando, a causa dello spostamento del carico di grano,
trasportato sciolto nelle stive.
Non ci furono superstiti!.
Continuando il periplo della Sebcha, girando a sinistra, dopo il ponte,
prima di arrivare alla spiaggia della Giuliana, si passava davanti al
Cimitero Italiano e dopo le Saline, c'era l'aeroporto, sempre
affollato, dall'inizio della guerra da aerei da combattimento e di
giovani piloti con il casco di pelle morbida in testa.
All'aeroporto A. De Bernardis della Benina è legato un altro caro
episodio della mia gioventù. Io, allora avevo tredici anni, e
frequentavo la casa d’alcuni miei parenti, "Tano" e "Mena" Aquilina e
le loro tre figlie Concettina, (ma il fidanzato preferiva chiamarla
Tina), Maria e Pina, e in casa loro, in Via Suliman Tebel, ho avuto il
piacere di incontrare uno di questi giovani ufficiali piloti, un
ragazzo di 22 anni di nome Menotti Ippolito, che era il fidanzato della
primogenita.
Con interesse, affascinato dal suo portamento alto e signorile e dalla
sua divisa bianca, con l'aquila d'oro appesa sul petto, stavo sempre ad
ascoltarlo, quando mi parlava del suo aereo da caccia e del suo mondo.
E in seguito, suggestionato, volli tentare anch'io di apprendere le
prime nozioni di pilotaggio e acquistai i tre volumi pubblicati dal
Ministero dell'Aeronautica:"Nozioni teoriche per gli allievi piloti".
Edizione S.A. Poligrafica Italiana, Anno 1940, che ancora conservo
gelosamente.
Purtroppo, Menotti, "nell'adempimento del dovere verso la Patria", il
16.01.1942, lasciò vedova mia cugina, con un batuffolo rosa di tre mesi
in braccio, di nome Ines, e io, profugo in Italia, non ho avuto, dopo,
l'opportunità di realizzare la mia aspirazione.
Dalla Benina, proseguendo, si arrivava alla Berka, un sobborgo di
Bengasi dal quale si andava verso il Gebel cirenaico, passando davanti
al Bosco del Littorio, con i suoi rossi campi da tennis, sempre
affollati.
Uscendo fuori porta, dopo il bar Crucitti, si arrivava alle grotte del
Lete, a circa 17 chilometri dalla città, che per questo raggiungevo in
ferrovia.
Un posto ameno, pieno di verde, con la sua Casina del Lete sempre piena
di gitanti, ma spettrale nelle sue cavità sotterranee, dove ci recavamo
con gli amici, per pescare nella gelida fanghiglia, un pesce
particolare, con la testa tozza e grossa, con lunghi barbigli: era una
specie simile al pesce gatto. Pescavamo anche dei gamberi particolari,
che erano ciechi per la perenne oscurità dei luoghi.
Dalla Berka, infine, passando davanti ai pozzi artesiani del Fuehat, da
dove si prelevava l'acqua potabile per la città, si arrivava in quel
vasto promontorio roccioso, il "Gebel", che si affacciava sull'immensa
pianura stepposa, e dal quale si vedeva in lontananza, tra i palmeti,
la bianca città di Bengasi.
Sul Gebel, ad El Regima, mio zio Diego possedeva un caseggiato basso,
fatto di pietre informi, murate con il fango rossiccio e un
abbeveratoio, per l'allevamento di bestiame, ovini in particolare. Non
era una fattoria modello, come quella vicina del Barone Polara, ma per
me rappresentava sempre qualcosa di cui essere orgoglioso quando ci
andavo a cavallo con mio zio.
Non sono andato, mai, più in la di quel posto ad est.
Verso sud ho fatto qualche gita familiare al Guarscia, un'oasi di verde
intenso sita a circa 10 Km. dalla città, dove andavamo a fare qualche
pic-nic fra i giardini del villaggio agricolo italiano, il Lunedì di
Pasqua.
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Verso sud ho fatto qualche gita familiare al Guarscia, un'oasi di verde
intenso sita a circa 10 Km. dalla città, dove andavamo a fare qualche
pic-nic fra i giardini del villaggio agricolo italiano, il Lunedì di
Pasqua... |
Nel 1937, invece, sono andato a Derna,
la "Perla della Cirenaica", com’era chiamata per la presenza di un'oasi
meravigliosa e piena di giardini oltre alle solite palme di datteri.
Una breve vacanza fatta dalle nostre famiglie, assieme ad altri amici,
il sig. Russo e signora e il sig. La Cognata, a bordo di nostre
autovetture e delle due auto, una Bianchi e un'Alfa Romeo che la coppia
di sposi formata dai miei fratelli con i figli di mio zio, avevano
portato in Libia dal loro viaggio di nozze in Italia.
Una vacanza meravigliosa, della quale ricordo la lunga strada asfaltata
che percorreva l'altipiano, passando tra campi rigogliosi pieni
d’alberi in fiore, tra i Villaggi Luigi Razza e Beda Littoria e le case
coloniche che i "Ventimila" contadini italiani, l'anno dopo,
nell'ottobre del 1938, avrebbero abitato per cercare di dissodare e
rendere fertili quelle distese steppose che si perdevano a vista
d'occhio verso le lontane oasi di Cufra.
Prima di arrivare a Derna, ci siamo fermati a pranzare a Cirene
per poter visitare le rovine greco-romane e per andare ad Apollonia,
che vedevamo sulla nostra sinistra.
Resti di anfiteatri con colonne abbattute , tombe, strade sconnesse con
basole di pietra calcarea sbrecciata e solcata dalle ruote in ferro dei
carri, con ciuffi di sterpaglie secche negli interstizi e sparsi un po’
d'ovunque sugli altri reperti archeologici che erano in uno stato di
completo apparente abbandono.
Qualcuno della comitiva, indicava e illustrava quelle rovine, che
unitamente a quelle intraviste lungo la Via Balbia,
a Lepts
Magna, durante la fuga verso Tripoli, desidererei rivedere
oggi, con più competenza, assieme a mio figlio Emanuele, anche lui
architetto.
Ritornando a Bengasi, siamo entrati in città dalla Berka, percorrendo
il Viale Vittorio Veneto e la Via
Stazione,
 |
...
siamo entrati in città dalla Berka percorrendo il Viale Vittorio Veneto
e la Via Stazione... |
passando davanti alla Caserma Moccagatta, alla Caserma degli allievi
Zaptiè, (i famosi carabinieri libici a cavallo), alla fabbrica della
"Birra Cirene" e al Deposito Foraggi dell'esercito coloniale.
Anche a questo luogo è legato un ricordo della mia infanzia, pieno di
vivide luci rosse.
Una notte, il Deposito Foraggi di cui sopra, che era stato realizzato
in una vastissima buca sotto il livello stradale, alla Berka, fu dato
alle fiamme da alcuni beduini ribelli, seguaci di Omar El
Mukhtar.
Fiamme altissime che si vedevano distintamente sopra le terrazze dei
palazzi, dalle quali, sgomenti, le osservavamo, intimoriti delle
altissime lingue di fuoco che salivano al cielo crepitando
intensamente. Uno scenario dantesco, mai visto prima, da noi ragazzi.
Altro percorso a me abituale era quello del Lungomare Benito Mussolini,
che rappresentava per noi ragazzini, il campo di gara per memorabili
sfide in bicicletta. Dalla linea
di partenza, sita vicino la Dogana, e segnata a terra col gesso, tra i
due alti obelischi marmorei, sormontati dalla Lupa di Roma e dal Leone
di San. Marco,si arrivava al traguardo, davanti alla Cattedrale.
 |
...Altro
percorso a me abituale era quello del Lungomare Benito Mussolini, che
rappresentava per noi ragazzini, il campo di gara per memorabili sfide
in bicicletta... |
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...si
arrivava al traguardo,
davanti alla Cattedrale....
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Per gli adulti, invece, quel marmoreo Lungomare, rappresentava il luogo
in cui il pomeriggio, potevano passeggiare a piedi o mollemente seduti,
sulle tipiche carrozzelle arabe, trainate da ronzini malandati e con il
cupolone di cerata nera abbassato, per vedere ed essere visti.
Carrozzelle scoperte, condotte di solito da arabi, con il classico
turbante bianco-sporco in testa e la sigaretta arrotolata, tenuta
all'angolo della bocca. Con le redini in una mano e con l'altra
mulinando nell'aria, la schioccante frusta, la "zotta", che finiva la
sua veloce corsa sulle gambe del povero cavallo.
Qualche volta, purtroppo, questo schiocco l'ho sentito ed assaggiato
anch'io, sulle mie gambe imberbi, quando ero scoperto dal cocchiere
mentre ero accoccolato sull'assale posteriore della carrozza e mi
lasciavo trasportare da clandestino, assieme ai clienti, lungo la
strada.
Sul lungomare si affacciavano alcuni grossi palazzoni moderni e la
caratteristica sagoma del Palazzo del Governatore, con il suo alto e
bianco torrione quadrato che sembrava un minareto.
Quella larga, sontuosa, strada voluta dal Governatore De Bono, svoltava
a destra dopo circa quattrocento metri, proprio all'altezza della
Cattedrale e poi sempre alberata da palme rigogliose, passava davanti
al "Grande Albergo Berenice" e si congiungeva con il Viale Giacomo De
Martino, costeggiando il porto piccolo, con il suo molo sempre pieno
d’imbarcazioni da diporto.
La Cattedrale era una massiccia costruzione con due grandi cupole
rivestite di rame e con un'ampia scalinata di marmo che la rendeva più
possente, "una copia mal riuscita del S.Antonio di Padova" come
giustamente la definisce la sig.ra Paola Hoffmann.
Era il luogo dove, la domenica, si dava convegno l'alta borghesia, i
funzionari del Governo coloniale con le famiglie al completo,
agghindate a festa, i rappresentanti del Governo militare, il prefetto
Vellani e il vescovo Monsignor Candido Moro, per assistere
ostentatamente alla Santa Messa, al suono della Marcia
Reale.
A fianco alla Cattedrale c'era il bel Palazzo dell'Episcopato, nei cui
locali, di pomeriggio ci riunivamo per partecipare alle lezioni di
catechismo e soprattutto, per sfidarci in interminabili partite a
Calcio Balilla, o bigliardino come lo avrebbero chiamato oggi.
Il Grande Albergo Berenice, limitrofo alla Cattedrale era anch'esso un
grosso edificio dalle linee squadrate e possenti come si addiceva
all'epoca alle costruzioni volute dal Regime.
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...Il
Grande Albergo Berenice, limitrofo alla Cattedrale era anch'esso un
grosso edificio dalle linee squadrate e possenti come si addiceva
all'epoca alle costruzioni volute dal Regime... |
In quest'albergo, nel 1936, abbiamo festeggiato le doppie nozze tra i
miei fratelli germani, Giovanni e Sina Giudice, con Rosa e Giovanni
Nicosia, figli di mio zio Diego. (Ho capito, così, solo dopo tanti
anni, perché io ero tanto coccolato in casa di mio zio Diego. Ero il
falso scopo, allora, delle continue visite reciproche dei fidanzatini).
Una cerimonia grandiosa, come si addiceva allora, alla categoria dei
commercianti affermati. Un pranzo nuziale, a cui partecipò tutto
l’entourage del clan Nicosia, seduto attorno ad un lunghissimo tavolo
disposto ad U, dove fu immortalato dal fotografo, Cav. Gaetano Nascia,
con numerose foto che conserviamo ancora.
Poi nel 1938, la conquista
dell'Etiopia sconvolse la nostra vita familiare. I miei
fratelli, Giovanni con la moglie Rosa e Pino, che erano in Africa
Orientale, si trasferirono ad Asmara e fecero fortuna con un emporio di
materiale edile.
La ferramenta FERRA.FRA.GIU. consentì loro di espandere la propria
attività anche ad Addis Abeba, ma un triste destino aspettava il
maggiore dei miei fratelli, Giovanni.
Il 16.10.1939, a Addis
Abeba, nella capitale dell'Impero (!!), una, comunissima
infiammazione dell' appendice intestinale, non diagnosticata in tempo,
dal suo medico di fiducia, il cognato Michele Trigilio, si trasformò in
pochissime ore in peritonite e mia cognata Rosa restò vedova, con la
piccola Graziella, di 11 mesi, orfana di padre.
Nelle famiglie Giudice-Nicosia c'è stata sempre una triste fatalità!.
Nei momenti di maggiore necessità, gli uomini più rappresentativi della
famiglia, venivano improvvisamente a mancare.
Prima, Angelo Giudice, padre di mio fratello germano Giovanni, che morì
durante la guerra 1916/1918, poi questi nel 1939, all'apice della sua
scalata imprenditoriale ed infine mio zio Diego, nel 1941, quando
profughi da pochi giorni a Ferla, in Sicilia, le nostre famiglie erano
alla disperata ricerca di un’attività per rifarsi una vita, dopo aver
abbandonato tutti i nostri averi in Africa.
La vita a Bengasi, per noi Italiani, scorreva felice e con tanta
soddisfazione, lavorando sodo e guadagnando bene, sino a quando scoppiò
la guerra. Poi tutto cominciò a diventare difficile, con il passare del
tempo.
La scarsità dei rifornimenti cominciò a preoccuparci, e il commercio
iniziò a risentirne anche se, dicevano, doveva trattarsi di una guerra
lampo, che avremmo sicuramente vinto. Infatti, così sembrò
inizialmente, con la veloce avanzata delle nostre truppe, verso
Alessandria d'Egitto e Marsa Matrùk.
Ma prima la morte di Italo Balbo,
sul cielo di Tobruk, (abbattuto si vociferava, "casualmente", dalla
nostra contraerea), dopo, l'affondamento della nostra nave da guerra
San Giorgio e quindi i bombardamenti che iniziarono a distruggere la
nostra città, ci fecero allarmare moltissimo.
Noi ragazzi, però, nati nel clima di "Credere,
Obbedire e Combattere", e ignari della sorte che ci sarebbe
toccata, ci entusiasmavamo a sentire i bollettini di guerra, che
magnificavano la fulminea avanzata verso il Cairo.
Avevano richiamato alle armi come artigliere, anche mio padre, che
sotto il peso dei suoi cinquantuno anni, era stato costretto a vestire
la divisa militare della M.V.S.N., (Milizia Volontaria Sicurezza
Nazionale) del regime e ad aggregarsi ad un presidio della contraerea,
alla Giuliana.
E così, io facevo il tifo per lui, la sera, salendo sul terrazzo,
appena si sentiva l'ululato lugubre delle sirene, che ci avvertivano
delle incursioni di aerei nemici.
Armato di una bagnarola di lamierino di ferro zincato che tenevo alta
sulla mia testa, con le due mani serrate sui larghi manici, per
proteggermi dalle schegge, (così credevo), stavo ad osservare il cielo,
atteggiandomi a "piccola vedetta ……….libica", con l'elmetto in testa
come il "Feroce Saladino", di buona memoria giovanile.
All'avvicinarsi di quel suono tipico e caratteristico che facevano i
motori degli aerei inglesi (Uaan--Uaan--Uaan), che riconoscevo subito a
distanza, la volta celeste si illuminava d'incanto, scrutata da decine
di fotoelettriche che sciabolavano l'aria, alla ricerca del nemico.
Quando l’aereo era inquadrato da una di esse, tutte le altre collocate
attorno alla città, si dirigevano sull'obbiettivo formando come una
grande piramide di fasci di luce. E cominciava "lo spettacolo", che con
grande infantile incoscienza ogni sera andavo ad assistere !!.
Un inferno di fuoco!.
Si udivano le mitragliere pesanti, che sparavano continuamente
proiettili traccianti, che rapidamente salivano in cielo rincorrendosi
luminosi, e poi a mano a mano affievolendosi, ricadevano a parabola
verso terra. Si udiva il rumore dei cannoncini a tiro rapido, che
anch'essi facevano la loro parte. Ed infine, c'erano i cannoni della
contraerea che facevano un chiasso infernale, ma intervallato,
illuminando l'aria con vivide fiammate azzurrine. In cielo, le
nuvolette grigio-bianche lasciate dagli scoppi, venivano illuminate
dalle fotoelettriche che inseguivano inutilmente un puntino grigio-nero
che si allontanava indisturbato.
Erano gli aerei ricognitori nemici, troppo ad alta quota per essere
colpiti, dicevamo tra noi, forse inconsciamente, per giustificarci
dell'inutile sbarramento di fuoco fatto della nostra contraerea.
Ma una sera avvenne qualcosa di diverso.
Improvvisamente apparve in cielo, nella posizione indicata dalle
fotoelettriche, una palla di fuoco e io cominciai a saltare e gridare
con gioia: Colpito !!, Colpito !!, e aspettavo con orgoglio di vedere
cadere quell'aereo nemico abbattuto dalla "contraerea di mio padre".
Però quella palla luminosa non scendeva velocemente, ma si dondolava
dolcemente in cielo. Sembrava che si dirigesse sulla mia testa, e così
impressionato, scappai nel sottoscala a raccontare l'accaduto. Mi fu
detto che si trattava di un "bengala". Un aggeggio di guerra che
serviva al nemico per illuminare a giorno gli obiettivi, per
fotografarli o per meglio individuarli durante il bombardamento.
Che ne sapevo io di bengala e bengala!!!
Per me allora, lettore di Emilio
Salgari, il Bengala era la patria di Sandokan
e delle sue tigri di Mompracem, e così risalii in terrazza in tempo per
vederlo spegnere e sbriciolarsi, alla fine, in una cascata di
scintille. Poi, la sera del 15 settembre 1940, qualcosa cambiò nel mio
scenario notturno d’osservazione. Il classico rumore degli aerei
inglesi d'alta quota, non era quello usuale.
Dovevano essere in molti, gli aerei che si avvicinavano a Bengasi e
l'attività della contraerea si fece più frenetica e anche le
fotoelettriche sembravano impazzite.
All'improvviso, ecco, il primo tremendo scoppio, che sembrò bloccarmi
il respiro, facendo tremare il pavimento della terrazza sotto i miei
piedi. Poi un secondo, un terzo, un altro ancora e non ebbi il coraggio
di continuare a contarli, perché in un attimo scappai giù nelle scale,
scendendo a precipizio e saltando i gradini a quattro a quattro,
orientandomi nel buio, seguendo il corrimano, per arrivare il più
presto possibile nel sottoscala, dove mi attendevano terrorizzati i
miei familiari.
Quella sera, dopo il segnale di cessato pericolo, siamo andati a
dormire vestiti, sicuri che da lì a poco gli aerei nemici sarebbero
ritornati. Ma anche se non ci furono altri allarmi, dormimmo poco.
Infatti, il Viale Regina era percorso continuamente da automezzi dei
vigili del fuoco, da camion militari e da autoambulanze che facevano la
spola tra l'Ospedale e le zone della città che erano state colpite,
specialmente con il porto dove era stata affondata una nave da
trasporto piena di militari, facendo una strage.
I cadaveri o quello che restava di essi, venivano trasportati sui
camion avvolti in lenzuola, accatastati alla rinfusa, tanto erano
numerosi.
Il giorno dopo, appena alzato, feci colazione e con noncuranza,
inosservato, mi allontanai da casa: volevo andare a vedere le zone
bombardate e mi diressi verso il porto.
Le strade, nella zona, erano tutte intasate di detriti d’edifici
colpiti dalle bombe. Mi avvicinai con la fida bicicletta al Teatro
Municipale Berenice
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...Mi
avvicinai con la fida bicicletta al Teatro Municipale Berenice ... |
e potei osservare più
da vicino gli effetti devastanti della guerra. Strade piene di grandi
buche con alberi divelti o tranciati dalle schegge, serrande metalliche
squarciate, infissi divelti e senza vetri, sparsi tutt'intorno. Edifici
diroccati, altri incendiati dagli spezzoni incendiari e poi, macchie di
sangue, sangue, sangue un pò dovunque.
Una scena apocalittica, allora, per un ragazzo di 14 anni, alla sua
prima esperienza del genere.
Oggi anche i bambini sanno cos'è la guerra, martellati dalla
televisione, con scene di distruzione e di morte, in Bosnia, in
Cecenia, nel mondo intero. Ma allora non c'era la televisione e le
scene di guerra, li vedevamo al cinema, prima del film, con il "Cine
Giornale Luce", in bianco e nero, e così facevano meno impressione.
Vederle per la prima volta al naturale, con quell'odore di morte è
stato terribile !. Quella visione mi fece subito indietreggiare. Sentii
piegarmi le gambe, alla vista di tutto quel sangue, e così scappai via
di corsa verso casa.
Trovai i miei familiari riuniti in negozio a parlottare.
Discutevano preoccupati, di quello che era accaduto la sera prima e di
ciò che poteva accadere successivamente.
Le caserme del Comando Truppe, di fronte casa nostra, quella sera,
erano state risparmiate ma ancora per quanto tempo, si chiedevano i
miei? E così fu presa una decisione collegiale, da tutte le famiglie
del clan Nicosia e da altri parenti che vivevano nel nostro ambiente:
non era prudente restare in città, quella notte, vicino a probabili
obiettivi di guerra.
Ma dove era opportuno sfollare ?.
Occorreva trovare una sistemazione sicura, non lontano dalla città,
affinché gli adulti, potessero di giorno continuare le loro attività
lavorative, e raggiungerci, la sera, alla chiusura degli esercizi
commerciali.
Fu così scelto il palmeto dei Sabri. Era vicino, fuori porta, ed era
adiacente all'Ospedale Coloniale, quindi un posto probabilmente sicuro.
E così, lo stesso giorno, sfollammo in massa verso il palmeto.
Materassi, coperte, pentole e tutto quello che sul momento ritenemmo
opportuno, fu caricato su alcuni bassi carri di legno a quattro ruote,
trainati da un cavallo e ci avviammo, come i pionieri del Far-West, ai
Sabri, ospiti di un contadino siciliano di cognome Arnone e della sua
bellissima donna araba: Nuara.
Un uomo segaligno, dai folti capelli rossicci, riccioluti e col
mozzicone di "mezzo toscano" in bocca sotto i baffi ritorti all'in su.
Ci misero a disposizione uno stanzone, disadorno, in cui sistemammo i
materassi per terra, allineati a stretto contatto uno con l'altro,
lungo le due pareti, in modo da formare due grandi lettoni.
Al centro della stanza, un separé, realizzato con una corda, alla quale
erano state fissate con le mollette, alcune lenzuola, salvava la
pudicizia: maschi a destra e femmine a sinistra !!, tutti accorpati e
divisi per nuclei familiari.
Sembrava un campo di concentramento.
Il bombardamento sulla città, per i membri della famiglia che non erano
mai saliti prima con me sulla terrazza, quella notte, rappresentò uno
spettacolo di guerra da non perdere. E così restammo per molto tempo,
con il naso per aria a fare congetture, sulle zone che venivano colpite
dal nemico, seguendo tranquilli sotto le alte palme, le luci delle
fotoelettriche che inseguivano gli aeri nemici.
Il giorno, dopo ci siamo dati da fare per migliorare i nostri
alloggiamenti, e i nostri genitori, ritornati dalla città con i mezzi e
gli attrezzi necessari, si misero a costruire con tavole di legno e
lamiera ondulata, un’ ampia baracca, adiacente e intercomunicante, con
il precedente alloggio. Furono, così, approntati i servizi igienici
alla turca e la cucina con zona pranzo incorporata!
Siamo rimasti nel palmeto dei Sabri circa quattro mesi, come in un
villaggio turistico d’oggi, in allegra compagnia, specialmente per noi
più piccoli.
Allora, era opinione generale che doveva trattarsi di "una guerra
lampo", come avevano fatto in Europa i tedeschi.
Ed infatti, la guerra, sembrava riguardare altre città, in Egitto,
lontano da noi: Marsa
Matruk, Sollum, Sidi El Barrani, Giarabub e tranquilli noi
seguivamo le cronache di guerra ignari di quello che di li a qualche
mese ci sarebbe capitato. Ma gli eventi incalzavano e le notizie che
sentivamo e leggevamo sul giornale locale "Cirenaica Nuova"
cominciarono a diventare preoccupanti.
Gli sviluppi delle battaglie in corso su El Alàmein e sul fronte
libico, li apprendevamo, di giorno, dalla voce di Mario Appelius, nei
bollettini di guerra italiani e dopo di nascosto, la notte, quando
chiusi in casa al buio, ci sintonizzavamo su Radio Londra e aspettavamo
di sentire i quattro colpi di tamburo della quinta sinfonia di
Beethoven: "Ta-Ta-Ta---Taan" e subito, dopo la voce suadente e
familiare del Colonnello Stevens, ci faceva intuire che il bollettino
di guerra ascoltato prima, dalla radio del regime, era totalmente falso.
E ogni giorno che passava, il fronte di guerra si avvicinava sempre più
a Bengasi!
Fu stabilito, così, che era più prudente allontanarsi dalla città.
A novembre, intanto, mia zia Grazia con le figlie, Rosa con
Graziellina, Nellina e il piccolo Diego, figlio di Sina, erano partiti
per l'Italia. Gli altri della famiglia, il 17 Gennaio 1941, caricate
sulle autovetture la maggior parte delle cose indispensabili, partirono
a gruppi, me compreso,, alla volta di Tripoli.
Mille e cento chilometri di strada desertica, lungo la Via Balbia,
passando sotto l'Arco dei Fileni, tutti incolonnati con altri mezzi,
che abbandonavano malinconicamente Bengasi!
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tutti
incolonnati con altri mezzi, che
abbandonavano malinconicamente Bengasi!
(clicca sulla
foto e guarda il video de Il Repubblichino)
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A Sirte, non trovammo posto nell'albergo omonimo e ci dovemmo
accontentare di dormire, accomodati alla meglio, su poltrone e divani.
Il giorno dopo riprendemmo il cammino, passando per Lepts-Magna, le cui
rovine scorgevamo da lontano, e così, sfiniti, arrivammo a Tripoli,
ospiti di amici che ci alloggiarono.
Ci fermammo lì sino alla fine di febbraio del 1941
Durante quel soggiorno, assistetti ad un triste evento: l'affondamento
di un idrovolante Savoia Marchetti, della Croce Rossa, all’interno del
porto.
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...Durante
quel soggiorno, assistetti ad un triste evento: l'affondamento di un
idrovolante Savoia Marchetti, della Croce Rossa, all’interno del
porto... |
Mi trovavo sul molo assieme ad altri amici e stavo osservando la
manovra d'ammaraggio dell'aereo che era già a pelo d'acqua, quando
improvvisamente, un piccolo peschereccio, sbucato fuori tra due navi
ancorate al molo, non accorgendosi della manovra in corso, gli tagliò
la strada.
Il pilota resosi conto all'ultimo momento della presenza dell'ostacolo,
richiamò disperatamente a se la cloche, dando gas ai motori, che
rombando spasmodicamente tentavano di far riprendere quota all'aereo,
ma questo, in fase di stallo, si piegò sul fianco destro e scivolò
d'ala verso l'acqua, in cui cominciò ad immergersi.
Furono attimi di sgomento e di terrore per tutti noi. Immediatamente
iniziarono i soccorsi e così furono portati in salvo alcune persone.
Altre purtroppo perirono, annegate.
A Tripoli, intanto il tempo passava e i bollettini di guerra con le
notizie dalla Cirenaica erano sempre più preoccupanti.
Tobruk, la nostra roccaforte, il 22 gennaio 1941, era stata occupata, e
il Generale
Graziani succeduto ad Italo Balbo, ordinò la ritirata dei
nostri militari da tutta la Cirenaica, chiedendo l'aiuto dei tedeschi
che avrebbero inviato in Libia il famoso Generale Rommel con la "
Deutsches Afrika Korp" forte dei suoi carri armati pesanti, Mark III e
Mark IV e delle squadriglie di aerei Stukas !.
La guerra si avvicinava inesorabilmente a Tripoli e così, cominciammo a
meditare che era più opportuno espatriare definitivamente dalla Libia,
ma purtroppo questo proposito non era facile realizzarlo. I servizi di
linea dell'Ala Littorio, la progenitrice dell'Alitalia d’oggi, erano
insufficienti e così cercammo disperatamente altri mezzi di fortuna.
Finalmente a piccoli gruppi, chi su navi da trasporto militari, chi in
aereo, riuscimmo a rientrare in Patria. Mia sorella Sina con il figlio
Angelo e la domestica Graziella, partirono in aereo il 10 febbraio del
‘41. Mia madre e mio padre, in idrovolante, con le mie sorelle, Rosa ed
Agata per Marsala.
Al gruppo formato da me, da mio zio Filippo Giudice e moglie, dal
fratello di Maria Burrafato, Pinuzzo Giudice e dalla famiglia di mio
zio Salvatore al completo, toccò in sorte la motonave "Conte Rosso",
che una sera di plenilunio partì da Tripoli, verso l'Italia, assieme
alla nave Conte Verde ed altre navi ancora, cariche di profughi,
scortate da mezzi navali della marina militare.
Ci sistemammo alla meglio, sdraiati sul pavimento, coprendoci con le
poche cose che c’eravamo portate appreso. Temevamo di essere attaccati
dal nemico e non dormimmo molto la notte, anche per il freddo.
Ma per fortuna non avvenne nulla.
Il giorno dopo, scrutavamo il cielo in apprensione, confortati dalla
presenza ai fianchi del convoglio, dei mezzi navali veloci che ci
scortavano e degli aerei che volteggiavano sulle nostre teste. Infatti,
durante il viaggio successivo di ritorno, la nave Conte Verde, venne
affondata dagli aerosiluranti inglesi con tutto il suo carico di guerra.
Il 02 Marzo 1941, arrivammo finalmente a Napoli, stanchi, sporchi, ma
salvi!.
Per la prima volta mettevo piede sulla Madre Patria!
Così, iniziava la mia vita in Patria, da profugo, prima a Ferla
sino al 04 aprile 1941, (quando improvvisamente morì mio zio Diego),
poi a Vittoria
sino al 1946 e quindi ad Agira,
dove ero nato, il 20.01.1927.
Ho tentato di ritornare a Bengasi, e nel 1969, c'ero quasi riuscito.
Avevamo preparato i passaporti, per raggiungere da turisti mio cognato
Giovanni, che per nostalgia e per opportunità era rientrato a Tripoli
con la moglie e i figli: Diego, Angelo e Graziella che intanto era nata
a Vittoria. Ma per mia sfortuna, (o fortuna) non siamo riusciti a
partire perché il 1 Settembre del 1969 ci fu il “colpo di stato” del
Colonnello Gheddafi e il cambio di governo in Libia.
Dal 1969, sono passati altri venticinque anni e il sogno di rivedere
Bengasi, che ritengo sia vivo in tutti gli "Italiani di Libia" non si è
ancora realizzato, e chissà se si realizzerà mai, almeno, per quelli
della mia età! Mi auguro soltanto che un domani possano aprirsi le
frontiere, almeno, per i nostri figli, affinché questi, visitando e
conoscendo la Libia, possano comprendere il sentimento e l’amore che
abbiamo avuto noi anziani, verso quella terra che abbiamo amato tanto.
Oggi vivo a Palermo, con la famiglia, nonno felice e "priatu"
(soddisfatto) di due splendidi nipotini, con la segreta speranza di
potere un giorno ritornare con loro a Bengasi, per rivedere ancora una
volta i luoghi legati alla mia fanciullezza, felice e spensierata.
Sono trascorsi da allora 54 anni.
Però ho rivisto Bengasi!
Prima con gli occhi chiusi, cercando di ricordare e focalizzare strade,
ambienti ed episodi di vita familiare, scrivendo queste note. Dopo,
troppo fugacemente, durante la trasmissione televisiva, su Rai Uno di
qualche mese fa: "La
Battaglia di El Alamein". Un'inquadratura aerea di pochi
secondi che riprendeva la zona del porto sul Lungomare, che
inaspettata, ha fatto battere velocemente il mio cuore, riaccendendo la
speranza di poter ritornare in Libia.
Ed allora dico: arrivederci Bengasi!._
Palermo 17.03.1995_
angelonicosia@libero.it
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