“Segna
con una traccia rossa la prima pagina del libro, perché la
ferita è invisibile al suo inizio” -
Edmond Jabès
- Il libro delle interrogazioni
1. Il pogrom del 1945 tra memoria
e storia.
Parlare dei pogrom del novembre
’45 e del giugno ’48 era un tabù. Sul terrazzo soprastante la
casa in cui abitavo c’era una scritta in gesso bianco: “novembre
1945, giorno della chomata”. Con questo termine due miei
fratelli avevano dato un nome al massacro (pra’oth) di
oltre trecento persone (secondo i calcoli ufficiali: 167 persone):
decine di corpi mutilati, sinagoghe bruciate e profanate, rotoli
della Torah calpestati, fatti a pezzi e bruciati, donne
incinte, cui era stato squarciato il ventre, bambini con la
testa spaccata contro le pareti[2].
Il ricordo di quegli eventi era
avvolto in famiglia da un sentimento cupo. Tutto era
avvolto nel mistero: il ricordo vivo della tragedia, come quello
della resistenza e del grande esodo che aveva coinvolto la quasi
totalità degli ebrei di Libia. Non si poteva parlarne, né
chiedere e quando i più anziani lo facevano era con mezzi
termini ed io avevo appreso a riconoscere il significato
di certe perifrasi, di certe allusioni, quando il discorso
cadeva sul ‘45 e sul ’48.
Al pensiero di quel che era
accaduto e avrebbe potuto ripetersi, cercavo con la fantasia di
contrapporne altri, di segno opposto, che alleviassero
l’angoscia. Cercavo con l’immaginazione le tracce di un’altra
storia, dell’autodifesa ebraica che nel ‘45 respinse la folla
omicida all’ingresso della Hara (il quartiere ebraico) e
nel ’48 arrivò preparata al nuovo tragico appuntamento.
Avrò avuto tre o quattro anni
quando fingevo di essere occupato con i miei giochi per meglio
ascoltare i discorsi degli adulti e capire il perché dei
funerali al buio, con il coprifuoco, lungo un percorso protetto
da un cordone di truppe armate che prima non erano intervenute e
ora impedivano ai parenti di poter seguire i loro cari verso l’
ultima dimora. Tra i molti indizi che potei cogliere era la
fossa comune in una zona appartata del cimitero dove era stata
eretta una grande tomba in memoria del signor Fellah Mushi
(Moshe). Da ragazzo vi sostavo spesso in preghiera.
Sulla parete del salone d’ingresso
di casa, mio padre teneva bene in vista la foto di Muni el
Gabbay: un uomo forte, morto in giovane età, che aveva avuto un
ruolo di primo piano nella difesa del quartiere ebraico nel ‘45.
I suoi lunghi mustacchi estendevano un alone di protezione su
tutti noi. A Tripoli lo si ricordava con orgoglio, anche se
quando era stato in carcere pochi si erano preoccupati del
fatto che la madre non aveva denaro a sufficienza per preparare
il pasto
sabbatico. Mia madre ce lo ripeteva spesso con dolore.
L’idea che Muni fosse imparentato con mio padre mi dava
sicurezza.
Mio padre teneva in casa anche una
foto di Napoleone. Sosteneva contro ogni evidenza che fosse
ebreo. Non c’era verso di fargli cambiare opinione e solo molti
anni dopo ci riuscii. Secondo la sua interpretazione
Napoleone non lo diceva per non aumentare l’invidia contro il
popolo ebraico. Del resto, diceva, non avevano
fatto i marrani in Spagna per sfuggire all’inquisizione e per
aiutare i loro fratelli più sfortunati? Quando agli indizi,
bastava scomporre in ebraico la parola Napoleone per trovare una
spiegazione. In ebraico nophel vuol dire cadere.
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Video caricato
in data 30/lug/2012
da Hamos Guetta
Fuggire da un paese e dover ricominciare , per chi è più
difficile ? Padri o figli ?
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Come ho scoperto molti anni dopo, anche ad un genio come Freud poteva
con argomentazioni analoghe, compiere operazioni spericolate e
arbitrarie ricostruzioni col nome di Massena per via
del’assonanza con l’ebraico Menashè. In seguito Freud si
ricredette e in una nota aggiunta all’edizione del 1930 della Traumedutung mise
in dubbio l’origine ebraica del maresciallo napoleonico[3]. E’ curioso perché in quegli
stessi anni maturava l’idea di scrivere un saggio in cui
affermava l’origine egizia di Mosè. Pur nella consapevolezza di
non essere in possesso di elementi certi a sostegno della sua
bizzarra tesi,a parte il nome e altri indizi secondari, Freud
affermò addirittura che di Mosè dovevano essercene in realtà
due: uno egizio di nobile origine e seguace del culto di Aton, e
uno ebreo seguace di un culto vulcanico che il testo biblico
avrebbe poi riunito in una sola persona. Freud non si preoccupò
dispiegare al lettore come mai il primo fosse un nobile egizio
per via del nome, anche se non unicamente, mentre il secondo
potesse essere ebreo pur avendo un nome egizio.
Messosi a capo di un popolo di
schiavi, cui aveva trasmesso importanti verità del culto
monoteistico di
Aton (in realtà si trattava di un culto
enoteista), il
Mosè egizio sarebbe poi stato assassinato nel
corso di una rivolta. Starebbero qui, secondo
Freud, il segreto
archetipico delle caratteristiche culturali e religiose
dell’ebraismo, il profondo senso di colpa depressiva che lo
attraversa dalle origini, l’arcano delle sue vette morali e
delle sue tragiche peripezie. A differenza degli altri popoli,
gli ebrei hanno assunto sulle spalle la colpa delle origini per
via archetipica o mediante un insegnamento segreto trasmesso per
secoli, di cui il fondatore della psicoanalisi, da ateo
conclamato, si considerava in realtà l’erede e il continuatore[4].
Dopo il grande
esodo del 1948-’51 (guarda il
video) da trentasei – quarantamila, che eravamo, eravamo ridotti a
poco più di quattromila, di cui la metà circa con passaporto
straniero. Come sempre a partire per primi erano i più poveri,
coloro che avevano perduto ogni avere, e in primo luogo la
speranza di tornare alle loro case e nei villaggi, se vivevano
all’interno del paese. Ma anche tra quanti erano rimasti, più di
un quarto, nei primi anni di vita dello stato libico, era
nullatenente. Seppure ridotta di nove decimi la presenza ebraica
continuava a costituire un problema. Con l’ascesa del
panarabismo e l’acuirsi delle crisi mediorientali era solo una
questione di tempo.
Da ragazzo anche una partita di
pallacanestro poteva far precipitare i precari equilibri con gli
arabi. La tifoseria araba non accettava di perdere se a giocare
contro era una squadra composta da ebrei, o da italiani. Anche
per noi ragazzi era così. Talvolta bisognava trovare una
onorevole via di uscita tra sassate reciproche. Ma che ciò
potesse accadere allo stadio, conferiva al nostro sport un
aspetto caricaturale.[5]
L’estraniazione dalla vita
pubblica del paese era una condizione di sicurezza, la più
elementare delle precauzioni. Se anche l’avessimo voluto, non
avremmo mai potuto identificarci coi simboli della nuova nazione.
Potevamo dirci libici, ma non arabi né mussulmani, e in fondo
era questo che più contava nella definizione dell’appartenenza
nazionale. Avevo dieci anni e provavo una solidarietà spontanea
per la lotta del popolo algerino: non esitavo a recarmi nei
luoghi in cui venivano allestite mostre fotografiche a sostegno
di questa causa. Ma la solidarietà che mi aveva spinto a
quell’età a visitare quelle mostre incontrò un limite
angoscioso di fronte alla prospettiva di dover aggiungere un
nuovo stato alla lunga lista di quelli che praticavano il
boicottaggio contro Israele. Se anche l’avessi dimenticato,
c’era la folla dei manifestanti a ricordarmelo: alle invettive
antifrancesi, infatti, seguivano di regola quelle contro Israele.
Le nostre condizioni di vita
miglioravano, la scoperta del petrolio portava nel paese con sé
ricchezza e abbondanza. I poveri della comunità si erano ridotti
a quaranta famiglie. La presenza ebraica nel tessuto sociale ed
economico della città di Tripoli era corposa e il cambiamento di
status era scandito dal trasferimento dei nuclei famigliari
verso i quartieri nuovi. Ma insieme al miglioramento delle
condizioni di vita crescevano anche l’incertezza e l’insicurezza.
Falsa e illusoria era la sicurezza di chi vantava conoscenze
altolocate e aveva il dubbio privilegio di poter presenziare a
qualche cerimonia ufficiale. La classe politica a cui si
affidava la tutela della nostra incerta posizione, era essa
stessa condannata dai cambiamenti storici e dai mutati equilibri
politici che avevano contribuito a renderci stranieri nel nostro
stesso paese. La marea montante di un antimperialismo xenofobo
che ci identificava col “nemico della nazione araba”, l’ostilità
di una nuova borghesia e di un’intellighenzia emergenti, erano
un fosco presagio …
L’impatto del mondo arabo con il
colonialismo europeo aveva rappresentato per gli ebrei una
possibilità nuova di emancipazione da una condizione secolare di
oppressione e subordinazione. Si trattava però di un processo
carico di conflitti con la società araba, che lo aveva subito
dall’esterno e non generato attraverso una trasformazione
interna. L’immagine che il nazionalismo arabo aveva di sé era di
tipo organico; là dove prima c’era l’umma islamica (“la
comunità dei fedeli”), subentrava ora la nazione araba da cui
gli ebrei erano esclusi…
2. Il grande esodo
La politica coloniale italiana
verso gli ebrei di Libia era stata sin dagli inizi
contraddittoria, divisa tra opzioni politiche incompatibili che
potevano andare dal desiderio iniziale di una rapida
integrazione dell’elemento ebraico, in funzione della strategia
italiana nel Mediterraneo, alla preoccupazione di non urtare la
suscettibilità della popolazione araba. Per non parlare della
necessità di fronteggiare il sostegno britannico alla resistenza
del movimento senussita in
Cirenaica.
Per gli ebrei di Libia fu un vero
e proprio trauma vedere frustare nelle pubbliche piazze i pochi
che avevano osato sfidare l’ordine delle autorità coloniali di
tenere aperti i battenti dei loro negozi il giorno di sabato. Le
frustate sulla pubblica piazza erano la fine di un sogno, il
preludio di nuove tragedie e sofferenze.
La decisione del governatore
Italo
Balbo rientrava in una politica di italianizzazione forzata di
usi e costumi in vigore nel paese. Costretti ad aprire i
battenti dei loro negozi, erano in molti a fare di tutto per
rendere più difficile l’acquisto delle loro merci, alzando i
prezzi. Due anni dopo, con le “Leggi razziali”, anche per gli
ebrei di Libia, da un giorno all’altro, fu fatto divieto di
frequentare le scuole pubbliche, far parte dell’amministrazione
e salire sui mezzi pubblici.
Nella memoria collettiva quelle
pubbliche frustate facevano più male dell’espulsione dalle
scuole. L’allontanamento dalle scuole, per quanto doloroso,
riportava la comunità al suo status ante, sottraendola ad
un processo di assimilazione forzata che la esponeva a
forti lacerazioni. Le frustate nella pubblica piazza, con la
folla araba che applaudiva, costituivano una ferita
insopportabile, rompevano un fragile e delicato equilibrio fatto
di relazioni cariche di ambiguità fra i diversi gruppi religiosi
ed etnici. Segnavano la fine di un mondo, in cui gli italiani
erano apparsi come protettori; gettando il seme dell’odio
contribuivano a creare l’idea che l’ostilità manifesta contro
gli ebrei era lecita. Se da un giorno all’altro un ebreo poteva
essere umiliato pubblicamente, allora tutto sarebbe potuto
diventare possibile.
Poi arrivarono i divieti di
utilizzare i mezzi pubblici e le spedizioni fasciste contro la
popolazione del quartiere ebraico, e con lo scoppio della guerra
i lavori forzati e, per gli ebrei della Cirenaica, il
tragico internamento di Giado con centinaia di morti per
tifo che per lunghi decenni costituì nella memoria collettiva un
vero e proprio rimosso. I pericoli nuovi facevano dimenticare
quelli vecchi, lo sconvolgimento violento delle condizioni di
vita quotidiana lasciava sullo sfondo il dolore degli eventi
precedenti.
Con l’arrivo delle forze
britanniche nel gennaio del ’43, la comunità sembrò potersi
gettare alle spalle l’incubo delle deportazioni e dei
bombardamenti, del lavoro coatto e delle rappresaglie (in
Cirenaica per via della naturale simpatia verso l’avanzata degli
eserciti alleati). Le voci sugli stermini nazisti non erano
ancora giunte nel paese (furono circa trecento i deportati con
passaporto britannico), anche se per precauzione non mancava chi
evitava di fare uso di sapone per timore che fosse fatto con
grasso umano. Gli ebrei libici con passaporto inglese erano
stati deportati in Germania. Chi aveva il passaporto francese
cercò rifugio in Tunisia e Marocco dove le cose non andavano
meglio. Una grande sinagoga in cui la gente, presa dal panico,
si era rifugiata in preghiera fu colpita da un violento
bombardamento. Non fu più ricostruita perché nel frattempo gli
ebrei erano in gran parte emigrati. Dalla terrazza di Sla El
Kebira[6], nelle
festività di Rosh Hashanah e Kippur, potevo
vederne l’interno devastato. Era straziante.
Se ad
El Alamein l’offensiva
dell’Asse avesse prevalso, la distruzione avrebbe colpito anche
l’Ishuv[7].
Insieme all’ebraismo europeo sarebbe perito anche il sogno di
riscatto di chi aveva trovato in tempo rifugio nella Terra dei
padri. Le camere a gas mobili sperimentate durante l’avanzata
nei territori dell’Europa orientale erano già pronte ad Atene,
sempre che i nazionalisti arabi non avessero fatto prima.
L’incontro coi soldati dell’Yishuv incorporati
nell’Ottava armata britannica, la sinagoga affollata di soldati
ebrei, che parlavano ebraico, generarono entusiasmo. Le
associazioni ebraiche di ispirazione sionista riprendevano le
loro attività. Dal Maccabial Ben Yehudah, agli Scout degli Zofim,
all’organizzazione giovanile Hechalutz, era tutto un
pullulare di iniziative colme di speranze.
In realtà il ritorno dei vecchi
quadri locali del nazionalismo arabo e l’arrivo al seguito delle
truppe di occupazione britannica di personale arabo importato,
i red fez siriani, palestinesi e soprattutto egiziani, non
di rado inquadrati nei servizi ausiliari di polizia, creava una
situazione carica di pericoli. L’interruzione dei flussi
economici dall’Italia, la siccità e poi lo straripamento dei
torrenti locali costituivano lo sfondo di questo nuovo scenario.
Alla notizia dei disordini antiebraici al Cairo e ad
Alessandria, gruppi di arabi avevano segnato di gesso i negozi e
le abitazioni degli ebrei. Fu l’inizio di un sanguinoso pogrom
che colse impreparata la popolazione ebraica. L’esercito
britannico intervenne solo tre giorni dopo, quando il peggio era
accaduto e la popolazione araba era stata indotta dall’ambiguo
comportamento della polizia, a pensare che il pogrom fosse stato
non solo tollerato, ma autorizzato.
Dopo la farsa delle cerimonie di
riconciliazione arrivarono le intimidazioni per evitare che la
mancata adesione della minoranza ebraica al movimento
indipendentista libico potesse offrire il pretesto alla potenza
mandataria britannica di ritardare l’indipendenza del paese,
oppure, come chiedevano le organizzazioni ebraiche americane,
costituire la base per la richiesta di precise garanzie, a
tutela delle minoranze, da incorporare nella costituzione del
nuovo stato.
La tensione raggiunse di nuovo
l’apice tre anni dopo, con l’afflusso di centinaia e poi di
migliaia di arabi del Nord Africa francese, diretti verso est,
per unirsi agli eserciti arabi nella guerra contro il nascente
Stato di Israele. Ma questa volta la popolazione ebraica non fu
colta impreparata, e le perdite arabe furono ben più numerose.
Armati di olio bollente riversato
dall’alto delle mura su chi cercava di forzare l’ingresso nel
quartiere ebraico, di coltelli e pietre, qualche pistola e delle
bombe, gruppi di ragazzi e ragazze, che erano stati
clandestinamente addestrati in vista del nuovo confronto,
avevano apertamente affrontato e respinto gli aggressori.
L’intervento dell’esercito
ristabilì prontamente l’ordine. Ma ormai ogni equilibrio si era
rotto. Una fiume di gente disperata si era riversata a Tripoli
da ogni luogo e non voleva più fare ritorno alle proprie case.
Gli sfollati dormivano per strada, nei vicoli e nei cortili
delle sinagoghe. Per chi non aveva più casa, la nascita di
Israele era il sogno di un riscatto. Chi possedeva qualcosa la
svendeva, per pochi soldi si liquidava tutto. Il dolore era il
segno dei tempi, il parto di un’era nuova, il tempo messianico
con le sue doglie era alle porte (“Chevléi Mashiach”).
Le paure più antiche e la speranza
si erano incontrati, un’attesa spasmodica si era impadronita dei
cuori. Nascevano canti in cui si chiedeva al mare di essere
amico con chi era clandestinamente partito su imbarcazioni di
fortuna, “acquistato” passaggi su mercantili e pescherecci
raggiunti a nuoto[8]. Per molti i beni più preziosi
erano una coperta e qualche pentola di alluminio, un po’ d’olio
messo da parte, un micio o un cagnolino da cui non ci si voleva
separare, il libro di preghiere e dei semi di gerani e di
zafferano da piantare nella terra dei padri. Il profumo di quei
gerani ha contribuito a rendere meno lancinante la separazione
dai luoghi di nascita, più famigliari i luoghi mitici del
ritorno, più contenibile lo scarto tra le promesse di riscatto e
la dura realtà della vita negli anni Cinquanta e Sessanta in
Israele, nelle tendopoli di Beit Lid, di Tel Litvinski, di
Mahaneh Israel, e nelle ma’abaroth della nascente
cittadina di Bat Yam. Serve oggi come mezzo secolo fa a
profumare il caffè e a benedire l’arrivo dello
Shabbath.
3. Una migrazione interiore
Dopo la proclamazione
dell’indipendenza chi tra gli ebrei aveva diritto di voto, si
guardava bene dall’esercitarlo. Per timore anche la concessione
di un contributo per coprire le spese necessarie ad un gruppo di
anziani e malati, senza parenti e possibilità di lavoro, in
procinto di partire per Israele, veniva negata dalla comunità.
La chiusura del circolo Maccabi, con
l’accusa di attività sovversiva, era considerata una triste
necessità. Ci si consolava se dopo la sospensione del servizio
postale con Israele, restava almeno la possibilità di ricevere
delle notizie tramite amici e conoscenti che vivevano in Italia.
Negli anni seguenti con una serie di provvedimenti (1960-61) ai
“non libici”, persone fisiche e giuridiche, venne tolto il
diritto di acquistare beni immobili, fu vietato agli agenti di
commercio (fra gli ebrei circa quattrocento) di avere più di
dieci rappresentanze ciascuno e venne applicato per solidarietà
con la lotta di indipendenza algerina il boicottaggio dei
prodotti francesi.
Si trattava di disposizioni di
legge che colpivano tutti gli stranieri residenti nel paese. Ma
il loro carattere discriminatorio risultava evidente nelle
indicazioni non scritte che i notai e gli uffici giudiziari
locali ricevevano per impedire, indipendentemente dal possesso o
meno della cittadinanza libica, ogni presenza ebraica nelle
attività connesse all’industria petrolifera e all’acquisto di
immobili.
Agli ebrei era precluso l’impiego
nell’amministrazione pubblica, occorreva un prestanome arabo per
svolgere attività produttive e per acquistare terra. Ad un certo
momento le stesse istituzioni comunitarie, coi loro beni,
vennero poste sotto controllo cautelare (dicembre 1958) e i beni
degli ebrei che avevano lasciato il paese nel grande esodo, di
fatto confiscati e messi sotto “custodia” (marzo ’61).
Le autorità non si accontentavano
di censire i beni delle persone partite. Volevano sapere anche
dove risiedessero. Nel timore, mio padre aveva pensato di
distruggere ogni traccia dei contatti con i nostri parenti, le
carte dovevano essere bruciate e disperse attraverso le
fognature del bagno. Passammo un’intera notte a bruciare le
lettere e le foto dei nostri parenti in Israele, cartoline di
auguri che avevamo conservato come beni preziosi, profumi di un
passato, promesse di un futuro diverso che mi accompagnavano
come sirene ogni qual volta le navi annunciavano la loro
partenza dal porto. Il suono della sirena di una nave in
procinto di salpare mi riporta tuttora indietro nel tempo, ai
sogni della mia infanzia, alle angosce e alle speranze di una
vita diversa e felice, libera e gioiosa…
Sognavo di trovarmi in una delle
tante navi che lasciavano il porto. Sostavo per lunghe ore sul
lungomare immaginando il giorno in cui avrei lasciato per sempre
il mio paese per ricongiungermi con chi era partito prima che io
nascessi, con chi mi aveva tenuto in braccio quando ero
bambino. La casa in cui abitavamo non era distante dal porto e
quando mia madre udiva quel suono la sentivo ripetere fra
sé a bassa voce: “Ah ya Rabbì al ‘ali smma’na has Al
Maschiah”, “Oh Signore Onnipotente, facci sentire la voce
del Messia. In silenzio univo alla sua la mia invocazione.
La nostra vecchia Hara, con
le sue case fatiscenti dove non era più tanto sicuro circolare,
era ai miei occhi più interessante della città nuova coi suoi
grandi viali e giardini. Cercavo le tracce di una storia che mi
era stata carpita e tenevo viva la speranza di un futuro
diverso. Il pianto di mia madre che seguiva regolarmente il
canto durante i preparativi dello Shabbath, aveva un che
di straziante. In Israele avremmo ritrovato la pienezza perduta
e nell’attesa cercavo nei vicoli del quartiere ebraico le tracce
di una vita che mi era stata rubata.
I vicoli con le loro vecchie case
di preghiera si coloravano di sogno, erano più belle della
Palazzina reale.
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Tripoli - Un vicolo della Hara |
Tripoli - La Palazzina Reale |
Quando vi sostavo in preghiera era come se i
nonni che non avevo conosciuto e gli angeli che li avevano
accompagnati proteggendoli nel lungo viaggio di ritorno alla
terra dei padri verso la terra dei padri, fossero accanto a me e
io con loro. Era il mio segreto che non confidavo a nessuno.
Il sabato passavo da una sinagoga
all’altra in cerca di una sapienza di altri tempi, talora
entravo il mattino per uscirne dopo il tramonto, facendo una
piccola pausa per il pranzo. Ma spesso il pomeriggio del
Sabato andavo fino a tarda ora in una sinagoga dove aveva
studiato mio nonno, per studiare a mia volta il
Talmud.
Amavo le sinagoghe nei giorni di
festa, piene di bambini gioiosi, la festa di Shavuothin
cui si preparavano profumi di rose ed estratti di fior
d’arancio, in cui si offrivano latte di mandorla e bocca di
dama, facendo a gara a chi recitava meglio il commento aramaico
del Cantico dei Cantici. Un canto dicevano i mistici è come una
brocca, un canto rompe la brocca, un canto ricompone l’infranto
e libera le scintille rimaste intrappolate dopo la Rottura dei
Vasi divini (Shevirath Hakelim). Quel canto mi accompagna
ancora come in sogno. E da lì forse ha preso avvio la decisione
di incidere i pezzi più belli per salvarli dall’oblio[9].
Un Keter riuscito nella Tefillah di Musaf di Kippur era
un evento oggetto di commenti per settimane, che
celebrava il trionfo di chi possedeva una bella voce (nella mia
famiglia erano in tanti a contendersi questa parte). A
quattordici anni ero un chazanmolto apprezzato.
Grande fu la mia gioia quando il mio insegnante di liceo non
ebreo, molto rispettoso delle mie assenze a scuola nel
giorno di sabato, venne in sinagoga per assistere ad un mio’Arvith[10].
Insieme al Sig. Haliffi e poi con l’aiuto del rag. Lillo Arbib,
avevamo creato un coro liturgico di oltre cento persone,
composto da ragazzi e ragazze.
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Lillo Arbib |
Per mesi avevamo svolto il
servizio nella sinagoga nuova di Beth El; i preparativi
si svolgevano in sinagoga tre sere a settimana. L’idea che le
donne fossero ammesse a cantare nel rito sabbatico era per
alcuni di uno scandalo, anche se la separazione fra maschi e
femmine era garantita e le donne cantavano dal matroneo. A
Tripoli però non c’era un Beth Din che potesse vietarlo e
le critiche venivano tacitate dall’accoglienza positiva che
l’iniziativa incontrava. La sinagoga era stracolma e per la
prima volta le donne vi affluivano in massa al pari degli
uomini, anche se non si trattava di Rosh Hashanah e Kippur.
Chi non veniva con anticipo, rischiava di dover restare in
piedi, o peggio di rimane fuori.
Mi sarebbe piaciuto nascere una o
due generazioni prima. Avrei potuto incontrare dei veri maestri
con cui studiare il Talmud e lo Zohar. Sapevo
tutto del Purim Shoshan, della
storia di Ester, di
Mordekhai
e dell’empio Haman.
Ma se chiedevo notizie sulle
origini dei nostri Purim Qatan, il Purim Sherif e Purim
Burgul, che affettuosamente chiamavamo Burim G’dabuni (Purim
finto), per distinguerli dal vero Purim, che ne forniva il
modello secondo schemi consolidati di resignificazione della più
ampia vicenda storica della diaspora – pochi erano in grado di
illuminarmi veramente. Potevo al più apprendere dai più
anziani che in tempi remoti, qualche generazione addietro, gli
ebrei avevano corso un grande pericolo, ma la mano divina li
aveva salvati e per questo si faceva festa. In quanto alla
storia, intesa nel suo significato moderno, se ne aveva una
nozione alquanto vaga.
Volevo apprendere l’ebraico e
poiché non era possibile continuare gli studi oltre le prime
classi elementari, mi decisi a tradurre la Bibbia. Non avendo
una grammatica, mi servivo di quella araba; trattandosi di
lingue semite, dovevano avere molto in comune. Quanto al
vocabolario non ce n’era bisogno: bastava la traduzione del ‘600
a opera del
Diodati[11],
di cui ero venuto in possesso.
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La Sacra Bibbia di Giovanni Diodati |
In seguito mi vennero in aiuto la
traduzione del Pentateuco e delle Haftaroth della Comunità
ebraica italiana che potevo consultare in sinagoga ai margini
della preghiera chiedendola in prestito ai pochi che ne
possedevano una copia. Della versione ebraica imparavo a
memoria, ta’amim compresi, interi brani di Devarim (Parole/Deuteronomio), Tehillim (Salmi)
e Neviim (Profeti), che poi provvedevo a confrontare con
la versione italiana di cui controllavo la fedeltà con l’aiuto
di un rabbino cultore di Qabbalah.
Per passare da una lingua
all’altra avevo elaborato un mio personale sistema. Mi ero
accorto che talora bastava modificare la s in sh,
la b in v per ritrovare le stesse parole.
Dall’arabo shamsi (nel nostro dialetto sams,
“sole”) si poteva passare all’ebraico shemesh; da ‘abd,
(“servo”) a ‘eved, da f’al, (“meriti”) a mif’al “(impresa”,
“stabilimento”). Non avendo un vocabolario avevo cominciato
compiere gli stessi viaggi linguistici con l’aramaico:
dall’ebraico barukh (“benedetto”) passavo a berikh,
da shem(“nome”) a sheme. Il gioco si poteva fare
con l’italiano e l’inglese. Con molte parole era sufficiente
aggiungere un suffisso finale. Come ho poi scoperto non ero solo
in questi giochi linguistici. Un musicista siriano conosciuto
molti anni dopo a Roma, aveva fatto lo stesso per passare
dall’inglese all’italiano e viceversa: inauguration uguale
inaugurazione; situation uguale situazione….
Senza saperlo riscoprivo il lavoro
fatto nel Medioevo dai grammatici ebrei sulla lingua ebraica a
partire dall’arabo, con quello di Chomski sulla grammatica
trasformazionale.
Che tale possibilità contrastasse la credenza
che Adamo ed Eva parlassero in ebraico, e che prima della
confusione delle lingue il genere umano parlasse la stessa
lingua e che questa lingua fosse quella della Bibbia, non
costituiva un problema. Idee e sistemi così diversi, potevano
convivere in me con altre astuserie, come quella
raccontatami da un autorevole cultore di qabbalah pratica
secondo cui osservando l’ombra di un uomo era possibile sapere
quanti anni avesse ancora da vivere.
I miei giochi linguistici erano
una vera e propria oasi. Potevano occuparmi intere giornate. Vi
celebravo un mio personale trionfo: attraversare dall’interno i
mondi in cui ero cresciuto, le culture in cui mi andavo
formando. In questo mio mondo le persone non si odiavano se
parlavano una lingua diversa e non professavano la stessa
religione. Le loro differenze erano una ricchezza da scambiare.
Mi ritrovavo fra me a fare la fantasia di un campo comune dove i
ragazzi potevano giocare insieme, tornando ciascuno a casa
propria. Ognuno aveva la sua dimora, luogo di culto, abitudini e
credenze. I campi da gioco erano però in comune. Reagivo così
all’assurdo che un bambino ebreo, non appena individuato,
venisse allontanato dal campo di gioco appartenente a una
chiesa. Erano queste le regole. Ciascun gruppo aveva il suo
spazio, anche se poi a scuola si frequentava la stessa classe.
Personalmente avevo organizzato un paio di squadre, che guidavo
io stesso, composte da ebrei, arabi e cristiani. Giocava chi era
più bravo. Durante una partita con la squadra di una parrocchia,
il prete interruppe il gioco: sentendo parlare in dialetto,
ordinò ai ragazzi ebrei di allontanarsi. A un mio cenno uscimmo
tutti, ebrei, mussulmani e cristiani, anche i giocatori della
squadra avversaria. Davo per scontato che dovesse andare così e
così andò, fuori da ogni retorica vittimistica.
In un microcosmo, dove tutti erano
al corrente di tutto, gli scambi e i doni non erano privi di
competizione. La socializzazione cui era sottoposta la
moglie dello sposo poteva essere un’esperienza particolarmente
pesante e dolorosa. La famiglia veniva prima del singolo e lo
status del singolo discendeva da quella della famiglia. A meno
di non essere un grande studioso di Torah, il che
spalancava le porte ad riconsiderazione di status e di
prestigio. Mirando a mantenere o a migliorare il proprio status
personale, ad affermare o ad accelerare un’ascesa sociale, a
rafforzare una rete di relazioni, il matrimonio si inscriveva in
queste strategie sociali e permetteva nello stesso tempo di
valutarne l’efficacia. In una comunità ridotta a poche migliaia
di persone tutto questo aveva un che di soffocante.
|
Torah - Testo sacro
ebraico nella sua forma tradizionale di rotolo |
Un celibato prolungato era segno
di qualcosa che non andava, una specie di tara, fisica o di
altra natura, che si ripercuoteva duramente sull’intera
famiglia. Per venire ai miei ricordi di infanzia, che si
collocano in un periodo successivo, quando un giovane incontrava
una conoscente di famiglia, la domanda di turno era: “Quand’è
che ti sposi?”. Non si trattava solo di una domanda perché nel
frattempo la stessa persona aveva magari segnalato ai genitori
del ragazzo o della ragazza una possibile combinazione
matrimoniale. Per i maschi, ma ancor più per le femmine, che si
affacciavano ad un modo di vivere più occidentale, la domanda
assillante poteva assumere tratti da incubo diurno. Per non
sentirsi ripetere la domanda, bisognava stare alla larga da
certe persone, ma non era facile visto che c’era sempre una
qualche ragione per incontrarsi: una nascita, una maggiorità
religiosa o un matrimonio.
Il matrimonio assicurava il
ricambio delle generazioni, la perpetuazione del cognome e dei
nomi, perciò i genitori avevano la precedenza. Ancora oggi nel
quartiere romano di Piazza Bologna, dove è in larga parte
concentrata la comunità ebraica giunta da Tripoli dopo il pogrom
del 1967, è possibile incontrare tra i più anziani persone
che reagiscono con stupore se vengono a sapere che un ragazzo
non porta il nome di uno dei nonni.
La Kashruth era rispettata,
ma cresceva il numero delle persone che non si vergognava più di
farsi vedere in auto di Shabbath. Salvo uno o due
“ribelli”, i negozi degli ebrei restavano chiusi il sabato. I
cristiani chiudevano la domenica. Le autorità libiche imposero
per tutti il venerdì pomeriggio. I matrimoni avvenivano nella
quasi totalità all’interno del rispettivo gruppo religioso di
appartenenza e in genere tra persone che avevano lo stesso
status sociale. Grande era lo scandalo se avveniva il contrario.
L’uso della lingua italiana era un
segno distintivo di status, che ci separava ulteriormente dal
paese in cui eravamo nati. Nella cerchia delle persone di
cultura europea il nostro dialetto era svalutato. Chi
frequentava il prestigioso liceo italiano faceva di tutto per
mostrarsi più “italiano” degli italiani nella proprietà del
linguaggio. A scuola eravamo tra i più bravi e talora non senza
dispetto, si prendeva atto che avessimo mediamente voti più alti
degli studenti di madre lingua italiana. In un’occasione che non
dimenticherò mai, un alto funzionario d’ambasciata giunse
improvvisamente in ispezione e ci interrogò a lungo.
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( Tripoli - Anno scolastico '66/67)
alunna premiata al Circolo Italia dalla Sig.a Alverà,
moglie dell'Ambasciatore d'Italia in Libia Pier Luigi
Alverà come migliore studente della Lingua e Letteratura
Italiana |
L’idea che
l’ambasciatore o chi per lui ci facesse questo grande onore ci
riempiva d’orgoglio ed eravamo contenti di rispondere alle
domande che ci erano fatte. Solo vent’anni dopo venni a sapere
che l’ispezione nasceva dalla volontà di verificare se i voti
che avevamo corrispondevano alla realtà.
La nostra bella erre era una shibboleth e
a scuola non mancava chi faceva di tutto per nasconderla,
sperando di rendere meno visibile la sua differenza. Non
mancava chi pateticamente la pronunciava alla francese.
Nel nostro dialetto potevo
declinare una parola italiana come se fosse araba, al contrario
potevo coniugare un verbo arabo come se fosse italiano. Era
un’oasi dove un ebreo poteva sentirsi italiano e maltese, greco
e arabo, continuando ad essere ebreo. Era una grande ricchezza
interiore, non tutti lo sapevano. In dialetto ero libero di
collocare i pronomi italiani in fondo alle parole arabe e
viceversa. Potevo passare da un codice linguistico all’altro,
modificare la strutture della frase a seconda della persona e
con lo stesso interlocutore in circostanze diverse. Potevo
chiedere: “Chif halk?” e sentir rispondere in tre modi
differenti: “Hali bai Hamdu L’lla” (Sto bene
ringraziamo Dio), “Hali buono ringraziamo Dio”;
“Sto bene”, “Baruch Hashem” [12].
Le grammatiche araba e italiana
potevano combinarsi indifferentemente con quella inglese.
Passare da un codice linguistico all’altro era come viaggiare
attraverso continenti e culture diverse. Le lettere e le parole
del nostro dialetto, la loro combinazione rivelavano il nostro
percorso geografico e culturale, le differenze esistenti
all’interno di una stessa famiglia, le diverse province
psichiche che entravano in contatto fra loro. Le lettere e le
parole scelte erano mondi attraverso cui passare velocemente, le
combinazioni linguistiche rivelavano la nostra storia culturale,
i suoi drammi interni; mostravano in sincronia i mutamenti a cui
eravamo andati incontro, la direzione che prendeva la nostra
vita di fronte a forze storiche che non controllavamo e che
avevano contribuito a segnare il nostro destino rendendoci
stranieri nel nostro paese; indicavano la nostra sospensione tra
una incerta europeizzazione e un rifiuto che si respirava
nell’aria.
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alfabeto arabo |
alfabeto ebraico |
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alfabeto italiano |
alfabeto inglese |
Nella proposizione “Ringraziamo
Dio”, l’obbligo di ringraziare sempre Dio avveniva in una nuova
lingua, che era già indice di un passaggio culturale verso nuovi
codici linguistici e modelli comportamentali. Nella versione
ebraica Barukh ’Shem (più esattamente Baruch Ha-Shem)
ci si attiene alla regola aurea di non pronunciare mai il Nome
invano. Hamdu L’lla ci portava nel cuore del mondo
islamico. Trent’anni dopo le stesse persone incontrandosi a
Roma, a New York o a Tel Aviv, potevano riformulare diversamente
la stessa frase, magari inserendo un termine inglese al posto di
uno italiano, una parola ebraica al posto di una araba. Come del
resto ho potuto constatare ascoltando le seguenti esclamazioni
gioiose di due donne di Tripoli che si erano riviste a New York
dopo quasi quarant’anni: “Eise surprise ‘amlcili, Sono
veramente frhana to meet you!“.
Le due donne avevano lasciato
Tripoli agli inizi degli anni Cinquanta, ricostruendo le loro
vite negli Stati Uniti e in Israele. Le esclamazioni erano
metafora di un lungo percorso nel tempo e nello spazio. La
parola eize stava ad indicare la rinascita di una lingua
e la riconquista di una vita nazionale indipendente. Surprise (in
inglese “sorpresa”) indicava il lungo viaggio culturale e le
trasformazioni a cui era andato il suo mondo interno con l’uso
anche parziale di una quarta lingua, l’inglese che si veniva ad
aggiungere al dialetto arabo, all’italiano e all’ebraico
moderno. Amlcili (dall’arabo amltili, “mi hai
fatto”) era la conservazione di un intero mondo, le cui tonalità
affettive sopravvivevano nell’accento stesso del dialetto
ebraico più antico. Era l’indicazione che qualcosa di prezioso,
che aveva reso possibile la conservazione dell’integrità
psichica delle persone, era rimasto intatto. Per parafrasare il
grande poeta russo Esenin, qualcosa era rimasto intatto perché
tutto potesse cambiare. “Sono veramente” era una traccia
del profondo segno che la cultura italiana aveva lasciato negli
ebrei di Libia. La parola frhana (in arabo,
“contenta”) esprimeva la gioia del ritrovamento nella lingua di
riferimento più antica. L’inglese to meet you era
altamente evocativo perché utilizzava la lingua del luogo in cui
l’incontro avveniva. Magari le stesse persone incontrandosi a
Roma o a Tel Aviv, avrebbero potuto formulare la stessa frase
diversamente modificando la frase “sono veramente frhana to
meet you” in “sono veramente frhana di vederti”
oppure “sono veramente frhana l’ir’ot otach”.
Nella Qabbalah il mondo del
Pleroma è descritto come una complessa rete linguistica
per mezzo della quale la Divinità si manifesta. Si tratta di una
vera e propria teoria del funzionamento psichico, che prefigura
le grandi costruzioni psicologiche del Novecento, e ben si
adatta a rappresentare l’immagine del nostro percorso. Ogni
parola utilizzata può essere considerata alla stregua di una Sefirah,
dove è misteriosamente racchiuso un prezioso segreto, un enigma
da decifrare, la traccia di un percorso, tanti mondi con una
loro storia. L’apogeo di questo intreccio di mondi e di culture
lo si raggiunge, quando si parlano tre o quattro lingue assieme,
passando da una lingua all’altra con la stessa persona, o con
diverse persone, a seconda dell’argomento trattato. Queste Sefiroth sono
all’opera anche quando si sogna, a seconda del sogno, del luogo
in cui viene collocato, delle parti psichiche che sono in gioco.
E’ il frutto duraturo di un passato doloroso di spostamenti e
sradicamenti. A darcene un mirabile esempio è la Traumdeutung nel
sogno della porta romana di Siena con la coppia Geseres/Auf
Ungeseres a cui segue nella catena associativa del sogno che
aveva fatto Freud, l’evocazione del Salmo 137, “Sui fiumi di
Babilonia”[13].
La scoperta del petrolio ed il
benessere crescente che ne derivò parve in un primo momento
stabilizzare la monarchia e le vecchie élite al potere. Nel
clima di relativa tranquillità e ottimismo dei primi anni
Sessanta, il diritto alla cittadinanza degli ebrei libici era
stato di nuovo riconosciuto grazie alla petizione di un gruppo
di autorevoli esponenti della comunità, in possesso della
cittadinanza di uno Stato europeo, accompagnata da una serie di
passi delle organizzazioni ebraiche americane presso le Nazioni
Unite. Ma si trattava solo di un gesto parziale che limitava il
rilascio dei passaporti solo a chi viaggiava per motivi di
salute, o per affari, con la precisa condizione che uno dei
componenti del nucleo familiare restasse di fatto in ostaggio.
In ogni caso le autorità si erano guardate bene dal raccogliere
la richiesta della comunità di poter tornare ad amministrare
direttamente le proprie istituzioni religiose e di beneficenza,
e l’autorizzazione a ricostituire il tribunale rabbinico facendo
venire dall’estero un rabbino capo, e gli insegnanti e i libri
di testo necessari a far funzionare le scuole ebraiche.
Il consolidamento della monarchia
era in realtà apparente. La corruzione dilagante, i privilegi,
lo spreco accrescevano la distanza tra la classe al potere e le
aspirazioni che percorrevano i ceti mercantili emergenti,
l’intellighenzia nazionalista e i quadri più giovani
dell’esercito guadagnati dall’ideologia nasseriana e panaraba.
Un esempio del mutato clima furono i gravi disordini seguiti
alla mancata partecipazione del re Idrìs al summit panarabo del
’64. Agitando lo spettro del “complotto sionista”, il
nazionalismo arabo coagulava le frustrazioni della plebe con gli
interessi dei ceti economici emergenti. L’odio contro l’ebreo
era diventato parte di uno scontro più ampio per il
rovesciamento delle vecchie élite arabe al potere, accusate di
complicità con il colonialismo europeo.
Poderose forze storiche all’opera
da decenni avevano segnato il nostro destino rendendoci
stranieri nel nostro paese. Soggetto ad una forte erosione del
consenso interno, esposto all’accusa di tenere per sé le grandi
ricchezze della nazione araba, anno dopo anno il regime
senussita allineava la propria legislazione antiebraica a quella
dei regimi arabi più radicali. Il nome di Israele fu cancellato
dalle mappe sulle pareti delle classi scolastiche, ogni
riferimento era eliminato dai giornali in lingua straniera,
fosse anche un articolo relativo alla partita Israele – Italia
per la qualificazione ai mondiali del Cile. Giorno dopo giorno
cresceva l’elenco delle imprese con cui era vietato avere alcun
tipo di rapporto in quanto intrattenevano relazioni commerciali
con Israele. Nonostante le proteste dell’Unesco, la scuola dell’Alliance
Israélite Universelle, chiuse i suoi battenti. La
possibilità di appellarsi alla protezione delle persone più
altolocate per far fronte ai nuovi sviluppi, di far leva
sull’inefficienza dell’amministrazione statale e sulla
corruzione del regime per mettere al sicuro all’estero una parte
dei propri averi (soprattutto per chi era in possesso di una
cittadinanza straniera), fu motivo di nuovo odio, rendendo più
insidiosa l’agitazione dei gruppi più ferocemente nazionalisti e
apertamente xenofobi, per i quali ogni ebreo che emigrava era un
potenziale soldato in più per Israele e ogni moneta esportata un
regalo in più all’entità sionista. Gli ebrei più
benestanti erano obbligati a versare somme ad una causa, quella
dell’OLP
di Shukeiri, il cui scopo dichiarato era la distruzione
dello
Stato di Israele. Nella finale dei mondiali di calcio del
’66, la gioventù nazionalista tifava Germania contro
l’Inghilterra, non solo perché a dominare in larga parte
del mondo arabo erano stati gli inglesi, ma per un motivo
macabro che era meglio allontanare dalla propria mente.
4. Frattura nel tempo e
ritrovamento dell’oggetto
Dei seimila trecento ebrei
ufficialmente residenti in Libia nel 1967 (il numero reale era
inferiore perché la comunità si guardava bene dal cancellare dal
registro dei suoi iscritti chi era emigrato con la scusa di un
viaggio “turistico”), trecento vivevano a Bengasi. Esclusi dalle
attività connesse alla lavorazione e trasformazione del
petrolio, gli ebrei avevano trovato ampia compensazione (con un
cambiamento vistoso nelle condizioni generali di vita
dell’intera comunità) nel commercio e in numerose attività di
rappresentanza con l’estero. In meno di sei anni il numero della
popolazione ebraica povera, valutato nel ’57 alla metà circa di
coloro che non possedevano un passaporto straniero, era sceso a
non più di quaranta nuclei famigliari.
Il crescente benessere era
ampiamente visibile nel numero crescente di giovani ebrei che si
iscrivevano al prestigioso “Liceo Dante Alighieri”;
nella fuga
dal vecchio quartiere ebraico, ormai abitato in prevalenza da
arabi, verso i quartieri della città nuova;
nell’intensificazione dell’uso della lingua italiana in
sostituzione di quella araba (al contrario nella gioventù araba
più colta era in atto un processo inverso, di sostituzione
nell’uso quotidiano del dialetto arabo con la lingua classica).
Le proliferanti barriere linguistiche facevano da sfondo ad un
mutato scenario carico di tensioni e conflitti che sarebbero
venuti a galla nelle settimane precedenti lo scoppio della
guerra del giugno 1967.
Le prime avvisaglie di un nuovo
pogrom erano cominciate il venerdì 2 giugno, quando gli
ulema
avevano cominciato a proclamare la guerra santa dalle moschee e
a tenere sermoni in tal senso alla radio. Quasi
contemporaneamente veniva indetta per il 5 giugno una settimana
di propaganda in favore della causa palestinese. Il governo
dichiarava a nome del
re che il paese era ”in stato di guerra
difensiva” e si poneva a piena disposizione per la liberazione
della Palestina.
Le radio accese a tutto spiano in ogni luogo
proclamavano l’imminente distruzione di Israele e dei suoi
abitanti. Presa dal panico la direzione della comunità ebraica
inviava al re un telegramma di solidarietà, in cui si
sottolineava la posizione di neutralità e la fedeltà alla sua
persona. Nel chiuso delle sinagoghe veniva proclamato un
digiuno, nelle case si accendevano i lumi
Rabbì Meir e a Bar
Yochai. Più di ogni altra cosa mi terrorizzava la prospettiva
di una violenza generalizzata contro le donne e gli anziani.
L’immagine del pogrom era in me attenuata solo dall’angoscia
prodotta dall’immagine degli eserciti arabi che accerchiavano lo
Stato ebraico. Lo spirito del sacrificio si era impossessato
delle mie fibre più interne. Avevo perso qualsiasi interesse per
la mia personale sopravvivenza. Dormivo armato di coltello
pensando a come vendere cara la pelle. Passarono molti anni
prima che ritrovassi il piacere di vivere per me e non solo per
gli altri.
Tel Aviv distava pochi chilometri
dal fronte orientale, il confine a Gerusalemme era costituito da
un reticolato. Nel buio e nel silenzio della notte mi chiedevo
cosa sarebbe accaduto se a colpire per primi fossero stati gli
eserciti arabi. Il timore più grande era che potessero fare
violenza ai miei genitori e a mia sorella. Alla notizia dello
scoppio della guerra, il
5 giugno ’67, la folla esultò per le
strade. Radio Cairo annunciava la distruzione di Tel Aviv e
Haifa. Sapevamo che erano notizie false a cui la propaganda
araba ci aveva abituati, ma la paura era grande. Dai balconi
della sede dell’OLP arrivano appelli alla guerra santa.
Nell’attesa silenziosa e
interminabile che i famigliari e i vicini tutti facessero
rientro a casa, mi chiedevo angosciato cosa avremmo dovuto fare
se la folla avesse tentato ora di forzare il portone di ingresso
del palazzo in cui abitavamo. Mio fratello Isaac era riuscito a
fuggire da una finestra interna, quando l’ufficio era già in
fiamme. Come nel ’45 e nel ’48 gruppi di giovani avevano segnato
di gesso le case e i negozi degli ebrei.
Solo con difficoltà, dopo aver
proclamato lo stato di emergenza ed il coprifuoco, le autorità
erano riuscite a riprendere il controllo della situazione. Il
momento critico fu giovedì 8 giugno, quando la polizia dovette
fronteggiare una marcia su Tripoli dei contadini di una vicina
località (Zawia) che aveva fornito la più alta percentuale di
volontari libici alla guerra contro Israele. Armati di bastoni e
coltelli intendevano ripulire di ogni presenza straniera ed
ebraica la città. La congiunzione delle due proteste doveva
segnare l’inizio di una sollevazione generale che avrebbe dovuto
coinvolgere, nelle intenzioni degli organizzatori, importanti
settori dell’esercito. Le cose andarono per fortuna
diversamente. Gli ebrei che vivevano ancora nell’antico
quartiere furono evacuati e trasportati a centinaia, insieme ad
altri fatti affluire dai quartieri della città nuova, nei posti
di polizia, nelle caserme e del campo di Gurgi alla periferia
della città.
Nei giorni seguenti le notizie
degli scontri avvenuti alla periferia della città tra la polizia
e i rivoltosi si erano mescolate al terrore panico che
l’aviazione israeliana si accingesse a bombardare il paese.
Nella fantasia collettiva Israele era adesso onnipotente, i suoi
soldati potevano arrivare ovunque per ripagare con la stessa
moneta le efferatezze compiute contro degli ebrei indifesi.
L’isteria collettiva era favorita dalla notizia che gli
israeliani erano entrati nello spazio aereo egiziano da ovest e
non da est come ci si attendeva. Il timore di subire la sorte
che avevano preconizzato per gli ebrei si era trasformata in
terrore panico. Gli israeliani potevano arrivare da un momento
all’altro e vendicare i loro fratelli ebrei.
Dalle tapparelle chiuse delle
finestre di casa non si capiva ma era possibile vedere gruppi di
auto e di moto cariche di sacchi di farina in fuga. L’attività
economica era totalmente paralizzata, la gente che alcuni giorni
prima esultava, vagava inebetita. Cessati erano gli abbracci
sotto la sede dell’Olp tra i giovani volontari per il fronte,
vicino a camion carichi di masserizie, il tè incluso, per una
gita di morte. L’esaltazione parossistica aveva lasciato il
posto alla disperazione più cupa. Il silenzio era rotto di notte
dai passi pesanti dei militari che montavano la guardia alle
nostre abitazioni. I camion della polizia si avvicendavano per
le strade deserte.
Chiusi nelle nostre case,
passavamo interminabili giornate davanti al televisore della
famiglia Buaron. Non vi era nulla che indicasse un possibile
ritorno alla situazione precedente. Non avevamo notizia dei
nostri parenti e di mio fratello Simon, emigrato sette anni
prima in Israele. Ci chiedevamo cosa fare se l’esercito o la
polizia fossero venuti a prelevarci per il
campo di Gurgi[14], come metterci al riparo da una
trappola. L’idea era di guadagnare tempo, dire se necessario che
eravamo in contatto con il vicino comando di polizia, chiedere
ai capi della comunità in possesso di un passaporto straniero di
informare le loro ambasciate e le autorità generali di polizia e
dello stato di ogni possibile sviluppo. Mia madre era
ossessionata dal pensiero che la polizia potesse fare con noi
quello che avevano fatto i nazisti. Chi poteva garantirci che i
militari, dopo averci caricato su dei camion con la prospettiva
di portarci in un luogo sicuro, non decidessero poi di
ucciderci. Come darle torto? Avevamo bisogno di garanzie, ma a
chi chiederle? Mia madre non si dava pace. Col sostegno di mio
fratello Yakob, incitava noi tutti a rifiutarci di seguire
la polizia nel caso ce lo avesse chiesto. A chi le chiedeva che
fare in tal caso, ripeteva che bisognava in ogni caso guadagnare
tempo, far capire che non eravamo isolati, che avevamo amici nel
comando di polizia, che la nostra situazione era seguita
all’esterno, che altri si informavano su di noi. Mio fratello
che aveva assunto la direzione della situazione, sosteneva
che bisognasse incrociare eventuali richieste con
telefonate al comando di polizia e agli amici in possesso di un
passaporto straniero con la richiesta di chiedere precisazioni
presso le rispettive ambasciate. Avevano ragione. Come avremmo
saputo in seguito, con quella tecnica un gruppo di soldati aveva
prelevato e trucidato le famiglie Raccah e Luzon, che abitavano
nella nostra stessa via[15].
Tra inquilini e rifugiati eravamo
in cinquantadue. Dividevamo il cibo procurato da mia madre per
il tramite di una famiglia di mussulmani di colore che in cambio
ricevevano piccole somme in denaro. Per non creare sospetti tra
i vicini arabi e palestinesi, dopo aver fatto la spesa,
chiamavano mia madre col nome della loro figlia più piccola,
Aisà. Come noi altre famiglie avevano incontrato in quei giorni
la solidarietà dei vicini cristiani e mussulmani. Il giorno
della partenza la mamma di ‘Aisà aveva chiesto perdono per
il peccato commesso di fronte a Dio. Non l’ho dimenticato.
Potevamo dirci fortunati.
Abitavamo non molto distanti dal comando centrale di polizia. La
sera ci riunivamo tutti in una casa per ascoltare insieme le
ultime notizie dalla viva voce di
Arrigo Levi.
|
Arrigo Levi - Giornalista e conduttore
TV |
Passata la grande
paura, c’era chi scaricava la tensione accumulata mimando
l’ultimo discorso di
Nasser, in cui si annunciavano le
dimissioni, e lo scambio di telefonate fra
re Hussein ed il rais
egiziano, intercettate dai servizi
segreti israeliani.
Maliziosamente qualcuno sorrideva di un uomo anziano risposato
da poco, che si faceva il bagno tutte le sere prima di
appartarsi nelle proprie stanze. Un altro si faceva preparare
dalla moglie dei biscotti a forma di stella di David, che
portava festosamente al collo. Una sicurezza nuova aveva trovato
posto nei cuori. In molte case si concepivano nuove vite. Alla
vista sul video
dei soldati di Israele che pregavano al muro
occidentale la commozione era alta. Ma un assillo non mi dava
pace: pensavo a chi non era più e mi chiedevo semmai avrei
rivisto vivo mio fratello. Le immagini sul video si
avvicendavano. Una donna palestinese guardava col figlio il
ponte Allenby.
|
Il Ponte di Allenby ( ebraico : גשר
אלנבי , Gesher Alenbi ), noto anche come il King Hussein
Bridge ( in arabo : جسر الملك حسين , Jisr al-Malek
Hussein ), è un ponte che attraversa il fiume Giordano e
collega la Cisgiordania con la Giordania |
“Poveretti” esclama una bimba fra noi.
“Poveretti mrd” (poveretti un accidente) le fa eco un
altro. “Se fosse andata diversamente, per noi era finita”. Ne
nasce una discussione. Levatasi dalle nostre case indifese, la
voce smarrita di quella colomba era la conferma che la piccola
sorella invocata ogni anno all’arrivo di Rosh Hashanah (il
capodanno ebraico), immagine della Shekhinah, il “grembo
di Dio, ci aveva accompagnato nel nostro esilio.
|
La Shekhinah entra nel Tabernacolo.
Nell'ebraismo tradizionale, contrariamente a quanto
accade nella cultura cristiana, la divinità non viene
rappresentata in immagini visive |
I giorni passavano e noi restavamo
rinchiusi nelle nostre case. In una casa c’era il telefono che squillava. Il più
delle volte erano telefonate minatorie che mettevano a dura
prova i nostri nervi. Un giovane ebreo che aveva commesso
l’imprudenza di riaprire i battenti della sua macelleria per
portare la carne a degli amici, fu ucciso a coltellate. Una
giovane si era messa il velo arabo per procurarsi del pane, ma
tradita dal suo accento venne uccisa sul posto. Chi era in
possesso di un passaporto straniero aveva già lasciato la città.
Per noi tutto era più complicato: avevamo bisogno di un visto di
uscita e di un paese disposto almeno a farci transitare per
Israele. Un paese c’era: l’Italia. Alla fine dopo lunghe
trattative internazionali, il governo libico aveva deciso di
offrire un visto turistico di tre mesi agli ebrei che ne
avessero fatto richiesta. Avrei dovuto essere felice. Quel
momento lo avevo accarezzato e sognato per anni. Ma ora che si
avvicinava quel momento ero pieno di amarezza. Non sapevo chi
dei miei amici fosse ancora vivo, la sera del cinque giugno le
fiamme erano salite molto in alto sull’antico quartiere ebraico.
Se uno di noi era preso dalla tristezza, vi era sempre qualcuno
che lo incoraggiava benevolmente. Se qualcuno aveva telefonato a
dei colleghi di lavoro arabi per salutarli, ricevendo in cambio
ingiurie e minacce di morte, c’era chi rideva di crepacuore per
l’ingenuità e l’inconfessata opera di seduzione esercitata da
un mondo nel contempo amato e odiato.
Durante i preparativi dalla tasca
di mia madre cadde un calzino. Era di mio fratello che aveva
lasciato il paese sette anni prima. Quante volte eravamo stati
richiesti di dare una spiegazione per quell’assenza, alle
autorità e ai vicini arabi. Mia madre non si era mai separata da
quel calzino. Lo teneva segretamente fra le tasche come un
amuleto. Mio fratello era al fronte e non sapevo se aveva fatto
ritorno. Vedendo quella scena mi sono detto “Signore fa’ che sia
vivo!”.
Il giorno della partenza c’era una
jeep della polizia ad attenderci. Era mattino presto, l’aria era
fresca per la brezza marina, presto avrebbe fatto un caldo
afoso. Il poliziotto armato di mitra non vedeva l’ora di
liberarsi dall’ingrato incarico. Mi sentivo solo coi miei
bagagli. Il sogno di lasciare per sempre il mio paese si stava
per avverare, ma non era così che avevo immaginato la mia
partenza. Fu lì che cominciai a maturare l’idea che il racconto
biblico dell’Esodo, fosse stato in realtà abbellito. La fuga con
le azzime era stata la vera realtà che il testo biblico ha
conservato con molta evidenza. Le piaghe che colpirono l’Egitto
erano invece esistite nella fantasia di chi si era salvato
fuggendo. Fu lì che cominciai a guardare in una nuova luce “La
cantica del mare” e a rappresentarmi il nemico che annega non
come un evento accaduto realmente: le schiere egizie che
soccombevano nelle acque erano dei fantasmi persecutori che
potevamo lasciarci per sempre alle spalle. Nella solitudine di
quegli attimi, mentre confusamente cercavo di dare ordine ai
miei pensieri, visi passare un amico italo maltese. Uno sguardo
carico di parole e un saluto rapido. Ci dicemmo “ciao”, come se
nulla fosse accaduto.
Per molti anni dopo avrei vissuto
come se l’esperienza della mia infanzia fosse appartenuta al
passato più remoto. Un grande spartiacque divideva la mia vita.
Il prima e il dopo erano fra loro irriducibili, anche se erano
passati pochi anni. Una frattura nel tempo. Ho poi scoperto
occupandomi del problema da un punto di vista professionale, che
il mio sentire rispondeva ad uno schema. Nel mio dolore non ero
solo. Decine di migliaia di ebrei che avevano forzatamente
lasciato i paesi arabi ne condividevano la struttura.
Gli attori dei ricordi potevano
avere trascorso l’infanzia, la giovinezza, alcuni la maggior
parte della vita a mille e più chilometri di distanza dai luoghi
in cui vivevano attualmente – Roma, Parigi, New York, Londra e
Tel Aviv. Ma lo schema non cambiava. La frattura coinvolgeva il
tempo e lo spazio e solo a distanza di molti anni, con le
generazioni che non hanno conosciuto direttamente quel passato,
i legami hanno cominciato timidamente a riannodarsi, rinnovando
l’interesse per i luoghi e le abitudini.
Impegnato a sostegno del dialogo e
per una composizione politica e pacifica del conflitto
mediorientale, l’idea di un ritorno al mio paese natale, anche
per una breve visita, non mi sfiorò mai. Non c’era più nulla
che mi legasse a quel passato. Mi ritenevo fortunato perché da
quell’inferno ero uscito vivo. Il legame tra le generazioni non
si era spezzato, i figli hanno potuto conoscere i nonni, la
gente ha potuto ricrearsi una vita libera in luoghi più
ospitali. Tuttavia vi è pur sempre qualcosa di inquietante nel
ritenersi fortunati perché altri hanno avuto un destino
inenarrabile. Ma le emozioni possono sciogliersi nell’incontro
con i profumi dell’infanzia, nell’attesa a uno scalo aereo. Sul
tabellone che indicava i voli in partenza, due scritte ben
distinte (Roma-Tel Aviv, Roma-Tripoli) mi apparvero come
sovrapposte. Mi sembrava che un luogo portasse all’altro e da
uno si potesse tornare all’altro, come in sogno potevo essere
lì, qui e altrove.
La mia Tripoli aveva viaggiato con
me, era parte del mio mondo onirico insieme ai ritmi della
musica orientale, così ricca ed espressiva, ai canti d’amore e a
quelli liturgici che udivo in casa da bambino per la Birkhat
levanà; alla nostalgia che provo quando penso agli amici
perduti, all’intensità dei profumi del mio paese natale e alla
sua brezza marina, alle fantasie che facevo guardando le navi in
partenza immaginandomi a bordo. E al piacere che provavo nel
passare dall’arabo all’ebraico e dall’ebraico all’arabo, nel
comporre un tema in italiano come se fosse latino col risultato
di scrivere in modo illeggibile; sino a quando un mio insegnante
di liceo, che aveva compreso il problema, mi disse: “Perché non
imiti la prosa degli illuministi francesi. Loro scrivevano in
modo chiaro, il tuo italiano ne uscirebbe arricchito e
migliorato”. Il cambiamento fu notevole e i risultati non
tardarono a venire. Per molto tempo ancora per scrivere in
italiano mi ispirai agli scrittori francesi del Settecento,
sino a quando non trovai il modo di distillare e sciogliere in
me la dolce melodia delle lingue in cui ero cresciuto. La mia
coscienza vigile poteva cedere ad una piacevole fantasia…
[1] La versione integrale del presente saggio è
apparsa col titolo Microstoria e grande storia (Nascere ebreo in
un paese arabo” in “Ebraismo” (a cura di D. Bidussa), Einaudi,
2008.
[2] Sulla storia degli ebrei di Libia
cfr. R. De Felice, Ebrei in un paese arabo. Gli ebrei nella
Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e
sionismo (1885- 1970), Il Mulino, Bologna, 1978; L. Carpi, La
condizione giuridica degli ebrei nel Regno Unito di Libia,
in “Rivista di studi politici internazionali”, 1963, pp. 87 e
sgg. Sugli usi ed i costumi cfr. M. Cohen, Gli ebrei di
Libia, Firenze, Giuntina, con una postfazione di D. Meghnagi,
Firenze, Giuntina; F. Zuarez, A Guetta, Z. Shaked, G. Arbib, F.
Tayar (a cura di), Yahaduth Luv, Tel Aviv, 1960. H.E.
Goldberg, Ecologic and Demographic Aspects of Rural
Tripolitanian Jewry: 1853-1943, in “International Journal of
Middle East Studies”, 1971, pp. 245 e sgg.; Sui pogrom del
’45 e del ’48 cfr. Habib, Z., I tumulti anti ebraici in
Tripolitania 4,5,6 e 7 novembre 1945, relazione aggiornata
al 31 dicembre 1945, in “Archivio dell’Unione delle Comunità
Israelitiche Italiane”, fascicolo “Fatti di Tripoli”; Id., Due
relazioni sul pogrom del 12-13 giugno 1948, ibid.; Ortona,
M., Il pogrom dimenticato, in “Diario”, a. II, n. 35,
10-16 settembre 1997, pp. 14-22. H. E. Goldberg, H. E., Rites
and riots: the Tripolitanian pogrom of 1945, in “Plural
Societes”, primavera 1977, pp. 35 e sgg.; per gli echi della
stampa cfr. Nerazzini, A., Sui giornali del 1945,
in “Diario”, a II, n. 35, 10-16 settembre 1997, p.
23; sul pogrom del 1967 cfr. L. Arbib, L.,The antisemitic
riots in Lybia of June 5-th, luglio 1967, in “Archivio
dell’American Jewish Committee”, Parigi; D. Meghnagi; Un ragazzo
nel pogrom: giugno 1967, in La cultura sefardita, numero
speciale in tre volumi de la “Rassegna mensile di Israel”, a
cura di D. Meghnagi, E. Levi e G. Fubini, vol. I, “L’area e la
storia”, gennaio-aprile 1983, pp. 323-331; Id., “Tra
memoria e storia: essere ebreo in un paese arabo”, in D. Bidussa,
E. Collotti Pischel e R. Scardi (a cura di) Identità e storia
degli ebrei, Milano, F. Angeli, 2000, pp. 237-253.
[3] Cfr. S. Freud, L’interpretazione
dei sogni, in Opere Sigmund Freud, vol. III, Torino,
Boringhieri, 1966, p. 187. E’ curioso perché in
quegli anni, per via dell’origine egizia del nome di Mosè, Freud
svilupperà la tesi secondo cui Mosè era un principe egizio. Cfr.
Cfr. S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre
saggi, in Opere Sigmund Freud, vol. XI, Torino,
Boringhieri, 1979, pp. 329-453.
[4] D. Meghnagi (1992), Il padre e
la legge (Freud e l’ebraismo), Marsilio, Venezia, nuova
edizione 2004.
[5] In un torneo estivo al Lido nuovo
i Basketer capitanati da mio fratello Simon,
dovettero abbandonare in fuga il campo di gioco in un torneo
estivo, senza nemmeno potersi cambiare. Le risse scoppiavano
tra le tifoserie arabe. Ma quando giocava una squadra ebraica,
cattolica, o straniera, la xenofobia riprendeva il sopravvento.
Per una regola non scritta le nostre squadre del cuore non
potevano vincere il torneo, nemmeno se confluivano in un circolo
arabo, optando per la formula mista, come accadde per legge nel
biennio 1959-60, e come avvenne per l’Aurora. Una partita del
campionato di pallacanestro tra l’Aurora ebraica, che
aveva nel frattempo cambiato nome in Ahlì, e inserito d’obbligo
nella sua rosa diversi giocatori mussulmani, e l’Ittihad, fu
arbitrariamente prolungata per essere poi sospesa a causa
dell’oscurità.
[6] La Grande Sinagoga di Tripoli.
[7] L’insediamento ebraico di matrice
sionista nella Palestina del Mandato britannico, da cui ha in
seguito preso corpo lo Stato d’Israele.
[8] Uno di questi esordiva con le
parole Mahla hassafra ba’d al ‘id amcia l’bhar ic’nna,
“Bella è la partenza dopo le festività (primaverili), quando il
mare si calma”. Un altro canto a sfondo sociale esordiva con la
parole Li ‘andu mliunin ma’mscisc l’lbalestin, imscilà kan al
mskin, iqs al lim ui’esh sinior (“Chi possiede due milioni
non andrà in Palestina, ci andrà il povero che taglierà arance
vivendo come un signore”).
[9] Un primo esito di questo progetto
è la raccolta di Shiru Shir. Cfr. D.
Meghnagi,Shiru Shir, Roma Europa Ricerca, 2006.
[10] Con immenso piacere ho ritrovato
la stessa scena nei ricordi pubblicati dal mio professore di
Liceo mezzo secolo dopo. “La comunità è acculturata, parla
diverse lingue, l’italiano è di casa. […]. Nelle mie classi, sia
al liceo che alla media, una buona parte degli allievi è di
razza ebraica, molti con passaporto italiano, altri francese,
specie quelli provenienti dalla Tunisia. Sono tra i migliori,
dotati di viva intelligenza e di determinazione nello studio. È
la loro arma segreta per dimostrare una superiore formazione
culturale contro la discriminazione di cui sono continuamente
oggetto. […]. Un eccellente allievo del liceo, David
Meghnagi, mi ha invitato un venerdì alla celebrazione del rito
nel tempio dove avrebbe officiato come aiuto rabbino. Sono
andato per gentilezza, ma anche perché interessato alla
conoscenza. Ho messo quindi anch’io sul capo la kippà. David
esercitava il suo ministero con aria rapita,come trasfigurato
dal tipo conosciuto a scuola allegro e scanzonato autore di
motti di spirito. […]. La mattina del lunedì è tutto un brusio
di simpatia tra gli alunni per la mia partecipazione, che però,
penso, non farebbe piacere alle autorità libiche che mi hanno
concesso il visto di entrata. Sono venuto ad insegnare nelle
scuole italiane e non dovrei fare cose sgradite al governo
locale. Ma non mi dispiace essermi fatto vincere dal dovere
della cortesia e dalla curiosità intellettuale per le varie
confessioni religiose, i loro riti e luoghi sacri: chiese,templi,
sinagoghe e moschee comprese.” A. Proia, Impressioni di
viaggio ( 1955-2002), Latina, Caramanica, 2006, 42.
[11] La Sacra Bibbia ossia L’Antico
e il Nuovo Testamento tradotti da Giovanni Diodati,
traduzione di G. Diodati, Lucchese 1576-1649, stampato a cura
della Società biblica britannica e foresteria, Roma,
Libreria Sacre Scritture, 1981.
[12] La domanda Chif halk (come
stai) e la risposta Hamdu l’llah (ringraziamo Dio) sono
in arabo. Le parole Hali bai (sto bene) sono in
dialetto arabo tripolino. La combinazione dell’arabo hali (la
mia condizione) con l’italiano buono era l’indicazione di un
percorso culturale, di un cambiamento che stava avvenendo. Con
gli arabi si preferiva rispondere Hamdu l’Allah. Nella
versione “Hali bai ringraziamo Dio”, la combinazione è
tra dialetto ebraico ed lingua italiana. Nella versione “Sto
bene, Baruch Ha-Shem (in ebraico, Benedetto il Nome) la
combinazione è tra la lingua italiana e l’ebraico.
La pronuncia ‘Shem anziché Ha- Shem è un
adattamento alla pronuncia dialettale degli ebrei di Libia.
[13] S. Freud (1899), L’interpretazione
dei sogni, in Opere Sigmund Freud, vol. III, 1966,
pp. 403-404.
[14] Per proteggere la popolazione
ebraica della città vecchia dal pogrom, la polizia
decise di trasferire la popolazione ebraica in un campo sito a
Gurgi nelle vicinanze di Tripoli, dove gli ebrei risedettero
sino alla partenza.
[15] Il progetto omicida messo in atto
con le famiglie Raccah e Luzon fu bloccato dall’intervento della
polizia insospettitasi dalle ripetute richieste di informazione
dei parenti.
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