La stanza di Carlo Martines

Carlo Martines

Un vecchio nel deserto

di   Carlo Martines

Al Azizyha è un piccolo paese a sud ovest di Tripoli e a circa cinquanta chilometri di distanza. E’ l’ultimo paese prima dell’inizio della Gefara, la grande pianura desertica che si estende fino ai piedi delle montagne rosse del Gebel. E’ una delle due regioni più calde del mondo, l’altra si trova nel Tibet.

 

Due vedute della zona di Al Azizyha

Da Al Azizyha parte, verso i monti, una lunga strada rettilinea, all’incirca di cento chilometri, circondata da dune e da cespugli di sparto, una pianta graminacea che nasce in regioni aride e i cui sottili rami sono molto pregiati per la produzione della carta, soprattutto dei papiri, e per la tessitura di cordami e stuoie.

Tra i cespugli si intravedono numerosi uccelli somiglianti, per grandezza e  aspetto,  a  delle gallinelle.  Infatti vengono chiamati galline del deserto, “ghatahr” in arabo. Frequenti anche gli incontri con i topi del deserto, lunghi circa venti-trenta centimetri, con una lunga coda che raggiunge le dimensioni dell’intero corpo.

Nel percorrere questo lungo rettilineo, assolato per tutti i giorni dell’anno, sembra di andare incontro a un grande lago. I raggi del sole, che si irradiano sulla sabbia giallo-rossastra, danno luogo a un miraggio e all’impressione che la terra sia acqua.

La zona è desertica, tuttavia, ogni tanto, si incontra qualche automobile, qualche autocorriera, qualche arabo con i suoi cammelli, ma in prevalenza dromedari.

Un giorno, percorrendo questa strada per raggiungere il piccolo ospedale di Jefren, costruito sul punto più alto della catena rocciosa, fermai di colpo la mia jeep perché notai la presenza di un uomo seduto, quasi sdraiato, e appoggiato a una piccola duna, a ridosso del manto stradale.

Jefrem  - Albergo Roma

Una vecchia piantina

Si trattava di un vecchio, dall’apparente età di almeno ottanta anni, ma sicuramente ne aveva di meno. Avvolto nel suo barracano di lana, malgrado i quasi cinquanta gradi al sole, aveva un aspetto ascetico. Magrissimo, con i lineamenti tirati.  Grossi solchi rugosi ripieni di sabbia gli segnavano il  volto. Era asciutto come la sabbia sulla quale sedeva.  Gli andai incontro con la convinzione di doverlo soccorrere.

“Labàs” gli dissi, che è un termine arabo non traducibile in italiano, ma che ha un significato di amicizia e di interessamento nei confronti del prossimo. Gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa o se desiderasse un passaggio per raggiungere il centro abitato più vicino.

Mi rispose cortesemente, porgendomi la mano,  esordendo con “Allah Akbar”, Dio è il più grande. In quel tempo questa espressione era un vero segno di amicizia e di pace. Oggi viene usata per farsi saltare in aria imbottiti di tritolo e per portarsi dietro quanta più gente possibile.

Il vecchio continuò dicendo che, grazie a Dio, aveva tutto: una buona salute, il sole, la tranquillità, il tempo per meditare e, per nutrirsi, anche quel po’ di “zammita” necessaria per quel giorno, una specie di polenta solida preparata con acqua e farina di orzo. Mi chiese se volessi dividerla con lui. Ne presi un pezzettino, per cortesia e per ricambiare il segno di amicizia.

Mi fermai per circa un’ora a parlare con questo personaggio, introvabile uno simile anche se mi fossi messo a viaggiare per cento anni.

Un vecchio nel deserto