LA
LIBIA ITALIANA
Terra
promessa o
scatolone di sabbia?
Nel primo
decennio del
Novecento, dopo i terribili disastri militari di Dogali
(1887) e di Adua
(1896), le mire coloniali italiane in Africa avevano subito pesanti
delusioni:
Tunisia, Marocco ed Egitto, paesi
mediterranei
sui quali avevamo tentato o solo pensato di imporre il nostro dominio,
erano
via via finiti in mano ad altri stati più potenti e intraprendenti,
sicché ci
restava solo la Libia, lontana e poco custodita provincia del
traballante impero
turco. Qui era da tempo iniziata una nostra penetrazione economica,
avvallata e
addirittura spinta dal governo già dai tempi di Crispi. Ma che bisogno
c’era
per l’Italia di una simile colonia? Nessuno, in realtà. I favorevoli
alla
conquista della «quarta sponda» (con questa
fortunata espressione si usò
presto denominare la Libia)
sostenevano però che
il vastissimo paese africano avrebbe potuto attrarre una parte dei
tantissimi
emigranti che allora fuggivano dall’Italia per andare in altri paesi
europei,
ma soprattutto nell’America, sia settentrionale che meridionale (molti
anche i
Friulani), fungendo così da comoda valvola di sfogo per la crescente e
preoccupante pressione demografica di inizio secolo. In più, dipingendo
ingenuamente (o furbescamente...) la Libia come un vero e proprio
Eldorado
africano, si affermava che poteva offrire utilissime risorse agricole e
minerarie alla rampante economia italica.
La battaglia
di Dogali e quella di Adua raffigurate in due dipinti
Come
si vedrà
subito dopo la conquista, entrambe le
ipotesi si rivelarono clamorosamente false: pochissimi Italiani
preferirono
infatti l’inospitale, sconosciuta, ostile e desertica Libia alle altre
mete
migratorie, magari più lontane ma meglio conosciute e accoglienti; i
pochi
prodotti della nuova colonia poi o facevano sgradita e inutile
concorrenza a
quelli dell’Italia meridionale, oppure influivano poco o nulla
sull’economia
nostrana e mondiale (era il caso dell’avorio, dello sparto, delle
spugne e
delle piume di struzzo...). Quanto poi alle tanto strombazzate risorse
minerarie, ben poco si riuscì a trovare: petrolio e metano salteranno
fuori,
con nostro grande scorno, soltanto negli anni Cinquanta-Sessanta,
quando la
Libia l’avevamo ormai persa. Non sbagliavano insomma gli Inglesi che,
dopo
attenti studi e ponderate valutazioni, l’avevano definita ai primi del Novecento «un
osso secco», abbandonando subito
l’idea di conquistarla; e non errava nemmeno Francesco
Saverio Nitti, quando definiva la guerra come uno spreco
inutile di
vite e
denaro per conquistare «uno scatolone di sabbia»,
espressione poi divenuta
proverbiale. Eppure la guerra si fece, al suono dell’arcinota
canzoncina
bellica “Tripoli,
bel suol d’amore” cantata
dall’allora famosa sciantosa
Gea
della Garisenda, che per anni fu ripetuta con fervore da tanti italiani illusi
di aver trovato fra Cirenaica e
Tripolitania la panacea per i problemi nostrani.
Francesco
Saverio Nitti e la sciantosa Gea della Garisenda
Erano favorevoli
alla guerra e alla conquista i
nazionalisti, fra i quali spiccavano personalità come Enrico
Corradini
e Luigi
Federzoni (in seguito confluiti
nel fascismo), e pure molti cattolici, che vedevano la campagna
militare contro
i Turchi come una tardiva crociata contro gli infedeli per la
riconquista di
terre un tempo cristiane.
Enrico
Corradini e Luigi Federzoni
E poi erano
d’accordo le grandi banche (il Banco di
Roma su tutte), che speravano in un proprio tornaconto
economico
dell’impresa; importanti giornali come il «Corriere della Sera» e la
«Stampa»;
alcuni noti intellettuali e letterati, che si fecero chiassosi corifei
degli
interventisti, come Gabriele
D’Annunzio, che istericamente cantò la
doverosa
missione dell’uomo bianco in Africa nelle Canzoni delle gesta
d’Oltremare,
e l’invasato futurista Filippo
Tommaso Marinetti, che corse in Libia a
combattere; pure il mite e umanitario Giovanni
Pascoli inaspettatamente
rivelò
simpatie per l’impresa bellica.
Da
sinistra Gabriele D'annunzio, Filippo Tommaso Marinetti e Giovanni
Pascoli
Si disse e
scrisse che era dovere dell’Italia conquistare
delle colonie per diventare una nazione potente e rispettata nel
consesso
mondiale e per «espandere il dominio della razza bianca
sull’inferiore
razza nera»; fu tirata fuori persino la motivazione che era
necessario
interrompere la tratta degli schiavi che si diceva
ancora tenersi a
Bengasi; si vaneggiò poi che la Libia ci spettasse “di
diritto” perché un tempo era stata
un’importante colonia dell’impero romano; si sostenne pure che i Libici
non
sopportavano i Turchi e la loro dominazione, e che avrebbero quindi
accolto a
braccia aperte e aiutato i “liberatori” italiani (il
che si rivelò
presto un clamoroso abbaglio, se non una grossolana bugia, come avremo
modo di
dire).
C’era pure chi –
con lucido
ma cinico pragmatismo – andava sostenendo che l’Italia aveva assoluto
bisogno
di fare, e soprattutto di vincere, una guerra, in particolare dopo i
cocenti
fallimenti in Africa orientale, per sconfiggere l’avvilimento che ne
era
seguito e riguadagnare fiducia in sé stessa; e chi ancora predicava che
un’impresa bellica avrebbe contribuito a rinsaldare l’unità di una
nazione che
nei cinquant’anni trascorsi dal 1861 non s’era ancora pienamente
realizzata,
anzi, dimostrava ampi scollamenti a tutti i livelli. Erano invece
fermamente
contrari alla guerra molti repubblicani, i radicali, i sindacalisti e
soprattutto i socialisti, da Filippo
Turati a Claudio
Treves, compreso
il
giovane Benito
Mussolini, che in altri tempi farà di tutto per
nascondere o
minimizzare il suo fervido antinterventismo. La loro opposizione si
concretizzò
in duri interventi in parlamento, manifestazioni pubbliche, cortei,
scioperi e
perfino in atti di disobbedienza civile e di piccolo sabotaggio contro
la
partenza delle truppe, senza comunque alcun risultato. Alcuni
socialisti però,
a sorpresa, appoggiarono il conflitto, pur con motivazioni diverse: fra
loro
nomi importanti come Arturo
Labriola e
Giuseppe
De Felice-Giuffrida, ma anche Leonida
Bissolati e Ivanoe
Bonomi, che
furono
addirittura espulsi dal PSI per questa loro posizione eretica.
Filippo
Turati e Claudio Treves
Benito
Mussolini
(clicca
sulla foto e guarda il video)
Da
sinistra Arturo Labriola, Giuseppe De Felice-Giuffrida, Leonida
Bissolati e Ivanoe Bonomi
Una
fatalità
storica
Giovanni
Giolitti, allora presidente del Consiglio dei
Ministri, era fondamentalmente antimperialista e, in cuor suo,
contrario alla
guerra. Di fronte però a un’opinione pubblica in gran parte schierata
per la
belligeranza, pensò di non contrastarla e anzi di incanalare e
disperdere nello
scontro armato con la Sublime Porta le tante tensioni e rivendicazioni
che si
muovevano allora contro di lui; prevedeva inoltre una rapida e facile
vittoria e
quindi un positivo ritorno d’immagine per il suo prestigio personale,
congettura questa che sarà però, come vedremo, clamorosamente smentita.
Una «fatalità
storica», definì quindi lo statista piemontese la guerra, da
affrontare
senza entusiasmo e passione, come una sgradita necessità. Così,
nell’estate del
1911 Giolitti e i suoi diplomatici prepararono in tutta fretta la
guerra, anche
perché era sorto il timore, probabilmente infondato, che altri
(Inghilterra,
Francia o Germania) potessero precederci su quelle coste africane. La
gran
premura fece sì che l’esercito non fosse adeguatamente pronto
all’impresa, e
proprio da quest’impreparazione, unita all’eccessivo ottimismo, alla
superficialità e all’ottusità che contraddistinguevano gran parte dei
nostri
comandi militari, sorsero poi seri problemi nel prosieguo del conflitto.
Troppo lungo e
complesso sarebbe ricostruire qui le fasi
della guerra: basterà dire che scoppiò alla fine di settembre del 1911
(la
dichiarazione ufficiale risale al 29 settembre e i primi colpi furono
sparati
il 3 ottobre) e che inizialmente sembrò davvero facile, visto che le
truppe
italiane occuparono senza soverchi problemi Tripoli, ben sostenuti dai
cannoni
della nostra marina e mal contrastati dai poco più di quattromila
soldati turchi
di stanza nella provincia libica. Seguirono però momenti difficili e
tragici,
come l’attacco di Sciara
Sciat del 23 ottobre, nel quale morirono tra
eroismi e
atrocità più di cinquecento soldati italiani (alcuni dei quali, come si
vedrà,
provenienti dal Friuli Occidentale).
Emerse più volte
l’incapacità dei nostri generali, in
particolare Carlo
Caneva e Alberto
Pollio, nel fronteggiare l’astuta
guerriglia
dei libici, male armati ma fermamente risoluti e perfettamente a
proprio agio
nelle terre ostili e desertiche dove si combatteva, diversamente dai
nostri
militari.
Carlo
Caneva e Alberto Pollio
Nonostante
l’utilizzo di dirigibili e di aerei – per la
prima volta in un conflitto furono usati per bombardare i nemici – e le
spietatissime ritorsioni (fucilazioni e impiccagioni sommarie, anche di
civili,
e deportazioni indiscriminate di “resistenti” in disumani campi di
concentramento alle Egadi e alle Tremiti), che macchiarono per sempre
l’onore
dell’esercito italiano, i Libici continuarono a
resistere per anni,
anche ben dopo la chiusura del conflitto, applicandosi in una logorante
guerriglia, tanto che pochi anni dopo il nostro effettivo dominio si
limitava,
e a gran fatica, alla sola zona costiera.
Il conflitto con
la Turchia si chiuse col trattato
di
pace di Ouchy, vicino a Losanna (18 ottobre 1912), condotto
scaltramente dal
banchiere e imprenditore veneto Giuseppe
Volpi, poi nominato Conte di
Misurata
e in seguito presidente di Confindustria e potente ministro fascista.
L’Italia
vittoriosa ottenne, oltre alla Libia, che era stata affrettatamente
annessa al
Regno d’Italia già all’inizio del conflitto, anche l’isola
di Rodi e il
Dodecaneso. La «guerra di un anno», come
fu
definita, ci costò alla fine
1.432 soldati morti, più altri 1.948 deceduti per malattia e 4.220
feriti e
invalidi (questi i dati ufficiali, forse sottostimati), e oltre un
miliardo di
lire di allora (invece del mezzo miliardo stimato e annunciato), una
cifra
ingentissima che pesò a lungo e negativamente sui bilanci statali. I
risultati
concreti dell’annessione, come già detto, furono modestissimi.
Innanzitutto,
furono pochissimi gli italiani che si trasferirono in Libia: erano
nemmeno
tremila nel 1928, crebbero a forza solo nel periodo fascista,
soprattutto nel
1938 con i cosiddetti «ventimila non emigranti» che
vi andarono a
vivere, fra i quali Amerigo
Dumini, l’assassino di Giacomo
Matteotti
già da
tempo liberato dal carcere, e vari altri pregiudicati e sbandati.
L’amministrazione dei nuovi territori si rivelò poi costosa e
inefficiente,
l’apporto della colonia all’economia del Regno fu sempre trascurabile,
e anzi
la guerra del 1911-12 contribuì subito a innescare una perniciosa
spirale
inflazionistica. In compenso, la Turchia sconfitta cacciò per
rappresaglia dai
suoi territori cinquantamila residenti italiani, molti dei quali con
avviate
attività commerciali e industriali, e boicottò i nostri prodotti, con
gravi
danni ad esempio per le industrie tessili dell’Italia settentrionale
che
nell’impero ottomano trovavano da tempo un importante mercato. Le altre
potenze
europee d’altronde non presero troppo bene l’aggressiva espansione
italiana, e
ci mostrarono anzi ostilità più o meno aperta, comprese le nostre
“alleate”
nella Triplice, Austria e Germania.
Amerigo
Dumini e Giacomo Matteotti
Giolitti dal
canto suo non ebbe tutti quei vantaggi
personali che si aspettava, anzi di lì a poco (1914)
il suo governo cadde e il suo lungo potere si disgregò definitivamente.
Il
nazionalismo, spesso esasperato e violento, che aveva sostenuto
l’impresa
libica e che da questa aveva trovato ulteriore nutrimento continuerà
intanto a
serpeggiare in Italia, riemergendo nell’interventismo del 1914-15 e,
più
avanti, nel fascismo. Qualche storico sostiene poi che fu proprio la
guerra
libica, dando un inutile scossone al già decadente impero turco e
alterando
così indirettamente gli equilibri nei Balcani, a preparare
infaustamente il
terreno e le condizioni al sorgere del primo e ben più disastroso
conflitto
mondiale. La «quarta sponda» così faticosamente
conquistata continuò a
darci dal 1912 in poi – anche durante il fascismo, sotto i governatori «dal
pugno di ferro» Pietro
Badoglio, Rodolfo
Graziani e Italo Balbo
–
una serie infinita di grattacapi, di spese e di
morti, sempre taciuti o
sottostimati, in cambio di pochissime soddisfazioni.
Da
sinistra Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani e Italo Balbo
La Libia fu una colonia italiana nell'Africa settentrionale,
durata ufficialmente, dopo la gestione distinta della Tripolitania e
della Cirenaica,
dal 1934 al 1943.
Il primo ministro italiano Giovanni Giolitti iniziò
la conquista della Tripolitania e
della Cirenaica il
4 ottobre 1911, inviando a Tripoli contro
l'Impero Ottomano 1732
marinai al comando del
capitano Umberto Cagni.
Giovanni
Giolitti ed Umberto Cagni
LA
CONQUISTA
Oltre
100 000 soldati italiani riuscirono a ottenere dalla Turchia quelle regioni
attualmente definibili libiche nel Trattato
di Losanna del 18 ottobre 1912, ma solo la
Tripolitania fu effettivamente controllata dal Regio esercito italiano,
sotto
la ferrea guida del governatore Giovanni
Ameglio.
Giovanni
Ameglio
All'interno
dell'attuale Libia, principalmente nel Fezzan,
la
guerriglia indigena continuò per anni, a opera dei turchi e degli arabi
di Ismail Enver e
di Aziz Bey. In
questa zona, negli anni successivi alla fine della Prima
guerra mondiale,
la Francia e
la Gran
Bretagna cedettero
alla
sovranità italianaampi
territori desertici, nel tentativo di spegnere le polemiche di Roma sulla
cosiddetta vittoria
mutilata.
Ismail
Enver e Aziz Bey
LA
RICONQUISTA
A
partire dal gennaio 1922 il governo
Facta,
tramite il suo ministro per le colonie Giovanni
Amendola,
avviò un'ampia campagna militare che
portò in breve alla riconquista di Misurata.
Luigi
Facta ed il suo ministro per le colonie, Giovanni Amendola
Tra
il
1921 e il 1925 il
Governatore della Tripolitania, Giuseppe
Volpi,
diede il via a nuove
campagne militari e
conquistò Misurata,
la Gefara,
il Gebel
Nefusa e Garian.
A
stroncare in Cirenaica la
dura resistenza dei Senussi provvidero
i generali Luigi
Bongiovanni e Ernesto
Mombelli.
Poi furono Emilio
De Bono in
Tripolitania e Attilio
Teruzzi
in
Cirenaica ad ampliare il territorio sotto controllo
italiano.
Ernesto
Mombelli, Emilio De Bono e Attilio Teruzzi
Il
governatore Pietro
Badoglio tra
il 1930 ed
il 1931 occupò
tutto il Fezzan e l'oasi
di Cufra,
al comando del generale Rodolfo
Graziani,
che era riuscito a
ottenere l'apporto della cavalleria indigena e dei meharisti integrati
nelle
"colonne mobili".
La
situazione, nel 1930, era quindi volta a favore degli italiani. La
lotta
proseguiva solo in Cirenaica,
dove resisteva
ancora il capo senussita della guerriglia, Omar
al-Mukhtar.
Omar el Muktar
Omar
Al Mukhtar era
dotato di un'eccellente visione strategica, e con il sostegno delle
popolazioni
locali, ostili all'espansione italiana nelle regioni interne della
Libia,
costui impediva agli italiani di riprendere il controllo della
provincia. Grazie a
una perfetta conoscenza dell'impervio
territorio, pur disponendo solo di un modesto contingente di uomini
(che non
superò mai le 3000 unità) scatenò una guerra per bande contro le truppe
italiane, infliggendo loro pesanti perdite. Su ordine di Graziani, le
forze
italiane per sradicare la guerriglia dei senussiti in Cirenaica
ricorsero a
metodi di rappresaglia spietati contro la popolazione locale accusata
di
appoggiare il ribellismo, macchiandosi di numerosi crimini di guerra.
La
confraternita senussita, che appoggiava la guerriglia, fu privata dei
suoi beni
e sottoposta a una dura repressione (più di trenta capi religiosi
vennero deportati
in Italia e le zavie, centri politici ed economici dell'ordine, vennero
confiscate). Per impedire i rifornimenti dall'Egitto,Graziani fece
innalzare
una lunga barriera di filo spinato lunga 270 chilometri, dal porto di
Bardîyah
(Bardia) all'oasi di al-Giagbūûb (Giarabub), presidiata costantemente
dalle
truppe italiane.
Inoltre
Graziani fece deportare l'intera popolazione del Gebel
in campi di concentramento situati sulla costa del golfo della Sirte,
vicino ad
Agheila; tale deportazione causò la morte (per gli stenti e le
malattie) di
circa 60.000 persone, soprattutto donne e bambini. La
popolazione del Gebel ammontava a circa 100 000 persone; lo
sgombero
dell'altopiano cirenaico iniziò nel giugno 1930 e si protrasse per
diversi mesi.
Le perdite di vite umane furono dovute specialmente alle epidemie –
come quelle
collegate alla "spagnola"
– ed alle
fatiche della lunga ed estenuante marcia (a volte lunga più di 1000
chilometri), oltre che alle violenze ed alle durissime condizioni cui
vennero
sottoposte quelle popolazioni nei campi di concentramento italiani. Le
truppe
italiane nel corso di queste operazioni distrussero molti centri
abitati
sgomberati, insieme alle coltivazioni e al bestiame che ospitavano, e
compirono
varie esecuzioni sommarie di rappresaglia quando assalite.
Per
avere la superiorità numerica e tecnologica nei confronti dei
guerriglieri,
l'esercito italiano creò dei reparti mobili composti da effettivi
italiani e di
colore reclutati nelle colonie africane. Questi ultimi erano perlopiù
provenienti dall'Eritrea e Somalia,
di religione
cristiana e ferocemente avversi ai musulmani. Ma non mancavano
collaborazionisti libici che ingrossavano le file dei reparti
coloniali,
considerati dai comandi italiani come poco affidabili (erano quindi
discriminati
e talora sottoposti a duri trattamenti). Le truppe italiane inoltre,
per la
prima volta in una guerra coloniale, per affrontare e decimare i
guerriglieri,
ricorsero ad alcuni aerei ed autoblindo.
La
morte del capo della guerriglia libica Omar
al-Mukhtar nel
settembre 1931,
comportò la totale pacificazione delle regioni che, solo con l'unione
fra Tripolitania,
Cirenaica e Fezzan, si sarebbero chiamate
Libia. La conquista italiana costò alla Libia pesanti perdite umane e
materiali, causando decine di migliaia di morti e sconvolgendo
l'arretrata
organizzazione sociale ed economica tradizionale.
L'esercito
italiano riportò nel corso delle molte operazioni per
la conquista della Libia perdite relativamente lievi in confronto a
quelle
inflitte ai libici: il totale dei militari italiani morti in Libia tra
il 1911
e il 1939 è di 8898 persone (nella guerra del 1911-1912 ne morirono
1432).
Al
principio degli anni
trenta, Mussolini ordinò
l'inizio di
una vasta immigrazione di coloni italiani nelle aree coltivabili della
colonia
e cercò l'integrazione della locale popolazione araba e berbera,
costituendo
anche truppe coloniali.
La
repressione attuata da Graziani fu talmente completa che
pochi anni dopo, nel corso delle
varie campagne militari tra Alleati ed Asse nel
nord Africa tra
il 1940 ed
il 1942,
lo stesso Churchill nelle
sue memorie si
lamentò di non avere avuto alcun
supporto da arabi e berberi libici. Furono invece oltre 30.000
gli ascari libici
che, tra le truppe
coloniali italiane,
si distinsero nella seconda
guerra mondiale:
due divisioni libiche (oltre ad altri reparti, come i "Paracadutisti
libici" detti anche Ascari
del cielo)
parteciparono nell'attacco
italiano all'Egitto nel
settembre 1940.
Winston
Churchill e gli Ascari del cielo
L’UNIFICAZIONE
DELLA
LIBIA
Nel 1934, con
il Regio
decreto n°2012 del 3
dicembre sull'unione della Tripolitania e
della Cirenaica
italiana, venne
proclamato il Governatorato Generale della Libia,
e
successivamente i cittadini islamici poterono godere dello status di
"cittadini italiani libici", una condizione che garantiva loro
numerosi diritti all'interno della loro colonia. Il decreto
recepiva e
formalizzava peraltro una situazione che durava già da cinque anni,
ossia da
quando al governatore della Tripolitania, Pietro Badoglio, era stata
conferita un potere
di supremazia sulle autorità degli altri due territori libici,
la Cirenaica e
il Fezzan.
Mussolini dopo il
1934 iniziò una politica
favorevole agli Arabi libici, chiamandoli "MusulmaniItaliani
della Quarta Sponda d'Italia" e costruendo villaggi
con moschee, scuole
ed ospedali, ad essi destinati.
Il primo
Governatore generale fu Italo
Balbo, che applicò
quanto previsto nel decreto del 1934, ossia la ripartizione
amministrativa della Libia italiana in quattro commissariati ed un
territorio
sahariano:
·
Commissariato
provinciale di Tripoli,
capoluogo Tripoli;
·
Commissariato
provinciale di Misurata,
capoluogo Misurata;
·
Commissariato
provinciale di Bengasi,
capoluogo Bengasi;
·
Commissariato
provinciale di Derna,
capoluogo Derna;
·
Territorio
Militare del Sud,
capoluogo Hun,
sede di un comando militare che aveva il
compito di governare il Sahara libico.
A capo di ogni
commissariato si trovava un
commissario generale, mentre il territorio militare era posto agli
ordini di un
comandante, tutti nominati da Roma. I commissariati
si ripartivano in circondari gestiti
da un commissario circondariale,
mentre i circondari si dividevano in residenze e distretti. Il
territorio
militare era invece suddiviso in zone e sottozone. Non esisteva invece
una
sistematica ripartizione in comuni: i municipi erano
istituiti obbligatoriamente solo nei
capoluoghi, e in questi casi erano guidati da un podestà. Veniva infine
garantito il
potere dei capi delle tribù nomadi,
purché riconosciuti dai commissari.
LA
COLONIZZAZIONE
Il Regno d'Italia dopo
la prima guerra mondiale avviò
una colonizzazione che ebbe il culmine, sotto l'impulso di Mussolini,
soprattutto verso la metà degli anni trenta con
un afflusso di coloni provenienti in
particolare da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata.
Nel 1939 gli italiani erano il 13%
della popolazione, concentrati nella costa intorno a Tripoli e Bengasi (dove
erano rispettivamente il 37% ed il
31% della popolazione).
Con gli Italiani
si ebbe un incremento del cattolicesimo in
Libia, grazie anche alla
creazione di numerose chiese e missioni. Al Vicariato
apostolico di Tripoli del
vescovo Camillo
Vittorino Facchinetti nel 1940 era assegnato
circa un quarto del totale della popolazione della Libia italiana
(includendo i
coloni italiani).
Camillo
Vittorino Facchinetti
In Libia gli
italiani costruirono in circa
trent'anni (1912-1940) infrastrutture importanti (strade, ponti,
ferrovie,
ospedali, porti, edifici, e altro ancora). Numerosi contadini italiani
resero
coltivabili terreni semidesertici, specie nell'area di Cirene. Inoltre il
governo italiano creò il Gran
Premio di Tripoli, una corsa
automobilistica di fama internazionale istituita nel 1925 e
svoltasi fino al 1940 e la Fiera
internazionale di Tripoli fondata nel 1927
e considerata la più antica Fiera internazionale in Africa ancora
funzionante annualmente.
Un
momento della gara del Gran Premio di Tripoli e la Fiera Internazionale
di Tripoli
Molte furono le
attività archeologiche: città
romane scomparse (come Leptis Magna e Sabratha)
furono riscoperte e si usò queste ricerche e il clamore a esse legato a
scopo
meramente propagandistico. Negli anni trenta la Libia italiana arrivò
ad essere
considerata la nuova "America" per l'emigrazione
italiana.
I
Teatri di Leptis Magna e Sabratha
« In Libia nasceranno i 26 villaggi: Oliveti,
Bianchi, Micca, Breviglieri, Littoriano, Giordani, Tazzoli, Marconi,
Crispi, Garabulli, Garibaldi, Corradini, Castel Benito, Filzi, Baracca,
Maddalena, Sauro, Oberdan, D’Annunzio, Mameli, Razza, Battisti, Berta,
Luigi di Savoia e Gioda. Dal 1934 Governatore della Colonia Libica è un
uomo d’eccezione: il trasvolatore Italo Balbo. È proprio Balbo che, tra
il 1938 e il 1939, in due migrazioni di massa, farà arrivare
dall’Italia migliaia di famiglie di coloni, assegnatarie dei poderi.
Nell’operazione di colonizzazione demografica italiana c’è una
rivoluzionaria novità: il regime fascista (di Balbo) non tratta le
popolazioni libiche autoctone come una razza inferiore da sfruttare ma,
riconosciuta loro la cittadinanza italiana, gli riserva lo stesso
trattamento dei nazionali. Ai libici, come agli italiani, saranno
distribuiti poderi da coltivare. Anche per loro, inoltre, saranno
costruiti dieci villaggi rurali libici, questa volta dai nomi arabi: i
maggiori erano El Fager (Alba), Nahima (Deliziosa) ed Azizia
(Profumata). » (Daniele
Lembo).
Nel 1938 il
governatore Italo Balbo portò
20.000 coloni italiani in Libia e fondò per loro ventisei nuovi
villaggi, principalmente in Cirenaica. Inoltre
cercò di assimilare i musulmani libici con una politica amichevole,
fondando nel 1939 dieci villaggi per gli Arabi e
i Berberi libici:
"El Fager" (al-Fajr, "Alba"), "Nahima" (Deliziosa),
"Azizia" (‘Aziziyya, "Meravigliosa"), "Nahiba"
(Risorta), "Mansura" (Vittoriosa), "Chadra" (khadra,
"Verde"), "Zahara" (Zahra, "Fiorita"), "Gedida" (Jadida,
"Nuova"), "Mamhura" (Fiorente), "Beida"
(al-Bayda', "La Bianca").
Tutti questi
villaggi avevano la loro moschea, scuola, centro sociale (con ginnasio
e cinema) ed un piccolo ospedale, rappresentando una novità assoluta
per il mondo arabo del Nord Africa.
Anche il turismo
venne curato con la istituzione dell'ETAL, Ente turistico
alberghiero della Libia che promuoveva alberghi, linee di autobus di
gran turismo, spettacoli teatrali e musicali nel teatro romano di Sabratha, il Gran Premio di Tripoli", disputato su
due circuiti diversi dal 1925 al 1940: nel 1934 venne costruito,
nell'oasi di Tagiura e
su iniziativa dell'Automobil
Club di Tripoli, il nuovo Autodromo della Mellaha, fra i più
moderni e attrezzati del mondo, su cui si corsero le edizioni del gran
Premio dal 1934 al 1940.
All'inizio
della Seconda guerra mondiale vi
erano circa 120 000 Italiani in Libia, ma Balbo aveva in
progetto di raggiungere il mezzo milione di coloni italiani negli anni
sessanta.
Del resto Tripoli
aveva già nel 1939 una popolazione di 111 124 abitanti, dei
quali 41 304 (37%) erano italiani. Italo Balbo nel 1940 aveva
costruito 4 000 km di
nuove strade (la più nota era la Via Balbia col suo
nome, che andava lungo la costa da Tripoli a Tobruk);
analoga crescita invece non ebbero le ferrovie, la cui rete raggiunse
la massima espansione (circa 400 km) nel 1926, a parte alcuni
tentativi effettuati tra il 1941 e il 1942, poco prima della perdita
della colonia.
Il 9
gennaio 1939 venne
emanato il Regio decreto n°70
volto ad integrare i quattro commissariati provinciali costieri nel
territorio del Regno. Con tale
provvedimento veniva istituita una cittadinanza speciale accessibile ai
cittadini musulmani, che dava all'interno della colonia gli stessi
diritti goduti dagli italiani nella madrepatria, salvo le modificazioni
di diritto privato imposte
dalla diversa religione. Tali diritti erano tuttavia valevoli solo
in Africa, essendo
esplicitamente esclusa ogni equiparazione con l'ordinaria cittadinanza
metropolitana.
ITALIANI
DELLA LIBIA
Gli Italiani
della Libia erano poche migliaia quando Mussolini salì al
potere e riuscì a sconfiggere la guerriglia araba, ma dopo la nomina di
Italo Balbo a governatore nel 1934 il loro numero si incrementò
continuamente fino ad essere quasi 120 000 nel 1940. Allo
scoppio della guerra contro gli inglesi i coloni italiani erano
concentrati nella regione costiera della Libia, specialmente nei
villaggi agricoli creati da Balbo, mentre gli italiani erano quasi la
maggioranza a Tripoli e Bengasi.
La seconda guerra mondiale devastò
la Libia italiana e costrinse i coloni italiani a lasciare in massa le
loro proprietà, specialmente nella seconda metà degli anni quaranta.
Attualmente gli
italiani in Libia sono 22 530, quasi lo stesso numero
del 1962, in prevalenza
operai specializzati delle industrie petrolifere arrivati
a fine anni novanta.
Le stime
precedenti, soprattutto per quanto concerne il dato riferito al 2004,
riguardano i parlanti l'italiano e non i cittadini italiani. Secondo i
dati in possesso del Governo italiano e verificabili presso gli Uffici
diplomatici e consolari della Repubblica in Libia, gli italiani in
Libia negli anni 2000 sono meno di 1 000, poiché la manodopera
delle imprese italiane che si registra come "italiana" è in realtà
asiatica.
Anche la stima
sui parlanti è piuttosto generosa: in linea di massima, parlano
italiano le generazioni dei più anziani nelle due grandi città (Tripoli
e Bengasi), rimasti in
poche decine di vecchi coloni.
LA
FINE DELLA COLONIA
Nel Trattato di
Pace del 1947 l'Italia ha dovuto rinunciare a tutte le sue colonie,
compresa la Libia. Vi fu comunque nel 1946 un vano tentativo di
mantenere la Tripolitania come
colonia italiana (assegnando la Cirenaica alla Gran Bretagna ed
il Fezzan
alla Francia).
Per gli Italiani
della Libia iniziò nel secondo dopoguerra un difficile periodo,
contrassegnato dalla loro emigrazione. Anche la Libia italiana fu
ridimensionata, perdendo la nuova Libia indipendente la Striscia di Aozou nel
1994 (ottenuta da Mussolini nel 1935 dalla Francia e restituita
al Ciad).
Nel 1962 gli
Italiani in Libia erano ancora circa 35 000. Ma dopo il colpo
di stato del colonnello Mu'ammar Gheddafi del
1969, circa 20 000 italiani furono costretti a cedere
improvvisamente i propri beni e le proprie attività economiche il 7
ottobre 1970 (ancora oggi le
varie associazioni di profughi e rimpatriati si battono per ottenere un
risarcimento dallo Stato italiano). Furono assunte anche iniziative di
carattere emblematico, come lo smantellamento dell'Arco dei Fileni (1973),
che Gheddafi riteneva un simbolo del periodo coloniale.
Il colonnello Mu'ammar
Gheddafi e lo smantellamento delle statue bronzee dell'Arco dei Fileni
Dopo la
nazionalizzazione delle imprese italiane, rimase in Libia solo un
ristretto numero di italiani. Nel 1986, dopo la crisi
politica tra Stati Uniti e
Libia, il numero degli italiani si ridusse ancora di più, raggiungendo
il minimo storico di 1 500 persone, cioè meno dello 0,1% della
popolazione. Negli ultimi anni, dopo il riavvicinamento tra l'Occidente
e la Libia e la fine dell'embargo economico,
alcuni italiani dell'epoca coloniale sono ritornati in Libia.
Attualmente sono solo alcune decine di vecchi pensionati.
RAPPORTI
DELL’ITALIA CON LA EX COLONIA
I rapporti tra
l'Italia e la Libia sono stati caratterizzati da una parte da lunghe
discussioni sulla compensazione per i danni subiti dai Libici durante
il colonialismo italiano e
dall'altra da richieste di risarcimenti da parte dei rimanenti italiani
in Libia (che furono costretti a perdere tutte le loro proprietà ed a
esulare come quasi apolidi in
Italia dopo l'ascesa al potere del colonnello Gheddafi nel 1969).
Secondo stime del
governo libico (contestate dall'AIRL) nel suo complesso la conquista
della Libia e le successive repressioni italiane costarono la vita di
circa 100 000 cittadini libici su una popolazione stimata di
800 000 abitanti. Dopo
trattative durate diversi anni tra il Governo italiano e il
leader libico Mu'ammar
Gheddafi, il 30 agosto 2008 è stato firmato un
accordo che prevede una compensazione del valore complessivo di 5
miliardi di dollari usa. La compensazione comprende la realizzazione di
diverse infrastrutture tra cui l'autostrada da Ras Jdeir ad Assaloum,
collegando Egitto con Tunisia attraversando la costa libica. Duecento
abitazioni. Il pagamento delle pensioni di guerra ai libici che vennero
impiegati in combattimento dal Regio Esercito Italiano. La creazione di
un comitato di consultazioni politiche e di un partenariato economico.
Il finanziamento di borse di studio per studenti libici. La fornitura
di un radar per il controllo delle frontiere meridionali della Libia
realizzato da Finmeccanica. Il 30 agosto
2008 è stata inoltre restituita la statua Venere di Cirene. L'accordo
che comprende diverse fasi di attuazione con scadenze comprese dai 25
ai 40 anni comprende un ampio capitolo relativo alla lotta
all'immigrazione clandestina diretta in Italia, alla collaborazione
industriale e alle forniture energetiche. Rimane non completamente
risolta la questione relativa ai cittadini italiani espulsi dalla Libia
nel 1970.
PERSONAGGI
ITALIANI NATI IN LIBIA
Nati
a Tripoli
·
Franco Califano (1938-2013), cantante
·
Emanuele Caracciolo (1912-1944), regista
cinematografico
·
Nicola Conte (1920-1976), ufficiale di
marina
·
Claudio Gentile (1953), calciatore e
allenatore
·
Herbert Pagani (1944-1988), cantante
·
Valentino Parlato (1931), giornalista,
fondatore de Il Manifesto e a
lungo suo direttore
·
Rossana Podestà (1934-2013), attrice
cinematografica
·
Valeria Rossi (1969), cantante
·
Valter Vecellio (1954), giornalista e
politico radicale
·
Adriano Visconti (1915-1945), asso
dell'aviazione
·
Roger Abravanel (1946), manager
italiano
Nati
a Bengasi
·
Maurizio Seymandi (1939), conduttore
televisivo
·
Gabriele de Paolis (1926-1984), generale
dell'esercito
Nato
a Homs
·
Mario Schifano (1934-1998), pittore
Nato
a Derna
·
Italo Salizzato (1941),
fisarmonicista, pianista e compositore
Nato
a Barce
·
Lorenzo Bandini (1935-1967), pilota
automobilistico
Nati
a Zawia
·
Ezio Freschi (1956),
giornalista e politico
·
Falberto Freschi (1943-1948),
sepollto nel cimitero di Hammangi (Tripoli)