Ogni collettività esprime nella
poesia i propri sentimenti, le
proprie ansie, gli entusiasmi,
le gioie e i dolori. Questo vale
anche per gli italiani di Libia,
ovvero quegli italiani vissuti
in Libia nel corso del Ventesimo
secolo. Quindi attraverso le
espressioni poetiche da essi
prodotte è possibile ricostruire
e interpretare, almeno a grandi
linee, la loro storia.
I Versi sulla sabbia
offrono appunto un panorama
di cultura civile e danno ai
loro cantori, anche ai più
stentati, la nobiltà e la
dignità della testimonianza
storica. Questo volume esamina
la produzione poetica degli
italiani di Libia e dei libici
nelle varie fasi storiche in cui
essa si è manifestata. I
capitoli in cui questa
produzione si manifesta sono, in
ordine cronologico, i seguenti:
I versi che
accompaganarono la guerra
Italo-Turca, ed in
particolare:
La canzone di Mario Bianco,
una de “Le Canzoni delle
gesta d’Oltremare” di
Gabiele D’Annunzio che commemora
il guardiamarina Mario Bianco,
morto da eroe combattendo contro
i Turchi sulla spiaggia della
Giuliana per la conquista di
Bengasi.
La Canzone-marcia A Tripoli,
resa famosa dalla cantante
bolognese Gea della Garisenda,
che inizia con Tripoli, bel
suol d’amore.
La madre,
lirica famosa della poetessa Ada
Negri.
Le poesie della
Libia italiana, fra cui:
Arabia felix,
in cui Silvio Campanile,
confinato politico nell’isola di
Ustica, manifesta la sua
comprensione e solidarietà con i
libici costretti a vivere
lontano dal loro paese e che
provano un’immensa nostalgia
della loro terra.
Africa italica. Le canzoni della
Libia,
una raccolta di poesie di Carlo
Comerio, dove si nota un
notevole interesse verso i
libici.
Canti di nomadi,
raccolta di poesie
dell’ufficiale Umberto Ajelli,
che valorizza i canti dei nomadi
che costituivano la maggioranza
della popolazione libica.
Le canzoni d’amore del popolo di
Cirenaica,
raccolta di canti di abitanti
della Cirenaica.
Canti popolari libici,
raccolti, tradotti in italiano e
pubblicati da Ester Panetta.
Nella introduzione questa grande
studiosa della lingua e dei
costumi degli abitanti della
Libia scrive: <<In Libia e
nell’Africa del Nord in genere
tutti hanno un gran gusto per il
poetare e spesso sono vivaci
improvvisatori: una festa, un
lutto, un litigio offrono
occasioni per dare sfogo alla
loro vena e i versi sono sempre
cantati. Quelli che maggiormente
suscitano l’entusiasmo di chi
ascolta hanno l’onore di essere
tramandati, sempre oralmente, e
ci sono versi che entrano a far
parte del patrimonio quotidiano,
perché ripetuti in conversazione
come proverbi, epigrammi,
ecc.>>.
I canti del
colonialismo fascista e della
guerra in Libia
Fra questi canti sono
soprattutto da evidenziare
quelli dei “bimbi libici”, più
comunemente chiamati “Ragazzi
della quarta sponda”. Molti di
questi si trovano raccolti nel
periodico Quarta sponda,
uscito negli anni 1942-1943. Ma
ebbero pure notevole successo le
canzoni patriottiche trasmesse
dalla radio durante il secondo
conflitto mondiale. La più
famosa delle quali è stata
probabilmente La sagra di
Giarabub, il cui ritornello
divenne popolarissimo:
Colonnello non voglio
pane;
dammi piombo pel mio
moschetto:
c’è la terra del mio
sacchetto
che per oggi mi
basterà.
Colonnello non voglio
l’acqua;
dammi il fuoco
distruggitore,
con il sangue di questo
cuore
la mia sete si
spegnerà.
Colonnello, non voglio
il cambio:
qui nessuno ritorna
indietro
non si cede neppure un
metro
se la morte non
passerà!
E la guerra in Africa
settentrionale provocò, oltre a
gravi distruzioni, anche
nunerosi morti, feriti e
prigionieri italiani. Questi
ultimi, rinchiusi nei campi di
concentramento britannici,
espressero il loro dolore per la
penosa situazione in cui si
trovavano e la nostalgia per la
terra e i cari lontani, anche in
versi, che poi vennero raccolti
e pubblicati al rientro in
Patria.
Poesia italiana
nella Libia post-coloniale
All’euforia colonialista segue
un periodo di frustrazione
morale e di grandi difficoltà
economiche che non favorisce
certo le espressioni poetiche.
Tuttavia negli anni Cinquanta un
giovane insegnante tripolino,
Guglielmo Carnemolla, pubblica a
Tripoli alcune raccolte di
poesie, nelle quali, ispirandosi
all’ambiente africano in cui
vive da straniero, esprime i
sentimenti che la sua situazione
gli suggerisce. Significativi i
titoli di alcune di queste
poesie: Giuorno di Ghibli,
Tramonto africano, Garian.
Noi italiani di
Libia siam tutti poeti…
Tutti gli Italiani nati o
vissuti in Libia fino al 1970,
insieme al dolore per aver
dovuto abbandonare forzatamente
il suolo libico, hanno portato
con sé un forte sentimento
nostagico per quella terra.
Sentimento che anzicché
affievolirsi è andato aumentando
con il passare del tempo. E
molti di loro hanno affidato ai
versi le sensazioni suscitate
dai ricordi dei giorni trascorsi
in quel Paese. E’ pertanto
impossibile riportare qui una
adeguata selezione di tale
enorme produzione alla quale
hanno partecipato i
rappresentanti di tutte le
categorie sociali presenti in
Libia. Ci limiteremo a riportare
una selezione di titoli di
queste poesie: Terra mia, Nel
deserto, Ho lasciato qualcosa,
Terre intorno a Bengasi,
Ritorno, Il beduino, Gefàra,
Lasciando Tripoli, Tripoli
cara…Tripoli amara.
Conclusione
Dall’esame dei temi e dei
termini contenuti in queste
poesie e dal modo come essi si
susseguono e si intrecciano con
il passare del tempo è possibile
trarre numerose conclusioni.
Conclusioni che ogni lettore
potrà ricavare a seconda del
proprio modo di pensare e della
propria sensibilità verso le
sollecitazioni che questi versi
suscitano in loro. Comunque la
cosa che caratterizza le poesie
dei rimpatriati, colme di
nostalgia e pervase di rimpianto
per un passato che non può più
tornare, è che in esse non c’è
un solo verso che esprima odio,
disprezzo, ingiuria per i libici
o che offenda la Libia. Eppure
la Libia era stata definita uno
“scatolone di sabbia” e, fino
alla scoperta del petrolio,
praticamente lo era, ma per
quello scatolone essi o i loro
genitori avevano versato sudore,
lacrime e sangue. Come spiegare
allora un così profondo e
diffuso attaccamento per una
terra tanto avara e, almeno
inizialmente, tanto ostile?
Perché per essi è stato così
crudele doverla abbandonare?
La risposta a questi
interrogativi deve essere
trovata proprio nei sacrifici,
nelle rinunce, nel duro lavoro
che essi hanno dovuto affrontare
prima di arrivare a un relativo
benessere economico. Ma anche al
fascino dell’ambiente esotico,
con i suoi spazi sconfinati, i
cieli incredibilmente stellati,
i tramonti fiammeggianti; alla
maestosità dei monumenti
affioranti dalle dune e
riportati al loro antico
splendore dai nostri archeologi.
Ed ancora all’ammirazione e al
rispetto suscitato dalla
religiosità di un popolo povero,
ma fiero e dignitoso.