ll coraggioso padre Martina
di Giulio Andreotti
La recensione nella Civiltà Cattolica del libro di padre
Martina sulla Storia della Compagnia di Gesù in Italia
(1814-1983) si chiude con una frase molto eloquente: «Si
potrebbe pensare che abbia compiuto il suo lavoro
impietosamente, se non l’avesse invece svolto in fedeltà
alla propria coscienza di uomo e di storico, nonché alla propria
vocazione».
In effetti, nella ricostruzione di un lungo periodo, che va
dalla ripresa dopo la soppressione al “generalato” di padre
Arrupe, la cronaca si svolge in un alternarsi puntuale di grandi
eventi (come i rapporti tra la curia dei Gesuiti e il Vaticano)
e di atteggiamenti di singoli padri all’interno e all’esterno
dell’ordine. Sempre con la precisione e la serenità di questo
grande storico.
Sullo sfondo vi è l’analisi della continua ricerca di punti di
incontro tra modernità e tradizione. Di quest’ultima,
intransigente e un po’ chiuso custode appare il preposito
Janssen, mentre con padre Arrupe – reduce dalle bombe nucleari
di Hiroshima – il salto di qualità andò forse oltre i limiti.
Ho letto con crescente attenzione le quattrocentoventisette
pagine ponendomi sotto tre punti di vista: il debitum che
ho verso la Compagnia per la mia formazione; i loro rapporti con
la politica; le caratteristiche di alcuni padri molto
contestabili.
La scuola – con il mio status di orfano di guerra – l’ho
frequentata negli istituti pubblici. Un giorno potei dire a
Fidel Castro, apprezzandone la sottigliezza dialettica, che lui
mi batteva perché aveva studiato dai gesuiti. Ebbi però dai
padri tre sussidi formativi. Il primo nella Lega missionaria
studenti, dove, a parte l’ammirazione e lo stupore per le Chiese
lontane, si imparava a conoscere il mondo autentico, ben oltre i
testi di geografia; e con punte di vera specializzazione. Ad
ognuno di noi era affidata un’area su cui riferire a fine d’anno.
Così, quando, dopo la guerra, l’Indocina divenne un problema
spinosissimo, io potei stupire attingendo ad una mia
conferenzina del 1936.
La recensione nella Civiltà Cattolica del libro di padre Martina
sulla Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983) si
chiude con una frase molto eloquente: «Si potrebbe pensare che
abbia compiuto il suo lavoro impietosamente, se non l’avesse
invece svolto in fedeltà alla propria coscienza di uomo e di
storico, nonché alla propria vocazione»
Della Lega missionaria ricordo anche convegni bellissimi a
Mondragone e a L’Aquila, guidati dal padre Haeck, dal padre
Eugenio Pellegrino (da non confondersi con il gemello Francesco)
e dal bravissimo professor Enrico Medi.
Altro elemento formativo fu la congregazione mariana Mater
Amabilis, diretta spiritualmente da un prelato della Segreteria
di Stato – monsignor Antonio Colonna – ma ospitata presso
l’antico noviziato dei gesuiti a Sant’Andrea. Si osservava una
democrazia interna e il prefetto era eletto dai congregati a
scrutinio segreto. Qui, ad un passo dal Quirinale, feci e vinsi
le mie prime elezioni.
Ad aiutare monsignor Colonna venivano dall’Università Gregoriana
alcuni professori. Ricordo l’austriaco padre Luigi Naber e
l’italiano padre Agostino Tesio. Quando morì monsignor Colonna,
lo sostituì il gesuita padre Giampietro: colto e molto pastorale.
Nella Mater Amabilis non vi era alcuna venatura politica.
Monsignor Colonna ci raccontava, della Conciliazione del 1929
con l’Italia, due curiosi particolari. Era stato lui, esperto in
matematica, a fare l’aggiornamento contabile dell’indennizzo che
dopo Porta Pia era stato rifiutato e che l’Italia aveva ora
pagato. Come autorevole minutante aveva anche partecipato alla
cerimonia nel Palazzo lateranense, incaricato di passare
l’asciughino sulle firme di Gasparri e di Mussolini.
In una vicina congregazione, la Prima Primaria, al Caravita,
l’infiltrazione dei comunisti cattolici fu invece profonda,
tanto da far estromettere dalla Compagnia il padre Giuliano
Prosperini.
Terzo elemento per me incisivo fu la frequentazione con alcuni
padri, a cominciare, giovanissimo, dal padre Garagnani, nelle
sue stupende conferenze, fino agli incontri – alcuni molto
intensi e qualche volta polemici – legati al corso della mia
lunga vita pubblica.
Ho letto con crescente attenzione le quattrocentoventisette
pagine ponendomi sotto tre punti di vista: il debitum che ho
verso la Compagnia per la mia formazione; i loro rapporti con la
politica; le caratteristiche di alcuni padri molto contestabili
Quando ero ragazzo, un gesuita, che mi aveva conosciuto ad
Anagni, dove mi recavo in gita da Segni con Angelo Felici e
Vincenzo Fagiolo (futuri cardinali) cercò di attrarmi verso la
Compagnia. Ma non ero portato al celibato ecclesiastico e padre
Bitetti, provinciale romano, desistette presto dal proposito di
portarmi a Galloro. Nella Compagnia entrarono invece, più o meno
in quel periodo e con uno sviluppo splendido di ministero,
Bortolotti, Pappalardo e Davanzali. Vocazione tardiva, maturata
nella Lega missionaria, fu quella di Felice Ricci, le cui
esortazioni – semplicissime rispetto a quelle togate che avevo
sentito di padre Venturini e padre Miccinelli – suscitavano
simpatia e propositi di vita.
Durante il liceo l’orientamento dominante nei professori non era
tendenzialmente favorevole ai gesuiti, fatta eccezione – ma come
grecista – per l’autorevole padre Rocci e per il suo vocabolario.
Accenni critici alle vicende risorgimentali in verità non
venivano molto analizzati, ma ricorrevano frequentemente.
In materia sono tornato molto più tardi, approfondendo
attraverso la lettura dell’opera fondamentale del padre Martina
la figura di Pio IX. Sul tema il padre è tornato anche nel
saggio che sto recensendo. Vi si narra che alla vigilia del
crollo di Porta Pia il Papa disse all’inviato regio conte Ponza:
«Non sono profeta né figlio di profeti, ma vi dico che non
entrerete o se entrerete non ci rimarrete». Non so se la
previsione possa collegarsi – ma con una lunga attesa – alla
estromissione della monarchia settantasei anni dopo. Ad ogni
modo il Quirinale non fu propizio alla casa regnante: Vittorio
Emanuele II morì prima di Pio IX a soli cinquantasette anni;
Umberto I fu assassinato; Vittorio Emanuele III e Umberto II
morirono in esilio. E fu tutto.
Del conte Ponza, si annota che ebbe un fratello gesuita,
Alessandro; e la stessa caratteristica è sottolineata del
garibaldino Nino Bixio: il fratello Giuseppe fu apostolo attivo
in California e in Australia. Sono queste attraenti annotazioni,
che rendono vivacissima la prosa del padre Martina.

La curia generalizia della Compagnia di Gesù in
borgo Santo Spirito, nei pressi della basilica di San Pietro
Ma al papa Mastai Ferretti è dovuta anche la fondazione della
Civiltà Cattolica; e sulla complessa e dinamica
rivista ufficiosa (le bozze sono sottoposte alla Segreteria di
Stato) si snoda, lungo quasi due secoli, una cronaca di estremo
interesse. Il senso dell’opposizione iniziale al governo
italiano usurpatore di una parte dello Stato Pontificio durerà,
ma con una sintomatica ondulazione di toni, molto oltre la presa
piemontese di Roma. Curve a rischio il collegio dei redattori di
via Ripetta non è abituato a farne; unica eccezione vi fu
nell’ottobre del 1922 dinanzi al fatto nuovo del governo
Mussolini, che al Papa che veniva da Milano
pregiudizialmente non dispiaceva. Il venerando direttore padre
Rosa mantenne peraltro tutte le sue riserve; tanto da essere
considerato dai fascisti un nemico da vigilarsi specialmente.
Vedremo tra poco la… compensazione con il confratello padre
Tacchi Venturi.
Tuttavia una certa autonomia di giudizio non venne mai meno.
Attratto, ad esempio, dal corporativismo, apparve a lungo il
padre Brucculeri, ma sempre con attenzione a non intrupparsi tra
i propagandisti del ventennio.
Anche nelle polemiche dottrinali la Civiltà Cattolica
rispecchiò più che il pensiero della Compagnia, la direttiva
del Vaticano (attenzione: non sempre coincidente con quella
personale del papa; come è palese riguardo al controverso abate
Rosmini).
Padre Rosa lo incontrai solo una volta per parlargli di un
problema universitario. Faceva tenerezza per una nevralgia del
trigemino che lo tormentava, ma mi riservò tanta attenzione e mi
dette consigli preziosi per fronteggiare i cattolici comunisti
senza fare demonizzazioni e ostracismi personali. Al padre Rosa
fece seguito padre Rinaldi e quindi padre Martegani, finissimo
diplomatico e perfetto sacerdote. In più occasioni mediò tra
l’intransigenza voluta dall’alto verso i politici italiani di
parte cattolica e l’intelligente comprensione per situazioni
difficili, viste da vicino. A padre Martegani si deve la
provvida novità del trasferimento a Villa Malta, sede di grande
prestigio e di rara possibilità di raccoglimento in pieno centro
di Roma. Passò poi alla curia generalizia con mansioni
importanti. Quello che appare straordinario è la diversità di
tipi umani dei direttori. Padre Sorge, ad esempio (non ho
conosciuto padre Gliozzo), sembrò preoccupato di non invadere
campi politici, ma di fatto si dedicò a far maturare a suo modo
il “dopo” di una Democrazia cristiana di cui avvertiva il
logoramento. Intensi i suoi contatti personali. Un personaggio
notevole – Giovanni Spagnolli, già presidente del Senato – dopo
essersi consigliato con lui decise di ritirarsi dalla vita
politica. Io stesso in un colloquio a Villa Malta ebbi
l’impressione di analogo suggerimento. Non lo seguii e forse
feci male. Avrei risparmiato ad altri tante iniziative per
estromettermi.
Ma al papa Mastai Ferretti è dovuta anche la fondazione della
Civiltà Cattolica; e sulla complessa e dinamica rivista
ufficiosa (le bozze sono sottoposte alla Segreteria di Stato) si
snoda, lungo quasi due secoli, una cronaca di estremo interesse.
Il senso dell’opposizione iniziale al governo italiano
usurpatore di una parte dello Stato Pontificio durerà, ma con
una sintomatica ondulazione di toni, molto oltre la presa
piemontese di Roma...
Dopo il pontificato brevissimo di Giovanni Paolo I (che pensava
di nominarlo suo successore a Venezia: la fonte di questo è
sicura), padre Sorge lasciò Roma e fu destinato a Palermo, dove
cercò di aiutare un nuovo corso della politica italiana. Ma la
Sicilia è una regione speciale non solo per gli
ordinamenti costituzionali. La stessa comunità locale dei
gesuiti, pur minuscola, vedeva i contrapposti corifei di due
opposte tendenze. Padre Noto, direttore di un Centro studi
sociali moderato, era molto amico di Salvo Lima; mentre il padre
Pintacuda guidava, accanto a Leoluca Orlando, la cordata dei Dc
di opposizione, almeno nelle dichiarazioni, progressista. Senza
schierarsi apertamente da una delle due parti, padre Sorge
cominciò a tessere la rete di una terza via, con apertura verso
i cosiddetti indipendenti di sinistra; ma dopo qualche anno dal
profondo sud si è trasferito a Milano, a dirigere
Aggiornamenti Sociali. Ha nel contempo promosso studi sulle
esperienze passate e anche dato vita ad una riflessione su un
modo nuovo di porsi verso la politica: secondo uno schema
abbozzato a grandi linee e con il proposito di una elaborazione
non affrettata.
A dirigere la Civiltà Cattolica dopo padre Sorge fu
chiamato padre Tucci, persona di grande comunicativa umana e
politicamente extra partes. Nei nuovi indirizzi della
Chiesa, con i viaggi apostolici del Papa, occorrevano
collaboratori di classe per la preparazione, sia organizzativa
che culturale. Al primo compito fu preposto il vescovo americano
monsignor Marcinkus (più tardi coinvolto, a mio avviso
ingiustamente, in polemiche parabancarie vaticane ed ora
esemplare sacerdote in cura d’anime nell’Arizona). Padre Tucci –
ora cardinale, residente a Villa Malta – con grande finezza e
molta apertura verso le caratteristiche dei Paesi visitati e le
gerarchie locali, si occupava della preparazione intellettuale e
politica delle trasferte papali.

La statua di Gesù all’interno del giardino della
curia generalizia della Compagnia di Gesù
Al presente alla direzione della rivista è il padre Salvini:
giovane, estraneo a vocazioni parapolitiche, molto aperto
intellettualmente, ma non lo si trova mai citato nelle cronache
dei giornali. Per la vita della Chiesa e le vicende del mondo si
hanno in ognuno dei quaderni aggiornamenti e spunti di grande
interesse. Anche il rapporto fede-scienza è curato con una
profondità ed una apertura straordinarie. Il carattere ufficioso
è certamente meno marcato di un tempo; ma questo giova ad una
missione orientatrice più dialettica ed obiettivamente attraente.
Un secondo aspetto del libro di padre Martina riguarda il
rapporto dei gesuiti con l’evoluzione e le involuzioni della
politica italiana, anche nella realtà del secondo dopoguerra. I
tempi nuovi affrancavano i padri sia dal coinvolgimento secolare
in opinabili indirizzi, come la tormentata polemica
postemporalista, sia da condizionamenti talvolta acrobatici in
un sistema italiano dittatoriale. Verso il partito politico di
cattolici dichiarati occorreva benevola attenzione, ma non di
più. Si inserisce qui anche il tema dell’atteggiamento di Pio
XII verso De Gasperi. In una recensione ad un mio libro il padre
Martina ha osservato che io cerco di minimizzare il contrasto; e
forse è vero, dato uno stato d’animo di affetto verso il
presidente e nello stesso tempo di grande devozione a papa
Pacelli, anche per bilanciare le tante ingiuste critiche che
continuano ad essere a lui rivolte.
Sulle elevate doti morali di De Gasperi persona, il giudizio
ammirato di Pio XII è espresso nell’indirizzo rivoltogli
nell’udienza del ventennale della Conciliazione, da lui minutato
con cura. Non piaceva tuttavia al Papa la collaborazione
governativa coi laicisti dichiarati né reputava sufficiente
l’anticomunismo democratico. Dalle carte dell’allora
monsignore (poi cardinale) Pietro Pavan, che svolse presso De
Gasperi una missione affidatagli dal Pontefice nel 1952, si
apprende che gli si chiedevano spiegazioni del perché non
avessimo fatto come i tedeschi ponendo fuori legge il Partito
comunista. In tale linea si colloca la benedizione papale alla
improvvida, cosiddetta Operazione Sturzo sempre del 1952. Si era
divisata la spoliticizzazione delle elezioni amministrative di
Roma facendo confluire in un anonimo listone di benpensanti
democristiani, monarchici e missini. A parte lo scarso interesse
delle stesse destre, il sostegno del Papa fu immediatamente
ritirato quando ebbi modo di fargli avere – tramite la fedele
madre Paschalina – un appunto sulle conseguenze disastrose che
l’evento avrebbe avuto per la sussistenza del governo De Gasperi.
Noterò tra poco la parte che in questo pasticcio ebbe il padre
Riccardo Lombardi sul quale il Martina ha – ed esprime –
opinioni molto severe.
L’anno successivo, 1953, De Gasperi andò in crisi per
l’abbandono dei suoi alleati storici, verso i quali l’elettorato
era stato, per usare l’espressione di Saragat, “cinico e baro”.
Allo sfiduciato ottavo governo De Gasperi subentrò il Ministero
monocolore Pella che passò alle Camere per l’appoggio dei
monarchici, che lo avevano invece negato a De Gasperi. Qui entra
in giuoco come consigliere politico il padre Giuseppe Messineo,
non solo panegirista del nuovo primo ministro, ma fustigatore in
un duro articolo di tutta la politica degasperiana.
...Curve a rischio il collegio dei redattori di via Ripetta non
è abituato a farne; unica eccezione vi fu nell’ottobre del 1922
dinanzi al fatto nuovo del governo Mussolini, che al Papa che
veniva da Milano pregiudizialmente non dispiaceva. Il venerando
direttore padre Rosa mantenne peraltro tutte le sue riserve;
tanto da essere considerato dai fascisti un nemico da vigilarsi
specialmente. Vedremo tra poco la… compensazione con il
confratello padre Tacchi Venturi
De Gasperi aveva condiviso l’idea di Einaudi di affidare il
governo al ministro del Tesoro in una linea quasi tecnica. E
aveva voluto che io restassi al Viminale proprio in segno di
continuità. Attorno a Pella si formò però una coalizione strana
di consensi, con quotidiane esaltazioni dell’uomo forte:
l’entusiasmo esplose quando il governo ordinò lo schieramento di
truppe alla frontiera orientale prendendo sul serio una notizia
di agenzia che attribuiva al maresciallo Tito disegni aggressivi.
Purtroppo nella trappola cadde anche il ministro della Difesa
Taviani, facendogli assecondare il dannunzianesimo di Pella in
quelle giornate, che ebbero il momento culminante in un discorso
in Campidoglio suscitatore di pericolosi risvegli di
nazionalismo italico. De Gasperi chiese invano che
nell’occasione si annunciasse almeno la decisione di presentare
alle Camere la ratifica del Trattato per la Comunità europea di
difesa.
Qualche settimana più tardi esplose un contrasto tra il governo
e i due gruppi parlamentari democristiani. In un proposito di
rimpasto Pella aveva designato come ministro dell’Agricoltura
l’onorevole Aldisio: democratico perfetto e artefice dello
Statuto di autonomia della Sicilia. Di fatto la scelta appariva
come antitesi o almeno forte correzione della politica
riformatrice di Segni: di qui il veto democristiano, aggravato
da una presa di posizione del Quirinale che contestava ai gruppi
parlamentari, non tenendo conto che era nelle loro mani la “fiducia”,
il diritto a escludere candidature.
Realisticamente Pella non si irrigidì, nonostante gli stimoli di
padre Messineo a «tener duro, tanto dovranno venire in ginocchio
a scusarsi». I labirinti della vita politica sono complessi e
qualche volta inafferrabili anche per chi vive all’interno.
Improvvisato consigliere del principe, il buon padre Messineo
esercitò una perniciosa influenza. Intanto a minare il governo
tecnico non erano De Gasperi né i deputati e senatori
democristiani ma gli ex alleati governativi della Dc pentiti di
essersi messi fuori giuoco silurando De Gasperi. Non trovarono
però alcun riscontro nello stesso De Gasperi, mentre al progetto
di restaurazione del quadripartito – numericamente possibile
anche se con stretti margini – lavorò intensamente Mario Scelba,
che in un discorso a Novara dette fuoco alle polveri. De Gasperi
non era stato preavvertito e non condivise la manovra.
Attribuire a lui la liquidazione di Pella è storicamente un
falso. Comunque Scelba, che in verità nel luglio 1953 era stato
trattato male (con lo spostamento – che rifiutò – dall’Interno
alla Difesa) non beneficiò nell’immediato della liquidazione di
Pella. All’interno della Dc il risentimento verso Saragat e gli
altri affossatori di De Gasperi era molto forte. E non pochi si
chiedevano perché mai gli ex alleati pentiti non favorissero il
ritorno di De Gasperi alla guida del governo (stato d’animo in
parte vero, in parte maggiore pretestuoso). Nacque così
l’incarico a Fanfani per un monocolore che, secondo sprovveduti
consiglieri, avrebbe ottenuto la non belligeranza sia dei
monarchici che dei socialisti. Con mia grande sorpresa e
preoccupazione, Fanfani volle me al Ministero dell’Interno e
andò da De Gasperi a chiedergli di convincermi.

Un’illustrazione di Achille Beltrame raffigurante
Pio XI con Benito Mussolini in un’udienza dell’11 febbraio 1932
Fanfani, uomo di un dinamismo straordinario, introdusse la
novità di presentazione contestuale del governo e di disegni di
legge di attuazione del programma. Ma gli affidamenti che aveva
avuto si dimostrarono inconsistenti. Poche ore prima del
discorso programmatico andai da lui per dirgli che ero lieto di
avere accettato perché altrimenti poteva credere che io non
volessi condividere la sconfitta. Si mostrò meravigliato del mio
pessimismo e a mia volta dissi che se le mie informazioni
sull’insuccesso fossero risultate inesatte io non ero adatto non
solo a fare il ministro dell’Interno, ma nemmeno il deputato.
Chi gli avesse garantito l’appoggio non so; ma certamente
intensi contatti – diretti e mediati – aveva avuto negli ultimi
giorni sia con Pietro Nenni che con Alfredo Covelli.
Attraverso queste due travagliate esperienze e l’interregno per
così dire amministrativo di Pella, la legislatura doveva ormai
approdare ad una certa stabilità. E fu Scelba il candidato
naturale. Padre Messineo fu costretto a riconoscere che nessuno
era andato in pellegrinaggio a chiedere scusa a Pella per la
vicenda Aldisio.
De Gasperi, pur in condizioni fisiche molto logorate, si dedicò
intensamente ai problemi europei e a ricompattare la Democrazia
cristiana. Scelba e Fanfani (governo e partito) erano elemento
di stabilità; ma all’interno della Democrazia cristiana
operavano fermenti di contrasto che al Congresso nazionale di
Napoli a fine giugno furono solo in apparenza superati. Con uno
sforzo fisico immane, De Gasperi parlò per molte ore, dettando
un autentico testamento politico-morale.
Nel frattempo però lo stesso De Gasperi aveva avvertito
l’esistenza di sottili manovre a lui ostili, ispirate forse dal
timore di una sua possibile candidatura nel 1955 alla
successione di Einaudi.
Si inserisce in questo quadro la falsa “lettera trappola” in cui
cadde Guareschi su una sua richiesta agli Alleati nel 1944
perché bombardassero Roma. Ma vi fu purtroppo anche un articolo
della Civiltà Cattolica nel marzo di quel 1954 dal
titolo solenne I cattolici e la vita politica,
autore il padre Messineo ma con annunciato accredito personale
del Papa.
Raramente ho visto De Gasperi così amareggiato. Mi chiamò di
mattina presto a Castel Gandolfo e lo trovai eccitatissimo.
Aveva preparato alcune cartelle di note polemiche di commento e
mi incaricò di scrivere un articolo di ferma risposta al padre.
Si inserisce qui anche il tema dell’atteggiamento di Pio XII
verso De Gasperi. In una recensione ad un mio libro il padre
Martina ha osservato che io cerco di minimizzare il contrasto; e
forse è vero, dato uno stato d’animo di affetto verso il
presidente e nello stesso tempo di grande devozione a papa
Pacelli, anche per bilanciare le tante ingiuste critiche che
continuano ad essere a lui rivolte
Un’altra volta, subito dopo la Liberazione, avevo scritto sotto
sua dettatura, definendo la Dc come partito di centro che si
muove verso sinistra, una frase entrata nella storiografia
politica. Ma qui era diverso. Esplodeva in lui tutto il
risentimento per tante incomprensioni e invasioni di campo. Ed
occorreva richiamare all’ordine presunti politici e invasori del
nostro campo. Il carattere ufficioso della Civiltà Cattolica
era, come non mai, palese. Il chiarimento diretto con il Santo
Padre del quale aveva dato la disponibilità a monsignor Pavan
non aveva avuto luogo.
Eppure aveva detto con chiarezza quale sarebbe stato il suo
atteggiamento nelle tre ipotesi possibili. Se il Papa si fosse
convinto della bontà delle sue tesi, benissimo. Se avesse detto
che lasciava a lui nella sua responsabilità specifica le
linee-guida, altrettanto bene. Se invece avesse espresso il suo
dissenso, egli, cattolico osservante si sarebbe messo da parte.
Più di così era impossibile.
Vedersi ora contestato in toto era troppo.
Gli dissi – ed era così – che non avevo ancora letto l’articolo
e che mi sarei dedicato con cura alla redazione della risposta.
Sapevo che, lasciando passare un giorno, la sua giusta ira si
sarebbe attutita e poteva darsi luogo ad una replica meno
polemica. Così fu. All’indomani tornai a Castello e potei
suggerire che era meglio rinunciare alla replica. In verità lo
scritto del padre Messineo era saccente e presuntuoso, ma non
così politicamente offensivo come gli era sembrato.
Da una lettera del padre Messineo al padre Martina venti anni
più tardi vedo che lo scrittore aveva tra l’altro attribuito a
De Gasperi un discorso a Novara, confondendolo con quello,
già citato, di Scelba.

Il messaggio di saluto di Pio XII (nella foto sopra)
ad Alcide De Gasperi in occasione della sua visita in Vaticano
l’11 febbraio 1949,nel ventesimo anniversario dei Patti
Lateranensi
Una ovvia mia propensione a sottolineare risvolti politici non
mi impedisce di ringraziare il padre Martina per aver messo in
luce figure bellissime di suoi confratelli impegnati fortemente
nella cura d’anime come eroici cappellani militari. E sono anche
commoventi le pagine riservate ai gesuiti in Albania, con uno
dei padri fucilato sotto quel perfido regime comunista.
Ma devo riservare qualche attenzione a tre figure
cronistoricamente di spicco: il padre Tacchi Venturi, il padre
Arrupe e il padre Riccardo Lombardi.
Il primo, che aveva vissuto tutto il tormento della Compagnia
compreso l’esilio, è citato come l’ecclesiastico che aveva
libero accesso a Palazzo Venezia e talvolta lo si definisce “il
confessore di Mussolini”.
Sta di fatto che occupandosi del possibile acquisto della
Biblioteca Chigiana che lo Stato aveva rilevato nel 1919 con
l’omonimo palazzo si trovò a parlarne con Mussolini in persona,
arrivato da pochi giorni al potere. Con un gesto munifico,
appreso l’interesse del Papa alla questione, Mussolini decretò
la donazione alla Santa Sede della preziosa Collezione. Un così
eccellente mediatore venne ad avere di conseguenza grande e
prestigiosa notorietà. Di qui, tre anni dopo l’incarico
affidatogli dal cardinal Gasparri di trattare con don Sturzo
l’abbandono della Segreteria del Partito popolare e, subito dopo,
l’andata via dall’Italia.
L’intervento e la mediazione del padre lungo gli anni successivi
furono richiesti con esito alterno per moltissimi casi personali.
Non brillante il comportamento verso Buonaiuti, ma sul povero
don Ernesto continuò l’ostracismo anche con due ministri “laici”
alla Pubblica istruzione.
Il padre Tacchi Venturi fu autorevole collaboratore
dell’Enciclopedia italiana.
Quanto scrive padre Martina su padre Riccardo Lombardi conferma
un giudizio non positivo che ho sempre coltivato. Occorre però
molta precisione al riguardo.
Il fine, che si riprometteva, di un profondo rinnovamento sia
della Chiesa che dell’Italia era suggestivo. E negli scritti sul
primo dei progetti si trovano non pochi spunti di quella che fu
la successiva stagione conciliare. Purtroppo si riteneva, per
usare una dizione canonica, immediatamente soggetto solo a se
stesso ricevendo gli stimoli direttamente da Gesù. Tanto è vero
che alza bruscamente la voce ritenendo in errore il patriarca
Roncalli, ma ha uno scatto collerico anche in udienza da Pio XII
che è costretto a rammentargli chi era il Papa.
La crociata del padre Lombardi si svolse non solo per le piazze
d’Italia – affollate, eccitate e plaudenti – ma nelle lingue del
posto in molti Paesi esteri. Annunciava ovunque un grande
riscatto sociale, profetizzando che il potere sarebbe stato
conquistato dalle plebi. Osserva il padre Martina che l’effetto
negli Stati Uniti era limitato per una scarsa conoscenza
dell’inglese. Ma anche l’ambasciatore del Brasile osservò che
per fortuna credeva di parlare portoghese.
Sulle elevate doti morali di De Gasperi persona, il giudizio
ammirato di Pio XII è espresso nell’indirizzo rivoltogli
nell’udienza del ventennale della Conciliazione, da lui minutato
con cura. Non piaceva tuttavia al Papa la collaborazione
governativa coi laicisti dichiarati né reputava sufficiente
l’anticomunismo democratico
Che l’Italia fosse in pezzi era convinto, stigmatizzando spesso
i trecentomila (?) morti nei giorni della Liberazione. Durante
il Congresso eucaristico di Assisi (1952) preoccupando il legato
pontificio cardinal Schuster deplorò che tutta Torino fosse
ormai comunista. Dovetti interromperlo dato che sindaco era il
democristiano Peyron: mi chiese se ero sicuro e continuò
imperterrito.
Si diceva che le sue antipatie per De Gasperi e un po’ per tutto
il sistema postbellico derivassero anche dal trattamento di
epurazione che aveva colpito suo padre, autorevole
professore e senatore del Regno. Di altro avviso era invece la
sorella Pia, distinta parlamentare democristiana. Al fratello
Gabrio si dovette più tardi il referendum contro il divorzio, in
sé ineccepibile («non possiamo vietare» disse Paolo VI «il
ricorso ad un mezzo legittimo per cancellare una legge che
riteniamo ingiusta») ma causa di un forte indebolimento del peso
politico dei cattolici. L’ostilità al divorzio fu
percentualmente più forte nelle due Camere che nel voto popolare,
non esclusa la città di Roma.
Sarebbe però scorretto stigmatizzare globalmente il padre
Lombardi non riconoscendo – a parte la sua buona fede – la bontà
di alcune sue iniziative, a cominciare dalle Esercitazioni
per un mondo migliore. Innovando sullo schema ignaziano degli
esercizi, dove i fedeli osservano in clausura più giorni di
rigoroso silenzio, ascoltando le meditazioni e le
riforme della guida spirituale (ricordo l’aulico padre
Marchetti) il modello di padre Lombardi era un dibattito serrato
tra tutti i partecipanti, scelti di norma in categorie omogenee.
Due volte partecipai ad un turno per i politici e devo dire che
furono giornate affascinanti e costruttive.
Diverso era il padre Lombardi nelle cose terrene. La sera del
fallimento dell’Operazione Sturzo mi fece al telefono una lunga
paternale sostenendo che dovevo assolutamente trovare la formula
per ripristinare il disegno cosiddetto sturziano (in verità suo
e di Gedda). Ero stanco e molto teso per il rischio al quale la
vita politica era stata esposta e alla fine gli dissi seccamente
che non so cosa intendesse fare lui, ma per mio conto me ne
andavo a dormire. Riattaccai bruscamente il telefono e con
grande carità il padre in seguito non mostrò di rammentarsi lo
sgarbo.
Al ricordo di padre Lombardi si abbina quello di padre Rotondi,
sua “spalla” per molti anni, ma con conquista progressiva di
autonomia per dar vita ad un movimento (l’Oasi) di intensa
spiritualità. Per una combinazione avevo assistito molti anni
prima al Leoniano di Anagni – dove Virginio era seminarista –
alla chiassosa reazione dei suoi familiari ai quali stava
annunciando la decisione di entrare nella Compagnia.
Nella carrellata su centosessantanove anni di movimentata vita
dei gesuiti in Italia mi ha colpito un episodio. Il giorno di
Natale del 1913 il Papa inviava una lettera nella quale subito
dopo il riconoscimento dei meriti secolari ammoniva la Compagnia
a «tenersi lontana dal contagio pestilenziale del mondo» e ad
evitare «uno spirito mondano, una leggerezza negli animi, lo
studio di temerarie novità»...
Padre Rotondi era un buon mediatore. Fu lui a disgelare (più
esattamente a tentare di disgelare) i rapporti tra Pio
XII e il presidente Gronchi, accompagnando quest’ultimo a Castel
Gandolfo con la sua vetturetta senza scorte e impiccioni.
Comunque il tandem Lombardi-Rotondi costituì una realtà atipica
nella storia dei gesuiti italiani, incisiva e ricca di apporti
benefici.
Ai motivi già illustrati di riconoscenza personale debbo
aggiungere uno, singolare, vissuto poco dopo la nomina a
presidente della Fuci. In vista del Congresso nazionale vi era
l’abitudine di chiedere in giro qualche contributo, dato che
gran parte dei fucini dovevamo ospitarli gratis. Dalla curia
generalizia dei gesuiti ricevemmo un riscontro, di grande
condivisione per l’iniziativa e per i temi programmati,
accompagnato dall’annuncio che per la buona riuscita sarebbero
state celebrate cento messe. Il Congresso, nonostante le enormi
difficoltà belliche, andò benissimo. L’insegnamento che l’uomo
non vive di solo pane colpì molto me e tutta la presidenza.
Tra i grandi sommovimenti del dopoguerra vi fu anche la bufera
interna della Compagnia. Correnti profonde di rinnovamento
ecclesiale movimentarono la Chiesa in molte regioni del mondo.
Impulsi contrapposti si incrociarono, nel tentativo di arginare
sia le correnti dissacranti del comunismo internazionale, sia
l’aridità spirituale di una società capitalista sempre più
disumana.
Truppe scelte per le battaglie di Dio, i gesuiti risentirono più
di altri della congiuntura. Si imponeva loro di adottare
innovazioni effettive, ma senza compromettere le linee maestre
della tradizione.
Se nell’America Latina si scatenarono entro la Chiesa i
cosiddetti movimenti di liberazione, simboleggiati
congiuntamente dal Vangelo e dal fucile, un po’ dovunque
fermenti molto intensi scossero le situazioni mettendo in crisi
specialmente i soggetti più deboli e provocando dolorose
fuoriuscite.
Caratteristica della Compagnia è la fedeltà indiscussa al Papa.
Forte era ancora l’eco del caso Billot, con la conclusione della
rinuncia alla porpora del gesuita francese simpatizzante per
l’Action Française contro l’avviso della Santa Sede. Questa
volta non erano però così isolati, ma la richiesta molto diffusa,
specie nei padri più giovani, di ridiscutere anche i punti fermi
essenziali della preparazione e dell’apostolato nella Compagnia.

Il funerale di padre Arrupe il 9 febbraio 1991. Sono
riconoscibili il cardinale Carlo Maria Martini, padre Peter-Hans
Kolvenbach e Giulio Andreotti
L’elezione a generale del padre Arrupe dette vita ad una svolta.
Formato nell’esperienza giapponese già atipica ma assolutamente
unica per le vicende tragiche dell’olocausto nucleare, questo
gesuita poteva pilotare la Compagnia verso un forte rinnovamento,
ma nella continuità dei punti fermi voluti dal fondatore. Doveva
combattere su due fronti: l’inquieta spinta dei giovani e i
continui, duri richiami da parte vaticana.
Ho già accennato altrove a colloqui con il padre Arrupe nella
mia abitazione, dalla quale si vede dall’altra parte del fiume
la statua del Cristo sovrastante la curia generalizia.
L’occasione immediata delle riservate visite erano alcuni
problemi particolari della Compagnia da affrontare senza la
rigidità dei rapporti formali Chiesa-Stato. Ma forse non
dispiaceva al padre di potersi sfogare senza rischi di
indiscrezioni e con una intuita comprensione del suo dramma.
Più tardi sempre in casa mia ebbi modo di conoscere da vicino
una delle crisi personali che tanto angosciavano il padre
generale. Ad un gruppo di ragazzi, amici dei miei figli, era
aggregato uno meno giovane di loro, vestito sempre in jeans e
maglioncino. Seppi che era un importante gesuita brasiliano ed
ero incoscientemente lieto di sapere che vi fosse un assistente
ecclesiastico nella comitiva. Un giorno i miei figli mi dissero
che il “padre” aveva detto loro che la Chiesa non era più quella
affascinante di un tempo; e lui per così dire abbandonava la
veste, perché non gliela avevo mai vista indossare. Forse feci
male, ma commentai rievocando quel che diceva Pio XI dinanzi
alle crisi dei sacerdoti: «Come si chiama la signora?». I
ragazzi si scandalizzarono, ma, mogi mogi, pochi mesi dopo mi
dissero che il padre si sposava.
Sarebbe stolto attribuire la grande crisi che fronteggiò padre
Arrupe con un problema di ragazze. Vi era un turbamento diffuso,
culturale e sociale, verso il quale occorreva comprensione e
rispetto. Non era possibile fustigare uomini che con fedeltà e
sacrificio si erano formati e avevano lavorato per molti anni al
servizio di Dio. Occorreva prudenza, moderazione, fiducia.
...Il padre generale Wernz replicò con una appassionata missiva
il 13 luglio 1914 ma non ebbe riscontro. Pio X morì il 20 agosto;
poche ore prima il padre Wernz lo precedette nel mondo migliore.
Sic transit gloria mundi
Questa, dal mio piccolo angolo personale, l’esperienza vissuta
dal padre Arrupe, dinanzi alla tomba del quale, nella chiesa del
Gesù, mi fermo qualche volta a riflettere e a pregare.
Tra le giornate più sofferte della sua vita vi fu quella nella
quale dovette dar lettura del severo richiamo che, pur nel suo
brevissimo pontificato, Giovanni Paolo I aveva indirizzato
all’Ordine perché i padri «non si sostituissero ai laici
trascurando il proprio dovere specifico dell’evangelizzazione».
Il 7 agosto 1981, al rientro da un viaggio in Estremo Oriente,
padre Arrupe, colpito da un ictus cerebrale, designava vicario
generale l’americano padre O’Keefe, un libero pensatore del
momento (pessima una sua intervista ad un giornale olandese). Ma
intervenne il Papa con la nomina del padre Dezza (più tardi
cardinale) a delegato speciale, incaricato di predisporre la
congregazione generale, convocata per il 2 settembre 1981. Il
giorno successivo venivano accettate le dimissioni del padre
Arrupe ed eletto al suo posto il padre Peter-Hans Kolvenbach,
tuttora alla testa della Compagnia.
Certamente sono stati anni di grande bufera quelli sofferti in
diciotto anni a borgo Santo Spirito dal padre Arrupe che morì
nel 1991. Ma anche il suo successore non ha avuto vita sempre
facile con il Vaticano. Padre Martina lo illustra in modo
efficace pur se alcuni dissensi non sono facili a comprendersi
all’esterno (come l’opposizione alla generalizzazione del quarto
voto, quello speciale dell’obbedienza al papa).
Forte sottolineatura nel saggio del padre Martina viene data
alla nomina ad arcivescovo di Milano del cardinale Carlo Maria
Martini, rievocandosi l’unico precedente di diocesi italiana
affidata ad un gesuita (Boetto a Genova durante la guerra). Di
Martini sono giustamente messe in luce le grandi doti anche di
biblista in relazione all’attualità sofferta della Terra Santa.
Nella carrellata su centosessantanove anni di movimentata vita
dei gesuiti in Italia mi ha colpito un episodio. Il giorno di
Natale del 1913 il Papa inviava una lettera nella quale subito
dopo il riconoscimento dei meriti secolari ammoniva la Compagnia
a «tenersi lontana dal contagio pestilenziale del mondo» e ad
evitare «uno spirito mondano, una leggerezza negli animi, lo
studio di temerarie novità».
Il padre generale Wernz replicò con una appassionata missiva il
13 luglio 1914 ma non ebbe riscontro. Pio X morì il 20 agosto;
poche ore prima il padre Wernz lo precedette nel mondo migliore.
Sic transit gloria mundi.
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