Parte prima - capitolo 2°
BAB BAHR
L'automobile
scorre
docile
mentre
la
strada
s'infila
fra
mare
e alberi.
Gelsi,
eucalipti,
pini,
abbracciati
alla
salsedine
passeggiano
sul
Mediterraneo:
lo
stesso
profumo
attraversa
il
Ponte
di
Gàlata
a
Istànbul,
si
attarda
per
le
Ramblas
di
Barcellona,
entra
prepotente
dentro
la
nostra
macchina.
Qualcuno
ha
aperto
il
finestrino
per
mettere
fuori
il
gomito
destro,
il
braccio
sinistro disteso sullo
schienale
del
sedile,
volta
leggermente
il viso indietro:
è
mio
zio.
Propone di andare
a
vedere la
casa dove sono nati,
lui
e
mio padre, nella
Città
Vecchia. Non è cosa di
tutti
i
giorni,
anzi
a
me
non
era
mai
successo
di
lasciare
di notte
la
parte
europea
della
città:
capisco
che sarà
una
serata
memorabile.
Ever,
così
si
chiama
mio
zio,
ha iniziato
a
muovere
le
parole.
Il
vento
gli
ha
suggerito
una
storia,
ma
sono
sicuro
che è
solo
un frammento
degli
spazi esplorati
poco prima sulla
scogliera, e lo farò mio,
come ogni parola
che dona. Raccontare
sembra la
sua
vocazione:
sobrietà e proprietà
di
linguaggio
sono
sostenuti
da
gesti
eleganti
e
un
sorriso affascinante;
dei particolari
coglie
l'essenza
e
ne offre singolari
angolature.
La
babele
dei caratteri
s'intreccia
con
la
pluralità
delle
lingue,
ne
risultano
affreschi
di
umanità
confusa
a diverse
latitudini.
Non
sembra
immerso in
ciò che dice,
anzi
manifesta
un
certo
distacco come non fosse il suo il
racconto che
offre: il coinvolgimento
risulta
facile,
immediato. Tesse la
trama
di
un
lessico
familiare
esclusivo,
destinato
ormai
all'estinzione,
mischiando
italiano
e
ladino,
il nostro
spagnolo
arcaico.
Cacciati
dalla
Santa
Inquisizione
cinquecento
anni
fa,
ci
consideriamo
spagnoli
veri,
da
non
confondere
con i
moderni
abitanti
iberici:
portoghesi,
castigliani,
catalani,
andalusi,
baschi.
Non
tolleriamo
che
abbiano
diviso
la
terra
e
disperso
la lingua,
la
stessa che ci ostiniamo
a
conservare
quasi intatta,
inquinata
solo da pochi
termini
presi in
prestito
lungo i
secoli.
La
si
può
sentire
a
Istànbul,
Smirne,
Sofia,
Salonicco,
Rodi,
Sarajevo.
A Budapest contende la supremazia allo
yiddish
degli
ashkenazim;
nelle
terre
d'Africa
e di Palestina
ci
distingue
dagli
altri
ebrei
a
torto
considerati
sefardìm,
cioè
spagnoli:
loro
parlano
arabo.
Anche
mio
zio
mischia un
po'
di
arabo
con
il
nostro
djudeo
espanyol
mentre
la
strada costiera orientale,
diventata
il
lungomare orgoglio
della
città,
ci conduce
verso
la meta.
Arriviamo
di
fronte
alla piccola
e possente
fortezza
turca, il
Castello, da dove
per secoli cannoni forgiati da artigiani
sefarditi
hanno
difeso
sovrani
musulmani.
Ora, pacifico, non fa paura
a
nessuno:
in piedi sul mare è
l'ingresso più suggestivo per
la Città Vecchia e
il lungomare
che
lo attraversa diventa
improvvisamente
l'antica
Via
dei
Bastioni.
 |
Tripoli - Lungomare
Bastioni |
Scendiamo
dalla macchina,
e
mi
guardo
attorno.
Istànbul
dev' essere
fatta così:
oriente e
occidente
non
si distinguono,
così come
il
passato
e
il presente.
È
strano:
in
certi posti i giorni
e i
luoghi
appaiono
così
indefiniti
da
essere
mille
combinazioni
in più.
E
se le
combinazioni
sono
più
di
mille,
più di
mille
sono
le
vite
che puoi
immaginare
di
vivere,
che
puoi
tentare
di
vivere.
Devo considerare
tutto al plurale:
il
tempo
e
lo spazio,
le
lingue che ascolto
a
casa
e
a
scuola; i canti, le preghiere,
i
proverbi;
le storie
e le palàvras
mankas,
le
cattive
parole.
Questo
significa
che
devo classificare
le cose
che
sento,
per ordine di
verità,
di
importanza,
di divertimento.
I
racconti
degli
adulti sono
contraddittori,
non
che
mentano,
ma spesso non
sanno quel
che dicono:
dimenticano
informazioni
e
negano i
loro stessi
princìpi.
Per questo mi piace
ascoltare
mio
zio
che,
spudoratamente
bugiardo, come
tutti gli affabulatori
piega
la realtà
e
mi
costringe ad aggiustare
le sue verità,
a
scegliere fra
le
sue ambiguità, a tradurre lingue e
bugie.
E poi lui,
sempre,
sa
cosa
pensa
la
gente.
Una volta me l'ha
pure spiegato:
non è
che
legga
nelle loro
menti,
semplicemente
conosce le
loro bugie,
perché lui,
le
bugie, le
conosce tutte.
Mio padre
inizia
a
camminare
e
noi
lo
seguiamo
compatti:
è
meglio
essere
prudenti,
ormai
sono
mesi
che
in Palestina
c'è
tensione
fra noi e
loro,
gli
arabi.
È una
delle
nostre
stranezze:
noi
spagnoli
-
ebrei
sì, ma
spagnoli
-
quando
si parla
di
Palestina
o
di
Israele, siamo
semplicemente
ebrei.
E la Città Vecchia è già
Palestina,
una
convivenza
secolare
minata da
un
conflitto
moderno;
nella
parte
europea della città la
tensione
è
tenue,
ma
nelle
stradine
che stiamo
per
annusare
cova l'odio.
È incerto
se proseguire
ma è
tentato
di
superare
quella
porta,
Bab
el
Bahr,
la Porta del
Mare: mio padre guarda
suo
fratello in cerca
di conferme, non
c'è
mia
madre e
quindi
oseremo.
Affacciarsi
è
già
un' emozione,
perché
la storia
del
Mediterraneo, condensata e
stratifìcata,
è
davanti
a
noi: l'Arco
di
Marco Aurelio
si impone
sulle
botteghe
che riposano
chiuse.
Più
dietro
il
minareto della
moschea
di
Gurgi sembra
alto
ma mi accorgo che sono le
case
ad
essere basse,
hanno un
solo piano rialzato,
a volte
due
se la
famiglia
che ci
abita
è
importante.
 |
Tripoli - L'Arco di
Marco Aurelio, più distante il minareto
della Moschea Gurgi |
Le chiamano
case
all'araba
ma in realtà
sono uguali
a
quelle
degli antichi
romani:
di forma quadrilatera,
solitamente
con un
porticato su almeno
tre
lati
di un piccolo
cortile
interno,
sul
quale
si affacciano tante
stanze.
«Se
ci
vive dentro una
sola famiglia»
spiega
mio padre
«o è ricca
o è
molto
numerosa;
se
ci
vivono
molte
famiglie
sono
certamente
povere,
ma di
norma
ci
abitano
due
famiglie
divise una per piano».
«Fino
al
1945
spesso erano
coabitazioni
miste
di
famiglie
arabe ed ebraiche,
ma
già allora gli
ebrei benestanti
vivevano
nella
parte europea».
Sono
cose che già conosco,
raccontate
cento e
più
volte da mia madre.
I
pogrom
del
1945
e
del 1948,
che
hanno
vuotato
quasi
completamente
la Città
Vecchia
della
presenza
ebraica,
hanno
avuto
il
loro sanguinoso
esito anche
grazie
a
questa promiscuità.
Pensieri
inquietanti,
ma
seguo
gli
adulti.
Lì,
dietro l'arco,
inizia
una via
di confine, Shara
el Kuàsh,
la
via dei
fornai
arabi,
oltre
la
quale
inizia la Hara,
la
zona
esclusivamente
ebraica.
Fino al
1949
in quasi tutti
i
quartieri
della
Città Vecchia convivevano, confuse
tra loro, tutte le comunità più antiche
della città,
tranne
che nella
Hara,
che
in arabo classico
vuol
dire quartiere: uno
dei
nomi che nel grande
Islàm
si davano alle zone riservate agli
ebrei. Non c'erano
muri
o
cancelli di
separazione,
come nei ghetti
europei,
l'invisibile
linea di
demarcazione
era segnata dal diverso
stile di vita. La zona ebraica,
così
grande
da dividersi in tre differenti
quartieri, Hara
El Kbira,
la
Grande,
Hara Al Wèstia,
di Mezzo, Hara Sgira,
la
Piccola, era affollata e
colorata. Le
donne
in
abiti
dalle
tinte forti e appariscenti
giravano
libere, spesso
mostrando i capelli.
Ma
mio padre
non
è
nato là,
e
volta
per
una
strada
che
sembra
conoscere
bene.
È
strano vederlo
camminare
tranquillo
nei
suoi abiti
europei in strade
fatte per caftani
e
barracani;
parlotta
da solo,
si volta, bisogna
fare
in fretta.
Sembra facile
la
strada che calpestiamo,
ma
è
merito di un
fantasma suo amico: già negli anni difficili lo scortava
tutte
le notti fino
casa. No,
non
credo
alle
superstizioni,
roba
da
primitivi,
ma
questa
sera mio padre
parlotta
davvero,
e
mio
zio assiste
indifferente.
Shara
Arba Arsàt!
Piazza
Quattro
Colonne,
la
riconosco:
fra
il
Monastìr,
il monastero
greco, e Santa Maria degli Angeli,
la chiesa
dei
maltesi.
 |
Tripoli - Santa Maria
degli Angeli |
Qui c'era
la bottega
del nonno,
tessuti,
merceria
e
pochi
soldi. Infatti
le donne della
Città Vecchia
compravano
i
tessuti
importanti
nel
bazar dei
Barki,
spagnoli
di Smirne,
ma per
le cose meno impegnative,
fili,
nastri,
tele da lavoro,
andavano
da Hayìm:
pochi
soldi
per poter
guardare
quell'uomo
così bello
e
così
dolce.
Il mito
familiare
lo
dipinge
bellissimo
e pensatore.
Seduto
appena
fuori
della
bottega,
spendeva
gran
parte
del
suo tempo
a
discutere
con i
religiosi
del Monastìr
greco,
fumatori
incalliti,
filosofi
improvvisati,
umanisti
per vocazione.
Ma il
fascino
del dialogo,
dell'incontro
con l'altro,
urta
con la prudenza degli
adulti:
il
troppo
silenzio
consiglia
di
allungare
il
passo,
forse anche
il
fantasma
teme
i
tempi moderni.
Cambiamo rotta,
sfioriamo
Suq
el
Turk,
il più
importante
fra
tutti
i
mercati,
puntiamo
verso
i bastioni.
 |
Tripoli - Sul el Turk |
La
passeggiata
è
finita
con qualche
brivido,
la
Città Vecchia
non
è
più
la
stessa,
trentamila
ebrei
l'hanno
dovuta lasciare
per
cercare
altrove un po'
di sicurezza.
Presto
saliamo
in
automobile
e
usciamo
per
un'altra
via
che,
un
po' sbieca,
torna
indietro
affiancando
il
Castello:
in
un
minuto
siamo
fuori
le
mura,
in
Piazza
Italia,
antica
Suq
el
Hobsa,
Mercato
del
Pane
ora
divenuta
Maidàn
Ashuhàda,
Piazza
dei
Martiri.
 |
Tripoli - Piazza Italia
e le sue diramazioni |
Da
lì
partono
a
raggiera
cinque
strade.
La città
moderna
è
stata
costruita
con
sapienza
umbertina,
ordinando e rinominando
antiche strade come Shara el Wadi, Via del
Fiume, così chiamata perchè ciclicamente
inondata
dal
fiume Mejenìn,
o
come
l'antica
Shara
el Garbi,
Strada
d'Occidente,
poi ribattezzata
Corso Sicilia
e
ora intestata all'eroe
della lotta per
l'indipendenza
Omàr
el Muktàr.
Conosco
bene
la sua storia, me
l'ha
insegnata
a
scuola
la maestra di
arabo.
 |
Tripoli - Corso Sicilia |
|