La stanza  di Giorgio Vindigni

Giorgio Vindigni

 

"IL RITORNO"

(1922-1947)

 

di Giorgio Vindigni

Edizioni HELICON

 

“Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon”.

Erano i versi di un canto che dava speranza a tanti Italiani, la maggior parte precari o reduci dalla prima guerra mondiale (1915-1918) che, in cerca di fortuna, si avventuravano nel credo politico del momento, inteso a formare del Regno d’Italia un Impero coloniale. Erano gli anni venti.

L’Inghilterra, la Francia, la Spagna, il Portogallo, il Belgio, l’Olanda, quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale godevano già da qualche tempo di quest’espansione territoriale nei vari Continenti: Africa, America del Sud, medio ed estremo Oriente.

Tali conquiste, motivate da uno spirito di civilizzazione delle terre lontane, mirarono a espansioni territoriali e a un ritorno, in termini economici, con lo sfruttamento agricolo, forestale e minerario che promosse in Europa il commercio di tè, spezie, oro, diamanti. Queste terre occupate funzionarono da testa di ponte per altre conquiste.

Lo scopo, in un certo qual senso, fu raggiunto. I popoli, assoggettati già nel seicento e nel settecento, avevano assorbito lentamente la civilizzazione europea al punto che alcuni indigeni divennero, in tempi più recenti, cittadini europei. I colonizzatori seppero sfruttare quelle terre conquistate, anche a costo di vite umane. Esse furono falciate sia dalle popolazioni autoctone sia dai Pirati che all’epoca, seguendo le rotte dei velieri commerciali e militari, ne razziavano le merci o addirittura le stesse navi.

Stessa cosa si era prefissata l’Italia mussoliniana, fascista, nello stringere patti d’alleanza con la Germania hitleriana, nazista. Già nel 1912 aveva conquistato la Libia, occupando la Tripolitania e la Cirenaica, che da alcuni secoli era sotto l’Impero turco, iniziando quella espansione territoriale che l’avrebbe portata a diventare un impero coloniale.

 

“Tripoli sarai italiana, sarai italiana al rombo del cannon”.Al “... bel suol d’amore”, seguiva la strofa “sarai italiana al rombo del cannon”. Una conquista, quindi, non motivata da principi umanitari e di civilizzazione, bensì di sudditanza, di sottomissione e d’incorporazione della Libia, denominata in seguito “quarta sponda”. Migliaia di giovani italiani ricevettero la “Cartolina precetto”, altri chiesero di partire volontari per conquistare altre terre da annettere alla Patria e garantirle il nome di “Impero”. Il Duce fu la loro guida; la sua parola li entusiasmava. Madri, mogli e figli piangevano alla partenza dei convogli o delle navi che portavano i loro giovani eroi verso terre lontane: l’Africa, la Russia, l’Albania. A migliaia morirono sui campi di battaglia; le loro lacerazioni furono imbrattate dalla sabbia del deserto in Africa, mentre il sangue dei feriti e dei moribondi formava pozzanghere vermiglie sulla candida neve di Russia. Decine di migliaia di giovani non fecero più ritorno alle loro case; i volti dei loro congiunti erano cosparsi di lacrime per una morte così assurda.

Vedove, promesse spose, orfani, e anziani genitori si videro privare del proprio unico bene. Come in ogni guerra si assistette a scene d’orrore e punizioni per i ribelli. Molti musulmani eminenti e oppositori furono catturati e resi innocui. Accadde, come in tutte le guerre, che i conquistatori furono motivati da ragioni di padronanza e di libero arbitrio, fino a quando la razionalità e il motivo principale della conquista non prevalsero e ripristinato l’ordine e la legalità.

I primi coloni giunsero dal Veneto, poi da altre regioni italiane, e dalle vicine colonie francesi dove molti di loro si erano in precedenza stabiliti, portando esperienze artigianali e professionali diverse. A molti furono affidati ettari di terreno denominati “concessioni”, poiché si trattava d’appezzamenti provenienti da occupazione bellica, e quindi sotto la tutela del Governo  italiano; terreni che in seguito furono trasferiti di proprietà a coloro che li avevano riscattati con il proprio lavoro. Erano estensioni sabbiose, più o meno ampie, prive di coltivazioni e di acqua. I Coloni italiani furono persone coraggiose che, con le loro famiglie, incominciarono a trivellare pozzi, per fornirsi di acqua, costruendo alti tralicci di ferro sormontati da una grande ruota elicoidale che, azionata dal vento, dava energia a una pompa sommersa; erano i “pozzi artesiani”. L’acqua sgorgava in superficie ed era avviata in grosse vasche di raccolta, in cemento, capaci di contenerne ettolitri. Essa serviva sia per irrigare i campi, che per trovare refrigerio dalla calura nelle calde estati, cui la maggior parte di loro non era assuefatta, con l’immersione saltuaria a uso piscina.

Con gli aiuti economici e tecnici dello Stato italiano, essi costruirono interi villaggi. Sorsero abitazioni ampie a seconda delle esigenze familiari, depositi, ripari per il bestiame; quei contadini trasformarono, in pochi anni, tutta la striscia costiera libica in un giardino lussureggiante.

..quei contadini trasformarono, in pochi anni, tutta la striscia costiera libica in un giardino lussureggiante...

Orti, uliveti, palmeti, il grano maturava al sole caldo e i frutteti si espandevano in tutte le zone. Le arance, i mandarini, i limoni e agrumi in genere, le albicocche, l’uva, le prugne, i cocomeri e i meloni, e poi le fragole, i gelsi, i datteri e le banane, tutta frutta bisognosa di sole e calore aveva trovato in quelle “concessioni” il suo “habitat” naturale; il profumo e il sapore di quella frutta maturata sulle piante rimarrà solo un lontano piacevole ricordo. I lembi di spiagge lungo le coste furono bonificati e resi abitabili, trasformati in pontili, panchine, bastioni. Nelle insenature naturali sorsero porti ampliati artificialmente. Strade costiere collegarono le varie cittadine e villaggi ai due principali capoluoghi. I giardini cominciarono a espandersi lungo le coste, verso le città, con fontane e piccoli monumenti, alberi da ombra che emanavano frescura per i passanti e le mamme che passeggiavano con le carrozzine dei propri bambini. Palazzine, ville, chiese, banche, attività commerciali e finanziarie sorsero nel giro di pochi lustri; furono costruiti cinema, teatri e persino un Casinò. Furono anni d’intenso fermento e lavoro. Dalla sabbia del deserto emersero, quali fantasmi tornati a vivere, antiche città romane come Leptis Magna, con i suoi templi dedicati agli dei, e Sabratha, dove primeggia l’anfiteatro greco-romano,

Leptis Magna
Sabratha

 

 nei pressi delle quali furono costruiti musei per la raccolta dei reperti archeologici trovati anche nei dintorni. Iniziarono i lavori di bonifica, nonché opere di ristrutturazione e sviluppo delle città, con particolare riferimento a Tripoli e Bengasi, perché capoluoghi delle due Regioni, Tripolitania e Cirenaica, e di costruzione di altri villaggi per ospitare i nuovi colonizzatori.

L’insediamento italiano dovette tuttavia fronteggiare la resistenza locale culminata, nel 1923, nella rivolta della famiglia dei Senussi, eminenti musulmani impegnati nell’opera di proselitismo islamico indipendentista contro gli invasori, con spargimento di sangue da ambo le parti.

In oltre vent’anni gli Italiani trasformarono il volto della Libia in fiorenti città e rigogliosi giardini.

La seconda guerra mondiale (1940-1945) diede ragione alle truppe britanniche che occuparono la Libia. Nel 1952 l’Inghilterra, dopo le continue rivolte indigene, concedette l’indipendenza a tutta la Regione. Nacque la monarchia del Regno Unito di Libia con l’investitura a Sovrano del Senussi Re Idris 1°.

...Nacque la monarchia del Regno Unito di Libia con l’investitura a Sovrano del Senussi Re Idris 1°...

 

Tale evento vanificò le conquiste effettuate e i risultati raggiunti con il sacrificio di decine di migliaia di giovani Italiani deceduti per la gloria della Patria, obbedienti al motto fascista Credere, Obbedire, Combattere”. Un Ufficiale dell’Esercito britannico, dopo alcuni anni d’occupazione e protettorato, ebbe a criticare gli sforzi dell’Italia nella costruzione di uno Stato con città, giardini e fertili campagne. Aggiunse che le conquiste servono per sfruttare le colonie, non per renderle ricche ed edotte nel progresso. Essi sfruttarono ciò che in Libia cresceva spontaneamente, lo sparto, una pianta erbacea delle Graminacee con lunghe foglie giunchiformi, dalle quali si ricavava una fibra usata per cordami e nella fabbricazione della cellulosa per carta.

Gli Inglesi continuarono soltanto nella strutturazione anagrafica degli autoctoni, già avviata dagli Italiani, per avere anche un miglior controllo sui cittadini. La maggior parte di loro, infatti, non conosceva la propria data di nascita che faceva coincidere con avvenimenti naturali o bellici.

Il 29 ottobre 1922 alle ore 12.55, Il Re Vittorio Emanuele III affidava incarico a Mussolini di formare il nuovo Governo.

 

...Il 29 ottobre 1922 alle ore 12.55, Il Re Vittorio Emanuele III affidava incarico a Mussolini di formare il nuovo Governo....

 

Tra le sue ambizioni vi era quella della creazione di un Impero che portasse l’Italia a essere una Nazione importante e rispettata. La Libia fu il suo primo obiettivo verso il quale furono incanalati investimenti d’uomini e mezzi. Poi sarebbe stata la volta dell’Etiopia, dell’Egitto e così via.

L’Italia era quindi in fermento e gli Italiani fecero affidamento nel programma presentato dal Fascismo; conquiste volevano significare lavoro e benessere per tutti.

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…..Dopo circa quattro anni in ferrovia, durante i quali era stato allietato dalla nascita di Assunta, giunse voce ad Antonio della richiesta di lavoratori volontari” per l’Africa italiana. Ritenne tale evento una mossa audace da intraprendere, rischiosa, ma nel frattempo allettante per mirare a un futuro migliore. Ebbe dei dubbi; con la moglie e due bambini verso l’ignoto, di del mare, in terra africana. Ne parlò con la consorte, ma dovette decidere da solo, come sempre. Lasciò il lavoro presso le Ferrovie e, fiducioso nell’aiuto dell’Onnipotente, decise di partire per la Tripolitania dove, come auspicato, l’avrebbe atteso migliore fortuna.  Uno dei più grandi teatri, il Miramare, distrutto poi durante la seconda guerra mondiale, era in costruzione proprio nel 1928 sul lungomare di Tripoli, dirimpetto al castello medievale dedicato a San Giorgio. Fu in questo contesto che fu offerto ad Antonio il suo primo lavoro; quello cioè di collaborare alla costruzione di quel gran teatro dalla vista sul mare. Lavoro pesante per lui, non più abituato a fatiche fisiche. A casa lo attendevano la moglie e due bambini presso una modesta abitazione. Furono situazioni difficili; le ore di lavoro giornaliere non avevano limite; le attività andavano sviluppandosi e c’era bisogno dappertutto di personale. Finita la sua attività quotidiana al Miramare, continuava la giornata lavorativa con altri impegni. Fu così che iniziò a mettere da parte qualche risparmio.

Oltre quaranta gradi all’ombra affaticavano il fisico più di quanto normalmente accadeva in Sicilia.

Le giornate peggiori le viveva però quando iniziava quel vento che proveniva dal deserto, il ghibli. L’aria si tingeva di giallo; era la sabbia fina che il vento trasportava, invadendo anche le città costiere, dalle dune che cambiavano forma e locazione. Iniziato il suo percorso, non si arrestava prima di tre giorni e altrettante notti. Superato il quarto giorno senza essersi calmato, il vento proseguiva la sua corsa per altri tre giorni. La sabbia entrava nelle case attraverso le minime fessure degli infissi chiusi anche ermeticamente. I polmoni vivevano di quell’aria; spesso si lavorava mettendo un fazzoletto davanti la bocca e il naso, legandolo dietro la nuca.

Durante il periodo di “Ramadan”, il digiuno dei Musulmani, che durava un mese, durante il quale di giorno si digiunava e al tramonto si rompeva il digiuno fino a tarda notte, la fatica degli europei aumentava, non potendo essa gravare più di tanto su persone che si recavano al lavoro senza poter mangiare bere per tutto il giorno; la loro resa lavorativa era naturalmente più scarsa. Antonio attendeva, con ansia, il termine di tale periodo, per lavorare con più razionalità e meno fatica; la notte, infatti, non riusciva a prendere sonno fino a quando non terminava il vociare e il rumore dei tamburi che tenevano sveglie le persone anche fino all’alba.

Non tutto però andava per il verso giusto. Gli inconvenienti e i rischi fanno parte della vita e bisogna tenerne conto.

La giovane età gli dava forza ed energia, nonc la possibilità di sfruttare quel momento particolare di sviluppo dei territori occupati.

L’imprenditoria si sviluppò sempre di più e, di conseguenza, l’impiego della mano d’opera. Fu realizzato il lungomare di Tripoli e la litoranea che unì la Tunisia all’Egitto, attraverso tutta la costa libica.

Arco dei Fileni  - Una delle tappe della via Balbia lungo la a litoranea che univa la Tunisia all’Egitto, attraverso tutta la costa libica.

 

Il 18 marzo 1937 Mussolini ricevette la spada dell’Islam ad Ainzara e gli fu eretto un monumento dov’era raffigurato a cavallo con la spada sguainata, erta verso l’alto, a continuazione del saluto fascista, in piazza Castello. Egli promise di assicurare pace, giustizia e benessere ai popoli arabi della Libia e dell’Etiopia. La sua politica mirava, con la quarta sponda, all’egemonia nel Mediterraneo.

Le attività finanziarie e commerciali si andavano moltiplicando e le Banche aprivano sportelli per offrire il loro ruolo intermediatore del credito. In questa situazione Antonio vide realizzare il suo sogno; fare l’impiegato voleva significare una vita futura diversa, un orario di lavoro più consono, un’assistenza sicura alla propria famiglia.

 

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….Dopo circa due lustri, voleva tornare vincitore in quella terra che lo aveva visto tanto soffrire e lo aveva costretto a tante privazioni e umiliazioni, pur di portare alto il proprio nome e riscattare uno “status” migliore. Sognava già di rivedere quei luoghi che lo avevano visto crescere, sposarsi, avere i primi bambini; rincontrare amici d’infanzia, parenti, e soprattutto rivedere e riabbracciare le proprie sorelle.

Era il mese di maggio del 1940. La Contea di Modica era rimasta anche nel cuore di Antonio; egli volle quindi ritornare per rivivere il suo passato, confrontarlo al presente e rinsaldare le origini modicane nei propri figli. Nulla faceva prevedere ciò che di a pochi giorni sarebbe accaduto.

 

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…Qualche giorno prima di partire vennero invitati a pranzo da amici che abitavano al Consolo. All’improvviso una voce, che già da qualche tempo si udiva alla radio con una musica di sottofondo inneggiante a canti patriottici, annunciava l’entrata in guerra dell’Italia fascista, a fianco all’alleata Germania. Una guerra che si sarebbe potuto evitare se le conquiste effettuate avessero soddisfatto le mire espansionistiche del Duce.

...una voce che già da qualche tempo  annunciava l’entrata in guerra dell’Italia fascista.... (clicca sulla  foto e vedi il filmato)

 

 

……trascorsero sette lunghi anni con tante avventure e peripezie e lutti……….una famiglia smembrata dalla guerra………

 

La guerra era ormai finita, ma il problema profughi, tra le tante ferite che affliggevano l’Italia, non era certo al primo posto. La nuova Repubblica democratica dovette affrontare le diatribe politiche nascenti, cercare un collaborazionismo economico da parte degli Stati alleati che l’avevano liberata sì dal regime dittatoriale fascista e dall’occupazione nazista, ma che avrebbero dovuto ora aiutarla a risorgere dalla distruzione che la guerra, quale mostro scatenato, aveva provocato.

Il coraggio di un popolo straziato per la perdita dei propri cari e disperato per aver perso tutto durante i bombardamenti, riuscì a far riemergere quell’amore patriottico che lo aveva già provato nella prima guerra mondiale.

Allora furono più i morti che le distruzioni; quest’ultima fu una guerra disastrosa sotto tutti i punti di vista. I nuovi uomini politici venivano da un esilio sofferto, durante il quale avevano maturato la volontà per riportare gli Italiani a risorgere dai lutti funesti e dalle rovine in tempi rapidi. Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi

...Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi...
(clicca sulla foto e guarda il filmato)

 

iniziò ad affrontare subito le varie problematiche di natura commerciale e industriale oltre che politica, che distinsero l’Italia per la sua rapida ricostruzione tra i Paesi europei.

Nel 1947 fu programmato anche il rientro nelle proprie case dei profughi dalla Libia.

…….Il viaggio fino a Napoli fu lungo e faticoso…..si fermarono una settimana…in

 attesa della nave…………….

 

Il giorno programmato per la partenza, furono svegliati all’alba per avere il tempo di prepararsi a partire. Si misero in fila con la loro valigia di legno, legata con una corda, e si avviarono verso la nave della salvezza.

Finalmente partirono. Il quinto giorno la razione di vitto aumentò, la carne fu distribuita, cucinata anche con pezzi di ossa da poter spolpare. Il viaggio stava per finire e i frigoriferi sarebbero stati forniti di alimenti freschi prima della partenza per il ritorno in Patria. Era saggio, quindi, non gettare in mare i resti ma abbondare nelle razioni.

Il sesto giorno qualcuno urlò Terra in vista” e una linea giallastra si veniva delineando all’orizzonte; era il grande ed esteso deserto libico. Man mano che l’imbarcazione avanzava essa diventava sempre più spessa. Poco a poco, ma già a ore di distanza del primo avvistamento, si cominciava a delineare la costa, poi il porto, indi le piante del lungomare e le palazzine di Tripoli. Tutti erano saliti sopra coperta, a prua e ai lati dell’imbarcazione, per accertarsi, quasi increduli di essere giunti alla destinazione finale. Entrata nel porto al tramonto, la nave fu affiancata da un rimorchiatore; il Pilota salì sul “Campidoglio” e si diresse per sostituire il Capitano e dirigere la nave al centro del porto dove venne ancorata in quarantena.

Erano giunti a Tripoli. Li accolsero il castello e il lungomare illuminati. 

...Li accolsero il castello e il lungomare illuminati...

 

Fu una grande festa sulla nave. Vitto a volontà da svuotare i frigoriferi e il forno; si cominciavano ad avvertire i flussi del benessere dopo tante sofferenze e privazioni. Il caldo umido africano sfiorava la pelle e faceva vagare nei vecchi ricordi, in tutto ciò che era accaduto prima degli eventi bellici, al benessere che molti di loro avevano raggiunto e del quale erano stati, fino a quel giorno, privati. Alcuni rimasero svegli sopra coperta fino a notte inoltrata, per gustare le luci e i rumori che provenivano dalla terra ferma, ormai dimenticati. I Muezzin cantilenavano preghiere dall’alto dei minareti, invitando i fedeli mussulmani al raccoglimento. A terra, nelle proprie case, avrebbero fatto una grande festa; alcuni di loro già programmarono come, quando e dove incontrarsi. Avrebbero preparato e mangiato il Cuscus, alimento naturale per gli indigeni, ma preparato nelle speciali ricorrenze dagli Italiani. Essi lo condivano con gli stessi elementi e usavano lo stesso procedimento, la zucca rossa, i ceci, l’uovo sodo, le carote, la salsa di pomodoro; l’unica differenza era nell’uso dell’agnello, prelibatezze di quella pietanza. Il sonno prese quindi il sopravvento e andarono a dormire tranquilli, pensando a quello che sarebbe successo il giorno seguente. Un giorno di letizia e di felicità.

Il porto era cosparso di navi civili e da guerra affondate durante la battaglia aereo-navale, scatenata dagli Inglesi nella presa di Tripoli. Ferraglie ormai fuori uso molte delle quali già invase dalla ruggine. La prua di un caccia torpediniere sporgeva dalle onde a volersi quasi liberare dalla morsa dell’acqua che lo teneva prigioniero sul fondo marino.

Più in là si notavano le eliche di un’altra imbarcazione, dalla poppa del classico colore grigio delle navi da guerra. La carena in legno di un battello da pesca capovolto e altri relitti, sporgevano qua e là, in uno scenario impressionante che i passeggeri definirono “un cimitero di navi”. Ma quella vista così melanconica e triste, che richiamava le sofferenze patite, fu subito sviata verso il bel panorama che si presentava ai loro occhi. Quant’era bella Tripoli, con il suo lungomare e i bastioni, le due colonne, tipiche di San Marco a Venezia, sul molo Caramanli;

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...Quant’era bella Tripoli, con il suo lungomare e i bastioni, le due colonne, tipiche di San Marco a Venezia, sul molo Caramanli...

 

una era sormontata da una caravella e l’altra da una lupa. La prima raffigurava la città di Tripoli ed era con la prua rivolta verso la lupa, che la osservava dall’altra colonna e rappresentava Roma.

Maestoso si ergeva il Castello medievale San Giorgio, quindi una grande costruzione massiccia, coi muri ricoperti da mattoni color marrone, che ospitava la “Cassa di risparmio”. Uno zatterone in legno, con ai bordi dei pneumatici per non farlo urtare contro la panchina, sembrava attendere l’attracco del grosso mercantile nero, che proveniva da Napoli, carico non di merce bensì di esseri umani stanchi e speranzosi. Fu proprio su quest’ultimo che furono fatti scendere i passeggeri del “Campidoglio”. Sul molo attendevano alcuni automezzi militari inglesi, due Carabinieri italiani, che i nuovi occupanti avevano accorpato alla Polizia libica quali istruttori a termine, nonc la polizia locale, formata da uomini di colore in calzoncini corti per il caldo. Impressionanti erano i muscoli, prominenti dai polpacci e dalle braccia di uno di loro dalla pelle nera; la loro vista faceva quasi paura, eppure erano venuti per soccorrerli e farli scendere a terra.

 

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….con le palme, il maestoso Palazzo del Governatore,

 

...con le palme, il maestoso Palazzo del Governatore....

 

le vetture militari e civili, gli abitanti stranamente vestiti con pantaloni larghi dal cavallo basso, gilè molto ricamati, camicia bianca abbondante, indossata fuori dai pantaloni, un copricapo di panno rosso con un ornamento in seta nero, la “taghìa”, e delle ciabatte di pelle che terminavano a punta alta, tipo la prua di una piccola imbarcazione; suo compito era di evitare che la sabbia non inondasse il piede senza calze di protezione.

Vestivano quasi tutti nello stesso modo. Altri erano avvolti in un lenzuolo bianco di lana, il “barracano”. Le donne, se ne vedevano poche in giro, erano tutte coperte; non si vedeva neanche il viso, ma solo un occhio lasciato libero per guardare la strada. Giorgio si chiese come mai indossassero tali indumenti di lana col caldo afoso e umido che si respirava. Non sapeva ancora che i barracani bianchi, avvolti intorno al corpo degli indigeni, tenevano costante la temperatura corporea, proteggendoli dal sudore e dai raggi solari respinti dal colore chiaro. La carovana di camion si allontanò dal centro della città e si diresse verso la periferia. Fiancheggiò il lungo muro che racchiudeva i vari reparti dell’ospedale, poi un grande garage di autobus, quindi alcune case. Girò a destra per una salita, in cima alla quale si notò una piccola folla di persone; alcuni profughi riconobbero i parenti che erano venuti per accoglierli. Giorgio cercò di scrutare fra la gente, ma la lontananza e il movimento del camion, che nel frattempo curvava a destra, non gli permisero di riconoscere il proprio papà, nel caso si trovasse fra di loro. Attraversarono dei giardini e giunsero in un fabbricato dove si notò la presenza di alcuni militari inglesi e poliziotti libici; era un campo di raccolta profughi che già ospitava una colonia di Maltesi nei pressi delle mura della città.

Un prete francescano, padre Umile, si mise a disposizione di coloro che avevano più necessità d’aiuto. Si accostò loro per aiutare madre e figlia a portare la valigia rotta fino al luogo di raccolta, per il controllo dei documenti d’identificazione. Accarezzò la testa di Giorgio e si allontanò per continuare la sua opera di soccorso ad altri bisognosi della sua presenza.


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"LA STORIA CONTEMPORANEA RACCONTATA DA CHI L'HA VISSUTA"




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