Scrive
Ada Fonzi, professore emerito psicologia dello sviluppo,
in un suo articolo sul
mensile:
Messaggero di S. Antonio, dal titolo: “Eredità o ambiente”,
cosa influisce davvero sulla nostra vita? Questioni di
geni o fattori ambientali? Il dilemma al momento sembra
insolubile.
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La Prof.ssa Ada Fonzi |
Il Messaggero di
San'Antonio |
Lo sviluppo dell'uomo è un fenomeno cosi complesso
che neppure gli studi scientifici più raffinati possono fornire
una spiegazione definitiva. La professoressa Fonzi pone
parecchi interrogativi. Ce n'è uno che merita particolare
attenzione, quello che cerca di rispondere al quesito: se e
quanto il corso della nostra vita dipenda dal
patrimonio ereditario che abbiamo ricevuto da genitori e
antenati; e ancora , se e quanto l'ambiente in cui viviamo e
abbiamo vissuto, sia responsabile delle nostre caratteristiche,
abitudini e capacità. Scrive ancora la dottoressa Fonzi: lo
sviluppo dell'uomo è un fenomeno cosi complesso che neppure gli
studi scientifici più raffinati possono fornire una spiegazione
definitiva.
E' meglio allora, cercare pazientemente di
farsi un'idea di quale sia lo stato,
dell'arte in merito, consapevoli che eredità e ambiente
sono entrambi, a pari merito, gli artefici del nostro sviluppo.
Personalmente sono d'accordo pienamente con quest'ultima teoria,
inerente all'eredità e all'ambiente nel favorire la nostra
futura personalità comportamentale, sotto l'aspetto sociale,
morale, religioso, spiegandone il motivo.
Sono nato il 13 0ttobre 1953, a Tripoli,
capitale di un meraviglioso paese del Nord-Africa che è la Libia.
Ho vissuto lì per diciassette anni, l'intera infanzia e parte
della mia adolescenza, anni stupendi, indimenticabili, fino a
che, con un colpo di stato organizzato da militari, con tutta la
famiglia, fummo
cacciati in maniera drammatica. Siamo rimpatriati in Italia a bordo di una nave, con
la
Campania Felix, della compagnia Tirrenia, e
sbarcati nel porto di Napoli la mattina del
1 settembre 1970, esattamente un anno dopo il
colpo di
stato di Gheddafi. Sono nato da una famiglia di contadini,
che hanno avuto sempre degli operai arabi, con i quali vi ci è
sempre stato un grande affiatamento, sotto qualsiasi profilo.
Sono cresciuto fin dai primi giorni con i loro figli e tuttora
parlo bene l'arabo.
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La Campania Felix |
Il Colonnello Gheddafi
nel 1969 |
Quando mia madre mi partori' aveva talmente
tanto latte che contemporaneamente allattava anche una
neonata araba, la cui madre era carente di latte. Per gli arabi,
eravamo come fratelli , eravamo uniti quasi da un legame di
sangue. Crescevo a contatto di un clima e di una natura unica,
incontaminata, pulita, amica in tutti i sensi.
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Con mio padre e mia
madre |
Con Ibrahim, un nostro aiutante
libico |
La campagna
africana, con le
sue albe, il mare con i suoi tramonti, duemila chilometri di
coste incontaminate. Il deserto, oh, il deserto! Mi ci portava
mio padre quando andava a caccia, il suo silenzio che sapeva di
mistico, si percepiva la presenza di Dio in quell'infinito mare
di sabbia.
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Tripoli 1969-70.
Io con al collo una collana di tordi cacciati, e sulla
mia mano destra il Flobert |
Il deserto libico, ...
il mio deserto. |
Avevo la mia famiglia, ma avevo anche le famiglie
arabe che mi amavano ed io amavo loro, con quella spontaneità e
spiritualità orientale, fatta di saluti, ringraziamenti di ogni
tipo al buon Dio e benedizioni reciproche, anche per piccole
cose. I matrimoni che duravano una settimana, festeggiati con
gli arabi, purtroppo anche i funerali, le feste di circoncisione,
le sere del
digiuno del Ramadan con tutti gli odori di spezie e
aromi, che annunciavano la fine del digiuno giornaliero e si
poteva cenare, in un silenzio soprannaturale, irreale. Si',
frequentavo saltuariamente la città di Tripoli, ma solo per la
messa domenicale e altre feste religiose, la mia vita era la
terra, la campagna africana, con i miei amichetti arabi: Salem
dall'infanzia, Muktar e
suo fratello Fozi, Mabruk (Benedetto) e poi
Nagib (che
qualche tempo fa ho saputo morto in un incidente stradale, dai
punti molto oscuri,
probabilmente non concordava con la dittatura gheddafiana).
Paradossalmente il giorno dell'incidente tornava dall'isola di
Djerba dov'era stato a trovare suo fratello, fuggito dalla Libia,
perchè in disaccordo con la politica di Gheddafi.
Mi accompagnò, dalla prima elementare, fino alla terza
media, all'istituto dei Fratelli Cristiani della Salle, e dopo
all'istituto per geometri Guglielmo Marconi, fino all'abbandono
definitivo della Libia. All'età di tre anni avevo un operaio di
mio padre, di nome Ibrahim che mi scorazzava in bicicletta e con
una macchina Topolino,
nell'azienda che gestivamo a Sciara Sidi Kalifa.
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... All'età di tre anni avevo un operaio di
mio padre, di nome Ibrahim che mi scorazzava in bicicletta e con
una macchina
Topolino,
nell'azienda che
gestivamo a Sciara
Sidi Kalifa. ...
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Il nostro
passatempo preferito ad inizio adolescenza, erano
le nostre battute di caccia e i nostri giochi arabi: la
Kummesa, il gioco
delle cinque pietre, il
sultan- uazir, si giocava con due ciabatte infradito, la
zarbuta che era una
semplice trottola.
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Il gioco delle cinque
pietre |
La zarbuta |
Coloro che come me sono vissuti nelle
campagne di Tripoli in Libia, sanno di che gioco si tratta.
Sentivo crescere in quei momenti nel mio animo qualcosa di unico,
di emotivo, di
buono, di pulito, di sincero e spontaneo dentro di me, qualcosa
che mi appagava, mi accresceva interiormente e mi faceva stare
bene con la mia coscienza. Penso che se uno non ha niente dentro,
non troverà mai niente fuori, ciò che non è dentro, non è da
nessuna parte. Son convinto che quel “dentro” di
me, dal primo istante di vita, me lo abbia donato la vita
e natura africana
in Libia. Avevo
molti amici italiani in città, ma con gli amichetti arabi c'era
qualcosa di quasi
fraterno, trascorrevo moltissime ore con loro, ci legava la
nostra semplicità, l'umiltà, non mi vergogno anche la povertà,
però eravamo sereni, affettivamente pieni, contenti, felici di
ogni cosa che facevamo, insieme dividevamo tutto. Non esistevano
assolutamente nelle campagne le frasi: tu sei arabo, io italiano,
o tu credi in Allah e io in Gesù, credevamo in un unico Dio, di
amore e carità, ci aiutavamo reciprocamente in tutte le
situazioni anche le più difficili e pericolose. Rispettavamo i
loro santoni, i “
Marabutti “ asceti che vivevano di preghiera
ed elemosina ed erano considerati portatori di bene, di
positività, allontanando le forze negative delle persone. Loro
rispettavano la nostra religione con le nostre feste, ci
permettevano di fare le nostre Processioni religiose lungo le
strade di Tripoli
nel periodo pre-pasquale.
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Tripoli 1965 - La
Processione del Corpus Domini |
Spesso, tantissime volte, si preparava da mangiare tra di
noi in aperta campagna, dalla selvaggina cacciata, o pasta e
insalate che ci portavamo da casa e che poi preparavamo. Si
mangiava con le mani in un' unico grande piatto, dopo si beveva
lo shehi (thè arabo)
tutti con l'unico bicchierino, portato alle labbra con le
dita che lo sorreggevano in una determinata maniera, con la
punta del pollice e del mignolo. Era un rituale, una comunione
di gusti e sensi,
tutto formava il mio essere interiore, oltre che quello fisico,
grazie alla natura selvaggia dei luoghi.
Nelle campagne si faceva il bagno anche di notte nelle
immense vasche che servivano per irrigare i terreni, si andava
alla ricerca dei nidi, ci si arrampicava sulle piante più alte.
Tutto aumentava la nostra forza e riflessi in quella natura
africana e incontaminata. Sempre di più aumentava la mia
sensibilità per quelle persone e per quei luoghi, che hanno
contribuito in maniera determinante al mio sviluppo e crescita
emotiva, mentale, di valori sotto qualsiasi aspetto, da quello
morale, sociale e religioso. La comunità italiana in Libia era
un'intera famiglia, vincolati da un'amicizia sacra, di
fraternità, aiuto
reciproco, di sincerità e spontaneità. Tutti questi sentimenti,
furono ancor più
consolidati, con l'ultimo periodo drammatico trascorso li', dal
1 settembre 1969, con il colpo di stato militare che rovesciava
la monarchia, al decreto di espulsione di tutta la comunità da
parte di Gheddafi, con il discorso di confisca dei nostri beni,
il 21 luglio del 1970 nel campo sportivo, di una località
chiamata Zavia,
dandoci solo tempo sino alle prime due settimane di ottobre del
1970, per lasciare definitivamente la Libia. Come
precedentemente scritto,
con la mia famiglia ci imbarcammo al porto di Tripoli, il
29 agosto 1970. Tuttora a distanza di quarantaquattro anni, ai
nostri raduni che annualmente organizziamo, riviviamo quel clima
di solidarietà e amicizia che ci portavamo e portiamo ancora
adesso, nel nostro cuore. Ad ogni raduno ritorniamo con il
pensiero in Libia, l'animo è restato ancora quello di quegli
anni là. Spesso nel raccontare i ricordi di quel periodo,
talvolta delle
parole sono anche in lingua araba, ulteriore dimostrazione
dell'amore viscerale verso quel paese, è frequente che si vedano
le lacrime
scendere sul viso,
nel descrivere ciò che si provava e si prova ancora.
Perchè mi chiederete, tutto questo racconto? Per farvi
sapere che dopo quarantaquattro anni dal mio rientro dalla Libia,
dentro la mia anima, il mio cuore e la mia mente, ci sono ancora
tutti i diciassette anni trascorsi in Libia, che ancora mi
aiutano a vivere in maniera semplice, umile, credendo ancora
negli ideali imparati in quella terra africana, del rispetto per
noi stessi, per gli altri, per le religioni, per il diverso
colore della pelle, per la natura, gli animali. Tornando
all'inizio, dove era posto il quesito se: dove si nasce e si
cresce,
determina il nostro carattere, ebbene si, se ne
ero convinto prima,
lo sono ancora di più adesso. Sapete quante volte mi
ritrovo a guardare la luna, e pensare di essere in Libia a
guardarla con il cielo e milioni di stelle che la circondavano,
o osservare le cavallette qui in Italia, che poverine d' inverno,
cercano riparo dal freddo e tento di aiutarle, mi ricordano
anche loro la Libia, tantissime cose mi ricordano la Libia.
Tutto me la fa ancora ricordare, innanzi tutto, il mio
pensare, molto da orientale: credere in un destino,
che tutto è voluto e deciso da Dio, ringraziarlo sempre
nel bene e purtroppo talvolta anche nel male, usare la
tolleranza, capire
il diverso e non allontanarlo, tutti sbagliamo. Comprendere i
profughi di Lampedusa, lo sono stato anche io dalla Libia, son
passato dai campi profughi in Italia, credetemi non era il
massimo, un periodo di sofferenza, umiliante,
non ne conservo un buon ricordo.
Certamente non sono d'accordo e non dirò mai,
come ho sentito dire dai nostri politici e
benpensanti italiani : che tornino a casa loro,
bisognerebbe sparargli addosso, che li ospiti la Chiesa. Se
giunge il momento di aiutare qualcuno in qualsiasi difficoltà,
eccomi qua, come lo era tra noi italiani in Libia, in qualsiasi
circostanza, lo sarà ancora per chiunque, possiamo trovarci
tutti in un periodo difficile della vita. Lo stesso vale per un
gesto umile di carità, perchè no, abbiamo le nostre case che
scoppiano di tutto,
un mendicante chiede l'elemosina, gliela porgo. In Libia ce ne
erano tanti, mio
padre cambiava il denaro cartaceo in moneta e
a ciascuno dava
la sua parte. Non vedo in questa nostra Europa, Italia
compresa, i cosi detti
paesi civilizzati,
pieni di tutto e nello stesso tempo vuoti di
qualsiasi valore, ingordi solo di materialismo, un
aspetto sensibile, umano, verso il debole, sotto qualsiasi
aspetto. Osservo una società,
di un individualismo ed egoismo raccapricciante, anche da
parte di coloro, che apparentemente parlano di carità. Vedo una
società malata, di una psicosi di fretta, del correre,
dell'affanno, di una totale nevrosi, si corre e si ha fretta
sempre per tutto, l'orologio la
fa da padrone. Non era cosi' nella nostra amata e mai
dimenticata Libia. A fine giornata avevamo anche il tempo per
una passeggiata su quel meraviglioso lungomare,
o una chiacchierata al corso, per un buon caffè, un
gelato, un frappè.
Nel mio DNA ci sono ancora tutti i miei 17 anni vissuti in Libia,
con tutto ciò che ho ricevuto, prima dai miei meravigliosi
genitori, dalla comunità italiana in Libia, poi dal popolo
libico, e infine da quella paradisiaca natura africana in Libia.
Grazie a quegli anni, spesso ho degli attimi di malinconia e
disagio, perchè mi scontro totalmente con
l'indifferenza tipica della società in cui vivo, che non
è riuscita e non riuscirà a contaminarmi e a condizionarmi.
Purtroppo però ne sono circondato,
provo delle emozioni in tantissimi momenti, e una forte
sensibilità, ciò che per la nostra società sono considerate
debolezze. In conclusione, concordo del tutto con
la dottoressa Fonzi,
e son convinto come dice e scrive
lei, che ciò che riceviamo dall'esterno, influenzi subito
il nostro cervello, attraverso un'interazione fruttuosa tra ciò
che è innato. la nostra struttura cerebrale, e ciò che è
acquisito, il nostro ambiente, in questo contesto
quello africano dell'indimenticabile, ora e per sempre
della Libia.