LA STANZA  di ANTONIO STEFANILE 
  

 
Antonio Stefanile 
   

Libia o Italia: cosa c'è nel mio DNA?


                                                                                            

Scrive  Ada Fonzi, professore emerito psicologia dello sviluppo, in un suo articolo sul  mensile:  Messaggero di S. Antonio, dal titolo: “Eredità o ambiente”,  cosa influisce davvero sulla nostra vita? Questioni di geni o fattori ambientali? Il dilemma al momento  sembra insolubile.

 

La Prof.ssa Ada Fonzi Il Messaggero di San'Antonio

 

Lo sviluppo dell'uomo è un fenomeno cosi complesso che neppure gli studi scientifici più raffinati possono fornire una spiegazione definitiva.  La professoressa Fonzi pone parecchi interrogativi. Ce n'è uno che merita particolare attenzione, quello che cerca di rispondere al quesito: se e quanto il corso della nostra vita dipenda dal  patrimonio ereditario che abbiamo ricevuto da genitori e antenati; e ancora , se e quanto l'ambiente in cui viviamo e abbiamo vissuto, sia responsabile delle nostre caratteristiche, abitudini e capacità. Scrive ancora la dottoressa Fonzi: lo sviluppo dell'uomo è un fenomeno cosi complesso che neppure gli studi scientifici più raffinati possono fornire una spiegazione definitiva.

E' meglio allora, cercare pazientemente di farsi un'idea di quale sia lo stato,  dell'arte in merito, consapevoli che eredità e ambiente sono entrambi, a pari merito, gli artefici del nostro sviluppo. Personalmente sono d'accordo pienamente con quest'ultima teoria, inerente all'eredità e all'ambiente nel favorire la nostra futura personalità comportamentale, sotto l'aspetto sociale, morale, religioso, spiegandone il motivo.

Sono nato il 13 0ttobre 1953, a Tripoli, capitale di un meraviglioso paese del Nord-Africa che è la Libia. Ho vissuto lì per diciassette anni, l'intera infanzia e parte della mia adolescenza, anni stupendi, indimenticabili, fino a che, con un colpo di stato organizzato da militari, con tutta la famiglia,  fummo cacciati in maniera drammatica. Siamo rimpatriati in Italia a bordo di una nave, con  la Campania Felix, della compagnia Tirrenia, e sbarcati nel porto di Napoli la mattina del  1 settembre 1970, esattamente un anno dopo il colpo di stato di Gheddafi.  Sono nato da una famiglia di contadini, che hanno avuto sempre degli operai arabi, con i quali vi ci è sempre stato un grande affiatamento, sotto qualsiasi profilo. Sono cresciuto fin dai primi giorni con i loro figli e tuttora parlo bene l'arabo.

 

La Campania Felix Il Colonnello Gheddafi nel 1969

Quando mia madre mi partori' aveva talmente tanto latte che  contemporaneamente allattava anche una neonata araba, la cui madre era carente di latte. Per gli arabi, eravamo come fratelli , eravamo uniti quasi da un legame di sangue. Crescevo a contatto di un clima e di una natura unica, incontaminata, pulita, amica in tutti i sensi.

 

Con mio padre e mia madre Con Ibrahim,  un nostro aiutante libico

 

La campagna africana,  con le sue albe, il mare con i suoi tramonti, duemila chilometri di coste incontaminate. Il deserto, oh, il deserto! Mi ci portava mio padre quando andava a caccia, il suo silenzio che sapeva di mistico, si percepiva la presenza di Dio in quell'infinito mare di sabbia.

 

Tripoli 1969-70.  Io con al collo una collana di tordi cacciati, e sulla mia mano destra il Flobert Il deserto libico, ... il mio deserto.

 

Avevo la mia famiglia, ma avevo anche le famiglie arabe che mi amavano ed io amavo loro, con quella spontaneità e spiritualità orientale, fatta di saluti, ringraziamenti di ogni tipo al buon Dio e benedizioni reciproche, anche per piccole cose. I matrimoni che duravano una settimana, festeggiati con gli arabi, purtroppo anche i funerali, le feste di circoncisione, le sere del digiuno del Ramadan con tutti gli odori di spezie e aromi, che annunciavano la fine del digiuno giornaliero e si poteva cenare, in un silenzio soprannaturale, irreale. Si', frequentavo saltuariamente la città di Tripoli, ma solo per la messa domenicale e altre feste religiose, la mia vita era la terra, la campagna africana, con i miei amichetti arabi: Salem dall'infanzia, Muktar e  suo fratello Fozi, Mabruk (Benedetto) e poi Nagib (che qualche tempo fa ho saputo morto in un incidente stradale, dai punti molto oscuri,  probabilmente non concordava con la dittatura gheddafiana). Paradossalmente il giorno dell'incidente tornava dall'isola di Djerba dov'era stato a trovare suo fratello, fuggito dalla Libia, perchè in disaccordo con la politica di Gheddafi.   Mi accompagnò, dalla prima elementare, fino alla terza media, all'istituto dei Fratelli Cristiani della Salle, e dopo all'istituto per geometri Guglielmo Marconi, fino all'abbandono definitivo della Libia. All'età di tre anni avevo un operaio di mio padre, di nome Ibrahim che mi scorazzava in bicicletta e con una macchina Topolino, nell'azienda che gestivamo a Sciara Sidi Kalifa.

 

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All'età di tre anni avevo un operaio di mio padre, di nome Ibrahim che mi scorazzava in bicicletta e con una macchina Topolino, nell'azienda che gestivamo a Sciara Sidi Kalifa. ...

 

Il nostro passatempo preferito ad inizio adolescenza, erano  le nostre battute di caccia e i nostri giochi arabi: la Kummesa, il gioco delle cinque pietre, il sultan- uazir, si giocava con due ciabatte infradito, la zarbuta che era una semplice trottola.

 

Il gioco delle cinque pietre La zarbuta

 

Coloro che come me sono vissuti nelle campagne di Tripoli in Libia, sanno di che gioco si tratta. Sentivo crescere in quei momenti nel mio animo qualcosa di unico, di  emotivo, di buono, di pulito, di sincero e spontaneo dentro di me, qualcosa che mi appagava, mi accresceva interiormente e mi faceva stare bene con la mia coscienza. Penso che se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori, ciò che non è dentro, non è da nessuna parte. Son convinto che quel “dentro” di  me, dal primo istante di vita, me lo abbia donato la vita e  natura africana in Libia.  Avevo molti amici italiani in città, ma con gli amichetti arabi c'era qualcosa di quasi  fraterno, trascorrevo moltissime ore con loro, ci legava la nostra semplicità, l'umiltà, non mi vergogno anche la povertà, però eravamo sereni, affettivamente pieni, contenti, felici di ogni cosa che facevamo, insieme dividevamo tutto. Non esistevano assolutamente nelle campagne le frasi: tu sei arabo, io italiano, o tu credi in Allah e io in Gesù, credevamo in un unico Dio, di amore e carità, ci aiutavamo reciprocamente in tutte le situazioni anche le più difficili e pericolose. Rispettavamo i loro santoni, i “ Marabutti “ asceti che vivevano di preghiera ed elemosina ed erano considerati portatori di bene, di positività, allontanando le forze negative delle persone. Loro rispettavano la nostra religione con le nostre feste, ci permettevano di fare le nostre Processioni religiose lungo le strade di Tripoli  nel periodo pre-pasquale. 

 

Tripoli 1965 - La Processione del Corpus Domini

 

Spesso, tantissime volte, si preparava da mangiare tra di noi in aperta campagna, dalla selvaggina cacciata, o pasta e insalate che ci portavamo da casa e che poi preparavamo. Si mangiava con le mani in un' unico grande piatto, dopo si beveva lo shehi (thè arabo)  tutti con l'unico bicchierino, portato alle labbra con le dita che lo sorreggevano in una determinata maniera, con la punta del pollice e del mignolo. Era un rituale, una comunione di gusti e sensi,  tutto formava il mio essere interiore, oltre che quello fisico, grazie alla natura selvaggia dei luoghi.  Nelle campagne si faceva il bagno anche di notte nelle immense vasche che servivano per irrigare i terreni, si andava alla ricerca dei nidi, ci si arrampicava sulle piante più alte. Tutto aumentava la nostra forza e riflessi in quella natura africana e incontaminata. Sempre di più aumentava la mia sensibilità per quelle persone e per quei luoghi, che hanno contribuito in maniera determinante al mio sviluppo e crescita emotiva, mentale, di valori sotto qualsiasi aspetto, da quello morale, sociale e religioso. La comunità italiana in Libia era un'intera famiglia, vincolati da un'amicizia sacra, di fraternità,  aiuto reciproco, di sincerità e spontaneità. Tutti questi sentimenti, furono ancor  più consolidati, con l'ultimo periodo drammatico trascorso li', dal 1 settembre 1969, con il colpo di stato militare che rovesciava la monarchia, al decreto di espulsione di tutta la comunità da parte di Gheddafi, con il discorso di confisca dei nostri beni, il 21 luglio del 1970 nel campo sportivo, di una località chiamata Zavia,  dandoci solo tempo sino alle prime due settimane di ottobre del 1970, per lasciare definitivamente la Libia. Come precedentemente scritto,  con la mia famiglia ci imbarcammo al porto di Tripoli, il 29 agosto 1970. Tuttora a distanza di quarantaquattro anni, ai nostri raduni che annualmente organizziamo, riviviamo quel clima di solidarietà e amicizia che ci portavamo e portiamo ancora adesso, nel nostro cuore. Ad ogni raduno ritorniamo con il pensiero in Libia, l'animo è restato ancora quello di quegli anni là. Spesso nel raccontare i ricordi di quel periodo, talvolta  delle parole sono anche in lingua araba, ulteriore dimostrazione dell'amore viscerale verso quel paese, è frequente che si vedano  le lacrime  scendere  sul viso,  nel descrivere ciò che si provava e si prova ancora.  Perchè mi chiederete, tutto questo racconto? Per farvi sapere che dopo quarantaquattro anni dal mio rientro dalla Libia, dentro la mia anima, il mio cuore e la mia mente, ci sono ancora tutti i diciassette anni trascorsi in Libia, che ancora mi aiutano a vivere in maniera semplice, umile, credendo ancora negli ideali imparati in quella terra africana, del rispetto per noi stessi, per gli altri, per le religioni, per il diverso colore della pelle, per la natura, gli animali. Tornando all'inizio, dove era posto il quesito se: dove si nasce e si  cresce,  determina il nostro carattere, ebbene si, se ne  ero convinto prima,  lo sono ancora di più adesso. Sapete quante volte mi ritrovo a guardare la luna, e pensare di essere in Libia a guardarla con il cielo e milioni di stelle che la circondavano, o osservare le cavallette qui in Italia, che poverine d' inverno, cercano riparo dal freddo e tento di aiutarle, mi ricordano anche loro la Libia, tantissime cose mi ricordano la Libia.  Tutto me la fa ancora ricordare, innanzi tutto, il mio pensare, molto da orientale: credere in un destino,  che tutto è voluto e deciso da Dio, ringraziarlo sempre nel bene e purtroppo talvolta anche nel male, usare la tolleranza,  capire il diverso e non allontanarlo, tutti sbagliamo. Comprendere i profughi di Lampedusa, lo sono stato anche io dalla Libia, son passato dai campi profughi in Italia, credetemi non era il massimo, un periodo di sofferenza, umiliante,  non ne conservo un buon ricordo.  Certamente non sono d'accordo e non dirò mai,  come ho sentito dire dai nostri politici e  benpensanti italiani : che tornino a casa loro, bisognerebbe sparargli addosso, che li ospiti la Chiesa. Se giunge il momento di aiutare qualcuno in qualsiasi difficoltà, eccomi qua, come lo era tra noi italiani in Libia, in qualsiasi circostanza, lo sarà ancora per chiunque, possiamo trovarci tutti in un periodo difficile della vita. Lo stesso vale per un gesto umile di carità, perchè no, abbiamo le nostre case che scoppiano di tutto,  un mendicante chiede l'elemosina, gliela porgo. In Libia ce ne erano tanti,  mio padre cambiava il denaro cartaceo in moneta e   a ciascuno dava  la sua parte. Non vedo in questa nostra Europa, Italia compresa, i cosi detti  paesi civilizzati,  pieni di tutto e nello stesso tempo vuoti di  qualsiasi valore, ingordi solo di materialismo, un aspetto sensibile, umano, verso il debole, sotto qualsiasi aspetto. Osservo una società,  di un individualismo ed egoismo raccapricciante, anche da parte di coloro, che apparentemente parlano di carità. Vedo una società malata, di una psicosi di fretta, del correre, dell'affanno, di una totale nevrosi, si corre e si ha fretta sempre per tutto, l'orologio la  fa da padrone. Non era cosi' nella nostra amata e mai dimenticata Libia. A fine giornata avevamo anche il tempo per una passeggiata su quel meraviglioso lungomare,  o una chiacchierata al corso, per un buon caffè, un gelato, un frappè.  Nel mio DNA ci sono ancora tutti i miei 17 anni vissuti in Libia, con tutto ciò che ho ricevuto, prima dai miei meravigliosi genitori, dalla comunità italiana in Libia, poi dal popolo libico, e infine da quella paradisiaca natura africana in Libia. Grazie a quegli anni, spesso ho degli attimi di malinconia e disagio, perchè mi scontro totalmente con  l'indifferenza tipica della società in cui vivo, che non è riuscita e non riuscirà a contaminarmi e a condizionarmi. Purtroppo però ne sono circondato,  provo delle emozioni in tantissimi momenti, e una forte sensibilità, ciò che per la nostra società sono considerate debolezze. In conclusione, concordo del tutto con  la dottoressa Fonzi,  e son convinto come dice e scrive  lei, che ciò che riceviamo dall'esterno, influenzi subito il nostro cervello, attraverso un'interazione fruttuosa tra ciò che è innato. la nostra struttura cerebrale,  e ciò che è acquisito, il nostro ambiente, in questo contesto  quello africano dell'indimenticabile, ora e per sempre della  Libia.  



I nostri operai libici con il bestiame Con l'inseparabile amico Salem
Tripoli 2 maggio 1963: la mia Prima Comunione con mia madre, dietro la campagna libica con gli olivi Tripoli Pasqua 1964: la mia famiglia con parenti e amici Tripolini (una delle tante zarde). io sono il primo a sinistra


Antonio Stefanile

cell 339-3671980


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