Un sogno italiano, la Libia 

Capitolo VIi°

Paolo Savasta

 

CAPITOLO SETTIMO

 

                            

CENNI STORICI SU ALCUNE UNITA’ CHE COMBATTERONO IN AFRICA SETTENTRIONALE

IL REGGIMENTO GIOVANI FASCISTI

( Storia di giovani in guerra )

 

Appena pochi giorni dopo la nostra entrata in guerra, il comando generale della G.I.L.(Gioventù Italiana del Littorio) tramite le Federazioni regionali e provinciali di tutta Italia, venne letteralmente preso d’assalto da giovanissimi che manifestavano con entusiasmo il loro ardente desiderio di combattere.   Erano “ragazzi“ delle classi 1922 - 1923 e qualcuno anche del 1924.

Naturalmente questo afflusso di giovani, creò nelle varie Federazioni molte difficoltà, in quanto non erano preparate, sotto l’aspetto logistico a soddisfare un così notevole impegno per il reclutamento e l’addestramento, né ad accogliere e gestirne un sì rilevante afflusso di volontari. In ogni città vennero improvvisati centri di accoglienza presso scuole, palestre e campi sportivi.

Con circolare n°122966 del Ministero della Guerra, le Federazioni furono autorizzate a costituire dei battaglioni che presero il nome delle città di provenienza: 24 furono i battaglioni formati con oltre 1.000 volontari ciascuno,  divisi in tre raggruppamenti.

Ogni battaglione fu affidato a 20 ufficiali e 50 sottufficiali, in maggioranza provenienti dai bersaglieri. I volontari furono armati col moschetto 91 e il pugnale della G.I.L.; le divise erano due, una grigioverde e l’altra del tipo coloniale color “ kaki “. Sulla bustina era applicato il fregio della G.I.L., cioè: “ scudo, daga e fascio “, mentre sulla manica della giubba quello sempre della G.I.L. con scudetto rosso e giallo ed il nome del comando di appartenenza.

Formati i battaglioni questi vennero avviati, in parte nella riviera ligure e il rimanente nel litorale adriatico per iniziare l’addestramento militare.

Nel mese di agosto 1940, l’addestramento severo e meticoloso, venne completato e i battaglioni erano già nelle condizioni ottimali per essere presentati a Mussolini. Il 29 agosto, ebbe inizio la “Marcia della Giovinezza”, con concentramento a Padova.

 

Vennero formati tre raggruppamenti che partirono da Albissola, Arenzano e Ancona,  il 2O settembre erano tutti a Padova, accantonati nell’area della Fiera Campionaria e nel circondario della città.

Il 10 ottobre, 21 dei 24 battaglioni ( 3 erano ancora impegnati in esercitazioni militari ), furono passati in rassegna da Mussolini, sfilarono in parata dinanzi alle Autorità presenti. Oltre al capo del Governo, al segretario del Partito Fascista Ettore Muti ed alle alte cariche delle Forze Armate, vi erano le delegazioni giovanili tedesche, bulgare, spagnole, magiare e romene, convenute a Padova per l’occasione.

 

Improvvisamente a Padova, quando quei “ragazzi“ già sentivano l’attesa della partenza per la zona d’operazione, ecco giungere l’ordine di scioglimento, di riprendere gli abiti borghesi e ritornare alle loro case.

Si generò subito un diffuso malcontento tra tutti i giovani così entusiasti, tanto che un contrordine riconfermò il mantenimento in essere dei  24 battaglioni che vennero così destinati: 8 alle dipendenze della 2^Armata; 8 assegnati all’Armata del Po e gli altri 8 suddivisi tra le divisioni: Siena, Ferrara e Centauro da inviare in Albania.

L’imprevedibile destinazione fece aumentare il malumore anche tra gli ufficiali  comandanti di battaglione; apparve palese “l’escamotage“ per calmare gli animi.  Infatti essi venivano così a trovarsi sotto le armi ma con mansioni di milizia territoriale.

A seguire venne successivamente emanato altro ordine, quello di scioglimento dei reparti !

La M.O.V.M. Ettore Muti, allora segretario del Partito Fascista, fece pressione presso Achille Starace, comandante della M.V.S.N.(Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), esortandolo a non deludere i “ragazzi“ che dimostravano tanto patriottismo e volontà di combattere.  Dopo l’intervento della M.O.V.M. Muti, al quale si affiancarono i due vice comandanti della G.I.L., Bonamici e Sellani, si addivenne a una risoluzione di compromesso: furono formati 3 battaglioni speciali, con l’intento che appena terminato un nuovo periodo di istruzione militare, sarebbero stati impiegati in operazioni di guerra. Fu allora messa in opera una drastica selezione, i non prescelti vennero congedati con una medaglia ricordo; soltanto 2.000 ebbero la fortuna e il privilegio di appartenenza nei tre battaglioni.

Sia Achille Starace che Roberto Farinacci, allora ispettore superiore del Partito, avevano fatto presente al capo del Governo Benito Mussolini che secondo loro, quei “ragazzi“ non erano fisicamente idonei alle fatiche della loro giovane età.

 

Forse quei gerarchi ignoravano che in passato, “ragazzi“ appena diciottenni, molti dei quali erano ancora studenti, avevano tenuto un comportamento eroico nelle battaglie del Risorgimento italiano ( Curtatone e Montanara nel 1848 ); altri giovanissimi, arruolati tra i “garibaldini” si distinsero nel 1915, in Francia, nella battaglia delle Argonne e infine altri “ragazzi” della classe 1899, che nel corso della Prima Guerra Mondiale 1914-1918, arginarono l’avanzata austriaca dopo la disfatta di Caporetto ( i famosi “ Ragazzi del 99 “ ).

 

Costituiti i 3 battaglioni di cui il 1° fu affidato al Maggiore Fulvio Balisti, valoroso granatiere che ebbe un grande carisma tra i suoi “ragazzi“( era infatti decorato di 3 Medaglie d’Argento e una di Bronzo), il 2° al maggiore Carlo Benedetti, ufficiale degli Arditi, che aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale restando due volte ferito, meritando anche una M.B.V.M. (fu volontario nella guerra etiopica ove venne decorato con la Croce di Guerra); il 3° comandato dal capitano Antonio Bononato.

I tre battaglioni, posti sotto il comando del tenente colonnello dei bersaglieri Ferdinando Tanucci Nannini (altro eroico ufficiale, decorato di 4 M.A.V.M., di 3 M.B.V.M., di una Croce di Guerra e con due promozioni per merito di guerra), vennero smistati: il 1°a Formia, il 2°a Gaeta e il 3°a Scauri; dopo due mesi di addestramento raggiunsero un’eccellente preparazione, tanto da ricevere gli elogi dal generale Taddeo Orlando, ispettore generale del Regio Esercito.

Il 19 aprile 1941 i tre battaglioni prestarono giuramento dinanzi al capo di Stato Maggiore Esercito Generale Guzzoni, entrando così a far parte dell’Esercito. Sorsero tuttavia discussioni e contrasti sulle uniformi e mostrine da adottare. Mentre i comandanti dei battaglioni proponevano le mostrine nere e come copricapo il fez anziché la classica bustina, per ricordare le “fiamme nere” degli arditi durante la Prima Guerra mondiale, di contro lo Stato Maggiore impose la regolamentare divisa in uso nell’esercito, concedendo, in linea del tutto eccezionale, che le mostrine fossero a due punte di colore rosso e bordate di giallo (i colori di Roma e della G.I.L.) e venne concesso l’uso del fez nero con nappa, ma da usare solo con la divisa di fatica. Furono armati con il moschetto Mod.38, non fu permesso portare il pugnale che era in uso nei reparti avanguardisti e giovani fascisti della G.I.L, non venne loro consegnato il regolare elmetto.

Nota significativa: in Africa Settentrionale, i giovani volontari, portarono quotidianamente il loro fez, indossandolo con spavalderia e invece poco usato fu il casco coloniale.

Dopo il giuramento i tre battaglioni restarono nelle loro sedi in attesa di destinazione al fronte. Lo Stato Maggiore dell’Esercito aveva proposto l’invio di quei battaglioni, in Grecia o Russia, ma il 24 giugno 1941 Mussolini ricevette un rapporto nel quale veniva sconsigliato l’invio in Russia di quei giovani volontari, in quanto non avrebbero sopportato quel clima rigido, Mussolini scrisse di suo pugno sul rapporto...” bene allora mandiamoli in Libia!“.

Con quella decisione il 1°e 2° battaglione, furono trasferiti a Napoli in attesa di conoscere il loro definitivo impiego e la conseguente destinazione che arrivarono presto: la Libia!

Trasferiti a Taranto, il 27 luglio 1941 s’imbarcarono con destinazione Tripoli. La traversata seguì una rotta inconsueta per le navi che portavano soldati in Tripolitania e cioè la rotta: Taranto - Creta - Tripoli.

Si disse allora che la scelta di quella rotta, molto più lunga della normale Napoli - Trapani - Canale di Sicilia - Tripoli, fosse stata scelta per evitare il pericoloso Canale di Sicilia ben sorvegliato dalle forze navali ed aeree inglesi. Tuttavia restano dei dubbi, anche tra gli storici: pare invece che il vero motivo che indusse a scegliere quella inconsueta rotta fu il depistare lo spionaggio inglese, molto attivo in Italia, che controllava tutti i movimenti delle nostre truppe in partenza dai porti italiani e in molti casi anche la rotta da seguire. Percorrendo quella nuova rotta, lo Stato Maggiore Esercito,infatti volle fare credere che quelle truppe erano destinate in Grecia e non in Libia.

Sbarcati in terra d’Africa, quei “ragazzi“ combatterono con grinta e coraggio. Il lettore ha già appreso, dai precedenti capitoli, le loro gesta eroiche nei quasi due anni trascorsi in Libia-Egitto e Tunisia.

Come già esposto nel quarto capitolo, mentre i “ragazzi” di Bir el Gobi si trovavano nell’Oasi di Siwah, dove con altri reparti avevano formato la 136^divisione Giovani Fascisti, i loro due battaglioni presero la denominazione di reggimento, ma incomprensibilmente non venne loro assegnata la regolare Bandiera da combattimento. Tale decisione, a mio giudizio fu “vergognosa“, da parte delle alte cariche di Roma, che avevano avuto sempre ostinata prevenzione verso i volontari “fascisti”, venne severamente stigmatizzata.

Quei “ragazzi“ in Africa onorarono le gloriose tradizioni della nostra storia militare, ebbero due citazioni nei Bollettini di guerra: il primo il 7 dicembre 1941 n°553 per l’eroico comportamento nella battaglia di Bir el Gobi, il secondo l’11 maggio 1943 n° 1081, in Tunisia per la battaglia di Enfidaville. Giova  ricordare inoltre che furono concesse 2 M.O.V.M.- 28 M.A.V.M.- 48 M.B.V.M.- 105 Croci di Guerra. Altre 254 proposte per decorazioni non furono prese in considerazione dalle commissioni militari competenti, in quanto dopo la caduta del Fascismo, tutti coloro che avevano collaborato o comunque appartenuti al Partito Fascista vennero epurati e le 254 proposte caddero in prescrizione.

Quei giovani volontari, pur avendo combattuto nell’Esercito e con le prescritte stellette,furono considerati “fascisti” e persino dei traditori non degni di decorazioni. Ma erano giovani nati sotto il fascismo e cresciuti nel culto della Patria, come lo sono stato anch’io: giovani che veramente amavano l’Italia e moltissimi di loro dettero la vita per la Patria. Discriminarli, fu una palese ingiustizia, togliere loro quanto d’onorevole s’erano guadagnati combattendo, fu una cosa desolante e indegna per le scellerate decisioni che quelle commissioni adottarono faziosamente e senza alcuna giustificazione nei confronti di quei giovani che orgogliosamente si fregiavano delle stellette.

Aggiungo che suscita in me ancora sdegno ed irritazione il fatto che a tanta distanza di tempo dalla fine di quella guerra, si continui perversamente a perpetuare discriminazioni ormai obsolete e direi arcaiche, con gretta e superata mentalità antifascista, ignorando (se non mettendo al bando) le gesta eroiche di quella Unità solo perché ancora incute “sospetto” quel nome di battesimo di “Giovani Fascisti” anche se ha altamente onorato con il sacrificio, quasi totale dei suoi componenti le nobili tradizioni delle nostre Forze Armate.

Oggi i pochi superstiti hanno una loro significativa, decorosa e bellissima sede con un interessante e prestigioso museo, sito a Ponti sul Mincio, in provincia di Mantova, nella tenuta che fu del maggiore Balisti e che Egli volle donare ai suoi “ ragazzi “.

 

I tre Battaglioni avevano ciascuno un motto sul loro “ gagliardetto “,

per il 1°: MI SCAGLIO A RUINA;

per il 2°: ABBI FEDE;

per il 3°: A FERRO FREDDO.             

 

A chiusura di questa breve esposizione storica sui Giovani Fascisti, nel ricordare il loro impetuoso cammino, che iniziò da Bir el Gobi con tappe operative a Siwah e Buerath, proseguì dal Mareth a Enfidaville e si completò a Capo Bon, un mio grande desiderio sarebbe quello di nominare uno ad uno i nomi di questi “ragazzi”. Sono peraltro troppo numerosi per essere citati tutti e lo spazio grafico e il tempo non me lo consentono. Comunque di alcuni di questi volontari GG.FF. e di chi li comandava, desidero renderli noti ai miei giovani lettori.

Volontari: Sergio Bianchi, Antonio Cioci, Gino Magliocco, Vittorio Bergamini, Benito Togni (caduto a Bir el Gobi).

Questi gli Ufficiali che li comandarono:

tenente colonnello Ferdinando Tanucci Nannini:

tenente colonnello Giovanni Lonzu;

colonnello Giacomo Sechi;

maggiore Fulvio Balisti;

maggiore Luigi Pianetti;

maggiore Carlo Benedetti;

maggiore Giovanni Mibelli;

capitano Pietro Baldassari ( Papà Pallino );

capitano Mario Niccolini;

Capitano Pietro Todesco;

Capitano Gino Raumi;

A questa nota dovrei aggiungere tanti comandanti di plotone; purtroppo  anche per essi, lo spazio grafico mi è nemico, ne cito alcuni quali i tenenti: Siro Brogi, Gaspare Pifferi, Giuseppe Barone, Giovanni Laterzi, Bettino Solara (caduto nella battaglia del Mareth)

 

Formata la 136^divisione GG.FF. in Egitto, il comando fu affidato al generale Ismaele Di Nisio e successivamente al colonnello Follini ed in Tunisia la G.U. passò al comando del generale Nino Sozzani poi al generale Guido Boselli.

 

Sempre in fatto di storici eventi che suscitano alta considerazione nei confronti di questi appassionati giovani, vorrei citare un significativo episodio quando il 9 maggio 1943, in Tunisia ogni resistenza al nemico da parte delle truppe italo-tedesche era cessata, i superstiti dei due battaglioni GG.FF. ancora combattevano e solo il giorno 13, esaurite le munizioni, furono costretti alla resa; il maggiore Della Pietra del I° battaglione per non cedere al nemico il “gagliardetto” e quindi la Fiamma, decise di tagliarla in 17 pezzi ed ogni lembo venne consegnato ad ognuno dei superstiti del suo gruppo che erano ridotti a 17 tra ufficiali e volontari. Catturati furono trasferiti nei campi di concentramento in America e rientrarono in Italia solo dopo il 1945. Del gruppo dei 17 non tutti ebbero la fortuna di essere liberati; alcuni di essi morirono in prigionia. Quelli che riuscirono a rientrare in Patria ancora in possesso della “reliquia”, la consegnarono al volontario Antonio Cioci che è riuscito a ricostruire in parte la Fiamma del “gagliardetto”, che oggi si trova custodita nel Museo dei GG.FF. alla Piccola Caprera di Ponti sul Mincio. ( FOTO N°1-2 )

 

                             X REGGIMENTO ARDITI

 

Nel mese di maggio 1942, visto il moltiplicarsi delle incursioni di sabotaggio compiute dagli inglesi, sia in Italia che in Africa Settentrionale, lo Stato Maggiore Esercito, decise la costituzione di speciali reparti, capaci di compiere azioni di tipo “commandos“, dal cielo, terra e mare.

Venne effettuato un reclutamento volontario fra i militari in armi e furono scelti solo elementi fisicamente dotati, animati da spirito aggressivo con spiccate capacità intellettive, prontezza di riflessi e buona cultura, anche perché a fine corso di addestramento, costoro avrebbero dovuto essere capaci di  leggere una carta topografica, di sapersi orientare anche di notte in territorio sconosciuto, avere conoscenza approfondita della bussola, normale e pronta conoscenza dell’impiego di ogni tipo di arma e di esplosivi, essere ottimi nuotatori e indiscussi piloti su ogni tipo di automezzo ed infine abili  guastatori, attaccando aeroporti, linee ferroviarie, depositi di carburante e casematte.

Tutti questi requisiti attitudinali erano indispensabili per un accurato e completo addestramento, in quanto tre erano le specialità di questo corpo: paracadutisti, nuotatori e camionettisti

 

L’addestramento di base fu iniziato e completato nel poligono militare di Santa Severa (Civitavecchia) e successivamente a seconda della specializzazione in altri campi militari; per i paracadutisti la scuola di Tarquinia, per i nuotatori due località segrete di Livorno e Pola. Quanto ai camionettisti si addestrarono su tutto il litorale tirrenico e particolarmente sui monti della Tolfa.

 

A fine corso vennero formati 3 battaglioni, uno di arditi paracadutisti, uno di nuotatori e il terzo di camionettisti, che all’occorrenza dovevano conoscere l’uso di ogni arma e saper destreggiarsi con mezzi motorizzati nemici, costituendo così, agli inizi del 1943, il X reggimento Arditi al comando del colonnello Renzo Gazzaniga.

 

I battaglioni erano comandati da ufficiali con grande esperienza militare, tutti decorati al Valore Militare: il 1°battaglione era agli ordini del tenente colonnello Carlo Bersani, il 2°fu affidato al maggiore dei bersaglieri Vito Marcianò, il 3° al maggiore Antonio Albertini. Tutti e tre i battaglioni operarono in Africa, come già citato nel 6°capitolo; in Tunisia combatté, come reparto d’assalto, la 103^compagnia camionettisti al comando del capitano Brusa, 

compagnia equipaggiata con camionette del deserto AS.43 che si distinse nelle battaglie del Mareth, di Uadi Akarit, Enfidaville e in ultimo a Capo Bon.

 

L’equipaggiamento dell’ardito, sia paracadutista che nuotatore, era uno dei più efficienti e sofisticati di tutto il nostro esercito, infatti l’armamento individuale comprendeva pistola, pugnale, moschetto automatico Mod.38, 6 bombe a mano racchiuse in una speciale custodia. Completava l’equipaggiamento individuale un particolare zainetto contenente: esplosivo al plastico del tipo T4, micce, inneschi, una speciale bussola a perfetta tenuta d’acqua, un orologio da polso con lancette fosforescenti, un binocolo prismatico,carte toponomastiche e topografiche (agli inizi del 1943 queste furono stampate su seta), un pacchetto di medicazione, la dotazione di viveri per 3 giorni ( in caso particolare di prolungata azione, questa veniva portata a 15 giorni ) ed inoltre l’ardito veniva munito di carta moneta nemica circolante nel territorio di previsto impiego.

 

Per gli arditi camionettisti, l’armamento individuale era simile a quello dei paracadutisti e nuotatori: anch’essi avevano in dotazione esplosivi al plastico e micce, carte topografiche della zona. La dotazione automezzi era costituita dalle famose camionette del deserto SPA-AB- Mod.1943, che montavano un armamento misto di mitragliatrici, mitragliere c.a., cannoni c.c. e fuciloni c.c.

 

Il segreto militare per le azioni che dovevano compiere, fu un titolo di merito del X reggimento, poichè ne veniva (o doveva venirne) a conoscenza solo il dipartimento interessato. In tal caso era lo Stato Maggiore Esercito a trasmettere direttamente al comandate del X reggimento l’azione da svolgere. Il colonnello Renzo Gazzaniga sceglieva all’ultimo momento, cioé un paio di ore prima dell’azione, la pattuglia da impiegare e spiegava ai componenti le modalità del sabotaggio, la località e l’eventuale recupero; era poi compito  degli arditi scelti, studiare i dettagli particolari per lo svolgimento dell’azione.

 

Una nota particolare: i nostri sabotatori in ogni azione, indossavano la regolare divisa dell’Esercito con stellette e gradi, attenendosi rigorosamente alle Leggi Internazionali di guerra, al contrario dei sabotatori inglesi che sovente usavano travestimenti con divise militari dell’avversario o con abiti civili, con particolare riferimento agli usi e costumi delle popolazioni del luogo ove dovevano operare.

 

BATTAGLIONE PARACADUTISTI REGIA AERONAUTICA

( 1° D’ASSALTO e ADRA )

 

Nell’aprile 1942, lo Stato Maggiore dell’Aeronautica decise la costituzione di un battaglione di paracadutisti; scopo iniziale era quello di prepararli in vista del tanto prospettato progetto C.3, occupazione dell’isola di Malta.

Venne diramata una circolare a tutti i comandi aeronautici dislocati nel territorio nazionale, affinché portassero a conoscenza al loro personale del bando di arruolamento di una Unità speciale. Aderirono circa 2.000 avieri ma solo 400 riuscirono a superare la difficile selezione.

 

Formato un battaglione, posto agli ordini del tenente colonnello Edvino Dalmas, i volontari iniziarono a Tarquinia il corso di paracadutista. Completati i 6  lanci per il conseguimento del brevetto furono trasferiti a Civitavecchia, sede di corsi guastatori, ove appresero l’uso degli esplosivi, i vari tipi di sabotaggio, la non semplice lettura delle carte topografiche ed il lavoro di ripristino di piste di decollo e atterraggio degli aerei. Completato il corso il battaglione paracadutisti rimase in attesa dell’impiego che doveva essere, secondo le disposizioni impartite agli ufficiali, il lancio su Malta, lancio che peraltro non avvenne mai, in quanto con la travolgente avanzata di Rommel in Egitto, il generale tedesco pretese e ottenne, con l’intervento opprimente del Fuhrer su Mussolini, che l’azione su Malta venisse annullata e le autorità di Roma e lo stesso maresciallo Kesselring, accettarono obtorto l’imposizione di Rommel e del Fuhrer. Fu un grave errore di valutazione, che ci costò la perdita della Libia e cambiò le sorti della guerra in Africa del Nord.

 

Nell’ottobre del 1942 venne formato un secondo battaglione, comandato dal   capitano  Araldo De Angelis, che seguì lo stesso addestramento del primo ma con  compiti più specifici sul sabotaggio degli aerei e degli aeroporti. Questo nuovo battaglione prese la denominazione di Arditi Distruttori Regia Aeronautica (ADRA) poiché doveva operare come il reparto paracadutisti del X reggimento arditi dell’esercito.

 

Quando a novembre 1942 gli alleati sbarcarono in Marocco ed in Algeria, avanzando  verso la Tunisia, furono sorpresi nella loro avanzata, oltre che dai paracadutisti tedeschi, che avevano formato una prima linea di difesa, anche dal 1°battaglione d’assalto del tenente colonnello Dalmas che era stato velocemente  inviato in Tunisia. Imbarcato a Trapani su due cacciatorpediniere e sbarcato a Biserta il 19 novembre; furono i primi soldati italiani che arrivarono in Tunisia, unitamente al reggimento S.Marco. Portati subito in linea nella zona Dyebel Abiod-Mateur, sostennero lo stesso giorno un primo e violento combattimento anche all’arma bianca ed in quella lotta fu ferito il comandante Dalmas, caddero il tenente Messina e gli avieri Raengo, Barcellesi, Giacomazzi, Albertazzi; vennero feriti anche i sergenti: Mantovani, Flumero, Peroni.

 

I nostri avieri paracadutisti combatterono per altri 6 giorni consecutivi, subendo altre gravi perdite in morti e feriti e 44 furono i dispersi. A fine di quei combattimenti il battaglione aveva perduto il 50% dei suoi effettivi e ciò  dimostra del suo eroico comportamento. I resti del battaglione inquadrati successivamente nel reggimento “Duca d’Aosta” (ten.col. Gabrielli),combatterono poi a Uadi Akarit, Enfidaville e Nabeul (Capo Bon).

Il battaglione ADRA invece, come già descritto, operò in Africa del Nord e in Sicilia con azioni di sabotaggio. ( FOTO N°3-4 )

 

POLIZIA AFRICA ITALIANA ( P.A.I.)

 

Con Regio Decreto Legge del 14 febbraio 1936 n° 2374, su proposta dell’allora Ministro delle Colonie Lessona, venne istituito il “Corpo Polizia Coloniale“, destinato ad operare nelle nostre Colonie dell’Impero (Etiopia, Somalia, Eritrea) e in Libia.

Quando nello aprile 1937, con R.D.L. n° 413, la superata denominazione di  “Ministero delle Colonie“ assunse quella di “Ministero dell’Africa Italiana“, il Corpo di Polizia coloniale mutava anch’esso, con la denominazione di: “Polizia Africa Italiana“, la  cui sigla fu P.A.I.

Il Corpo venne addestrato militarmente ed incorporato nelle forze armate dello Stato e ne fecero parte anche elementi indigeni, sia dell’Impero che della Libia.

 Pur essendo militarizzati i componenti della P.A.I. svolgevano anche funzioni istituzionali di Polizia civile e cioè: ordine pubblico, polizia giudiziaria e amministrativa.

Un particolare interessante: i componenti della P.A.I., avevano l’obbligo di risiedere in permanenza nel territorio ove prestavano servizio.

I primi ufficiali vennero scelti tra quelli che avevano svolto gran parte del loro servizio in Libia o nei territori dell’Impero, invece per i subalterni fu bandito un concorso al quale affluirono a migliaia, in prevalenza provenivano dagli agenti della Pubblica Sicurezza di Stato. La selezione fu rigorosa, la statura dell’allievo non doveva essere inferiore a metri 1,70 e dovevano possedere un titolo di studio superiore alla licenza elementare.

Quale sede e scuola di addestramento fu scelta la città di Tivoli; il personale ad inquadramento avvenuto, veniva ad avere un trattamento economico di gran lunga superiore a quello di cui godeva un comune poliziotto in Patria.

L’uniforme ordinaria era di color “kaki“, casco coloniale o berretto rigido, sulla giacca “sahariana” all’altezza della spalla sinistra  due  “cordelline”  intrecciate di seta azzurra per il poliziotto, mentre per l’ufficiale erano dorate, guanti in tessuto bianco per il subalterno, guanti in pelle nera per l’ufficiale. Pur facendo parte quale Corpo ausiliario operativo (nuclei autoblindo e motociclisti) dell’esercito, non portavano le stellette, ma due  piccoli “fasci“ di colore azzurro; sia il semplice poliziotto che l’ufficiale, calzavano stivali in pelle a cerniera laterale.

L’armamento individuale consisteva in: pistola Beretta Mod.34 calibro 9, moschetto automatico Beretta (Mitra), calibro 8,8 mm. Mod. 38/A, con innestato sulla canna un pugnale-baionetta pieghevole e furono dotati di mezzi meccanici con motociclette Guzzi ALCE 500. Inoltre a guerra iniziata vennero forniti di autoblindo SPA-AB/40-41 e mototricicli Guzzi 500, sui quali era montata una mitragliatrice Breda 37 calibro 8 mm. che aveva anche funzione di contraerei. Furono formati 7 battaglioni, che presero il nome di nostri grandi esploratori e illustri africanisti quali: Vittorio Bottego, Luigi Giulietti, Luigi Amedeo di Savoia, Antonio Cecchi, Gaetano Casati, Eugenio Ruspoli e Romolo Gessi. Sei di questi reparti, nel 1938 vennero inviati in Africa Orientale italiana, alle Questure di Addis Abeba, Asmara, Gondar, Harrar, Gimma e Mogadiscio, mentre il battaglione Gessi, nel 1939 fu destinato alla Questura di Tripoli.

La mancanza nell’ordinamento del R.E. di specifici reparti esploranti (verranno costituiti più tardi nel 1942 con elementi blindati di Cavalleria), indusse lo Stato Maggiore Regio Esercito ad incorporare reparti P.A.I. nelle G.U. corazzate, con missioni esploranti.

Agli inizi del 1940 vi erano in A.O.I. 6.345 guardie P.A.I. e di queste facevano parte 4.400 indigeni nativi del posto. In Libia la consistenza numerica era di 1.327 di cui 732 libici.

In Africa Orientale i poliziotti indigeni portavano come copricapo il rosso caratteristico “Tarbusc“, alto circa 30 cm., che aveva forma tronco - conica con

nappa azzurra, mentre in Libia era la “Taghia“ sempre con nappa azzurra, questo copricapo aveva la forma di calotta rossa; sia in A.O.I. che in Libia i poliziotti indigeni avevano avvolta al ventre una fascia di lana rossa, ai baveri invece dei “fasci“ avevano il “ Nodo di Savoia “.

L’armamento individuale per gli indigeni, era la pistola Beretta Mod.34, il moschetto Mitra, pugnale e calzavano, come i nazionali, stivali di cuoio.

Vi erano anche i reparti cammellati ed a cavallo; nelle parate sfilavano indossando il “Burnus“ che era uno speciale mantello nero con bordi dorati per gli ufficiali, argentati per i graduati e rossi per il semplice poliziotto.

Durante la guerra presero parte a numerose battaglie, specie in Africa Orientale  partecipando anche alla conquista della Somalia inglese. Nel marzo del 1941, una banda regolare indigena della P.A.I. venne quasi del tutto distrutta: caddero infatti il comandante tenente Vacirca e 150 ascari dei 180 che componevano il reparto. Nella ultima disperata battaglia di Gondar del 27 novembre 1941, il battaglione “Casati“ si sacrificò al completo.

Dopo la perdita dell’Impero, la P.A.I. ebbe, insieme ai Reali Carabinieri, dalla amministrazione militare britannica, compiti di sicurezza e ordine pubblico in tutto il territorio ex italiano.

 

In Libia, il battaglione Gessi che aveva un’ottima preparazione specifica, incominciò a svolgere compiti prettamente militari, quali scorta ai convogli terrestri, snellimento del traffico sulla via Balbia, soprattutto durante le ritirate, sorveglianza agli aeroporti ( nell’aeroporto di Barce a settembre del 1942, un piccolo nucleo P.A.I. riuscì a sventare un sabotaggio di incursori inglesi ).

 

Nel ripiegamento del dicembre 1941, il battaglione venne decimato in quanto posto a retroguardia, subì numerosi scontri con le truppe corazzate inglesi che tentavano di chiudere in una sacca i soldati di Graziani. In quella ritirata oltre a proteggere il tergo delle nostre formazioni, dovettero affrontare anche il problema dei civili, proteggendoli dalle incursioni di predoni arabi che approfittarono di quei tragici momenti per compiere razzie.

 

Nella battaglia di El Alamein, alcuni reparti del battaglione dettero valido appoggio ai paracadutisti della Folgore, collegando i centri di resistenza con i comandi divisionali e di reggimento; combatterono ancora nella Sirtica e a Buerat. I pochi superstiti del battaglione furono presenti in Tunisia, nelle battaglie del Mareth, Uadi Akarit e Enfidaville e pur essendo ridotti ormai a pochi uomini combatterono con onore sino alla resa del 13 maggio 1943. L’Albo d’Oro della specialità vanta le seguenti decorazioni:

2 Ordini Militari di Savoia;

1 M.O.V.M;

54 M.A.V.M.;

158 M.B.V.M.

261 Croci di Guerra al V.M.

 

Grazie all’appassionata opera di ricerca effettuata dal 1986 da Raffaele Girlando, italiano di Libia, mi é stato possibile essere così preciso ed esauriente nel descrivere la storia della P.A.I. che fu comandata dal generale di divisione Riccardo Maraffa. (FOTO N°5 )

 

REGGIMENTO S.MARCO  ( FANTERIA DI MARINA )

 

La storia di questo reggimento ha origini molto antiche, bisogna tornare indietro di alcuni secoli e arrivare al 1713, quando Vittorio Amedeo II di Savoia, Re di Sardegna, formò un reggimento di “Fanti da mar “ che partecipò alla occupazione della Sicilia. In seguito furono protagonisti di altri fatti d’arme, come la difesa di Oneglia (1796), la battaglia di Novara (1821), nonché il breve conflitto con il Bey Jusef di Tripoli (1825) quando la flotta sarda bombardò la città, i “Fanti da mar“ vi sbarcarono occupandola per alcuni giorni. Troviamo ancora il reggimento nella sfortunata guerra di Lissa (1866), i “Fanti da mar“ fecero parte anche del contingente italiano (1900) a Tien Tsin (Cina), nella feroce lotta contro i boxers cinesi, ove il reggimento ebbe la sua prima M.O.V.M., concessa alla memoria del sottotenente di Vascello Ermanno Calcolo. I “Fanti da mar“ combatterono nella guerra libica (1911), in quella Mondiale del 1915-1918 e infine in Etiopia 1936, ove un reparto, aggregato al 3°reggimento granatieri di Sardegna prese parte alla conquista di Addis Abeba.

Nel marzo del 1919, con Decreto Reale, il reggimento “Fanti a mar“ prese la denominazione di “Reggimento Regia Marina S.Marco “.

Nel 2°Conflitto Mondiale il S.Marco combatté sui fronti di: Albania, Grecia, Dalmazia, Montenegro e infine in Libia e Tunisia.

Gli ultimi marò a consegnare le armi nella Seconda Guerra mondiale, furono quelli del presidio di Tien Tsin e Shangai nello agosto del 1945.

Nota storica: il territorio di Tien Tsin, dopo la conclusione della guerra contro i boxers cinesi nel 1900 e agli accordi del 7 giugno 1902 con la Cina, venne affidato all’Italia con conduzione perpetua; quel territorio aveva una vastità di appena 500 mtq. e sino al 1945 fu sempre presieduto da marinai.

 

Nel 2°Conflitto il reggimento fu comandato dall’ammiraglio Viglieri, uno dei superstiti della impresa di Umberto Nobile al Polo Nord ed era composto dai  battaglioni: Grado, Bafile, Caorle, Tobruch, in un secondo momento venne ad aggiungersi un battaglione Milmart e un battaglione paracadutisti-nuotatori. I primi due battaglioni ad essere formati furono il Grado e il Bafile, in seguito nacquero i battaglioni Caorle e Tobruch. Posto sotto il comando del capitano di Vascello Colotto, il Tobruch fu il primo del S.Marco a operare in Africa Settentrionale  (Cirenaica), si distinse subito nella difesa di aeroporti (nel 4° capitolo ho citato un episodio di cui fu protagonista un reparto del Tobruch, sventando, unitamente a componenti della P.A.I. l’attacco nemico allo aeroporto di Barce). Reparti sabotatori del “S.Marco”, compirono numerose missioni distruttive dietro le linee inglesi di El Alamein, trasportati sulla costa egiziana da nostri Mas. Altre missioni, con reparti NP furono eseguite in Tunisia fra aprile/maggio del 1943. 

I comandanti di reggimento e dei battaglioni erano ufficiali di marina, mentre quelli di compagnia o plotone provenivano dallo esercito ed erano quasi tutti ufficiali dei granatieri di Sardegna. I sottufficiali e la truppa erano composti solo da marinai.

Ogni comandante di battaglione aveva un ufficiale di collegamento dell’esercito con funzioni di consulente per tutte le operazioni militari di tattica terrestre, come sopra detto in generale erano ufficiali dei granatieri. Infatti nel battaglione Grado, l’ufficiale di collegamento era il tenente Rodolfo Pampalone Morisani dei granatieri di Sardegna.

Ogni battaglione era completamente autonomo, le compagnie avevano il loro  plotone esploratori-guastatori e inoltre disponevano di personale altamente specializzato, quali radio telegrafisti, telefonisti e  segnalatori.

Le dotazioni di guerra come armamento, viveri e munizioni davano al battaglione la necessaria autonomia, formando così un unico blocco pronto ad intervenire tempestivamente in qualsiasi punto del fronte.

 

Il battaglione più provato nel corso della guerra in A.S. fu il “Grado“, comandato  dal tenente di Vascello Ernesto De Brazzi distintosi soprattutto in Tunisia per lo spirito di abnegazione e sacrificio. Comprendeva ben 15 ufficiali dei granatieri, molti di essi caddero alla testa dei loro reparti, altri dettero prove di coraggio e di esempio. Nelle battaglie sul fronte di Biserta, Kairouan, Sfax, Susa, Kasserine, i marinai del S.Marco, cercarono di fermare l’inarrestabile avanzata del nemico. Nell’ultima resistenza a Capo Bon, il “Grado”, il Caorle e parte del Bafile, il 13 maggio del 1943, avendo esaurite le munizioni, dovettero cessare ogni combattimento arrendendosi a testa alta e con onore a un nemico che per superiorità di mezzi e di uomini, dominava ormai in Tunisia. Gli alleati riconobbero l’eroica resistenza di un avversario intrepido e leale.

Per i fatti di guerra il battaglione “Grado“ venne decorato di M.A.V.M. con la seguente motivazione...”Ognora distintosi per elevatissimo spirito combattivo, valore ed abnegazione, primeggiò tra i fanti con i quali in Tunisia, per circa sei mesi di aspra campagna, fu costantemente impegnato in battaglia ! “

Anche il Bafile fu decorato con la Croce di Guerra, mentre la Bandiera del reggimento ebbe l’Ordine Militare di Savoia.

 

Il Reggimento S.Marco, ricostituito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, prese parte con i battaglioni Grado-Caorle e Bafile, alla Guerra di liberazione, operando nel settore Adriatico, inquadrato nel Gruppo da Combattimento “FOLGORE”.

 

Oggi il S.Marco nuovamente ristrutturato nel 1965, partecipa a molte operazioni di pace, fuori dai confini d’Italia. ( FOTO N°6-7 )

 

GLI AEROSILURANTI ITALIANI

 

Completezza d’esposizione esige configurare il profilo di questa specialità, che all’inizio della guerra non era ancora in forza nella nostra aviazione, mentre l’aeronautica inglese, già prima dell’inizio del conflitto, possedeva un  efficientissimo reparto aerosiluranti imbarcati su navi portaerei. Infatti   l’11 novembre del 1940 queste formazioni attaccarono il porto di Taranto danneggiando gravemente navi alla fonda e affondando tre nostre corazzate.

Il progetto di quell’attacco era stato del contrammiraglio Lyster il quale lo prospettò all’ammiraglio Cunninghan,allora comandante della “Mediterraneam Fleet”, venne approvato e, come sopra citato, messo subito in atto.

Lo Stato Maggiore dell’aeronautica italiana, a metà del 1937, aveva dato corso allo studio e progettazione di un reparto di esperti piloti aerosiluratori.Il 28 ottobre 1940 fu istituita la prima scuola della specialità, posta al comando del tenente colonnello Carlo Unia. La sua prima sede fu la città di Gorizia  col suo aeroporto, dove affluirono i primi piloti comandati dal capitano Mojoli. Dopo breve tempo fu aperta una seconda scuola presso l’aeroporto di Capodichino (Napoli); avrebbero dovuto essere due basi segrete, ma lo spionaggio inglese, notoriamente attivo ed efficiente  sul nostro territorio, ne venne subito a conoscenza.

Nel giugno del 1940, le due scuole avevano già addestrato un buon numero di piloti, però non si era ancora pensato di produrre un velivolo adatto al siluramento, nonostante l’accurata progettazione. Si ricorse a cercarlo tra quegli aerei che avevano particolari caratteristiche di adattabilità alla bisogna. La scelta cadde sul bombardiere S.M.79, reputato dagli esperti il più idoneo anche se pesante per il particolare impiego. Era tuttavia affidabile per la sua manovrabilità.

 

Già nel 1912, il capitano del Genio Navale Guidoni e l’avvocato Pateras-Pescara, idearono un aereo idrosilurante, ma per ignote ragioni quella invenzione venne brevettata e realizzata dalla marina inglese che creò subito i primi aerosiluranti, impegnandoli nella guerra 1914-1918 nel Mar di Marmara ( tra l’Egeo e il Mar Nero).

 

Addestrati i piloti, trovato l’aereo adatto, iniziarono le difficoltà a causa della parsimonia con cui venivano forniti i siluri a questa nuova specialità. In Italia tre erano le fabbriche che producevano siluri: la Whitehead di Fiume, la S.I. di Baia (Napoli) e la Moto-Fides di Marina di Pisa, ma tutte e tre lavoravano sia per la marina italiana che per quella tedesca e anche per la Luftwaffe e quando si presentò la necessità di rifornire gli aerosiluranti nacquero le difficoltà nelle consegne. L’inconveniente venne comunque risolto sia dalle fabbriche che dal Ministero dell’Aeronautica adottando il siluro modello SW.170, ridotto come lunghezza e adattato al trasporto aereo.

 

Tale tipo di siluro, denominato poi “siluro SW” (per Whitehead), pesava 800 kg., era lungo 5,46 metri, aveva un diametro di 450 mm. ed una carica esplosiva di 170 Kg. Veniva lanciato dall’aereo a una velocità di 300 Kmh., da una distanza di 700 metri e da quota di appena 60 metri. Intrepidi e spericolati piloti, come il maggiore Buscaglia, i tenenti, Faggioni, Marini, Graziani, Aichner ( tutti M.O.V.M.), riuscivano ad avvicinarsi all’obiettivo sino a 300 metri di distanza.

 

Nel menzionare questi piloti, almeno di uno di essi è bene che il lettore venga a conoscerne il curriculum militare, si tratta di Carlo Emanuele Buscaglia, maggiore pilota. ( FOTO N°8-9 )

Piemontese di nascita, a soli 26 anni fu promosso maggiore per eccezionali meriti di guerra; il suo passato era costellato da eroiche azioni, si fregiava di ben 6 M.A.V.M. e della Croce di Ferro tedesca di 2^Classe.

Nel 1938 completato il Corso presso l’Accademia Aeronautica, conseguito il grado di sottotenente venne assegnato alla 50^squadriglia del 32°stormo bombardieri terrestri. Nei primi mesi del 1940, fu destinato a Pisa con il grado di tenente presso la 252^ squadriglia del 46° stormo B.T.

Ufficiale profondamente convinto della sua missione, fu severo innanzitutto con se stesso, ligio al dovere e sempre primo nelle più spericolate missioni di guerra.

 

Allo scoppio delle ostilità, venne inviato ad operare sul fronte Occidentale (Francia) dove si meritò la prima Medaglia d’Argento e la promozione a capitano.  Costituito il 1°Nucleo Aerosiluranti (Gorizia), Buscaglia ne fece parte, divenendo in poco tempo il più audace tra gli Assi aerosiluratori della aviazione italiana, quale furono: il tenente Giulio Graziani, il capitano Carlo Faggioni (caduto ad Anzio nel 1944, mentre tentava di ostacolare lo sbarco anglo-americano in quel settore, il Faggioni aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana), i tenenti Martino Achner e Marino Marini, il capitano Giuseppe Cimicchi, i maggiori Massimiliano Erasi e Arduino Buri, tutti decorati di M.O.V.M. e ancora i sottotenenti Carlo Pfister, Luigi Rovelli, Aldo Forzinetti e il tenente Mario Mazzocca (mio concittadino) tutti decorati con M.A.V.M.

 

Ai piloti Faggioni, Marini e Buri la loro Medaglia d’Oro nel dopoguerra venne revocata solo perchè avevano aderito alla R.S.I., atto deprecabile fra i tanti operati dalle commissioni ministeriali preposte (sempre nel dopoguerra) al riesame di proposte di ricompense per fatti di guerra avvenuti prima dell’armistizio. ( FOTO N°10-11 )

                                                                 

L’infausto 8 settembre del 1943 divise l’Italia ma soprattutto la coscienza di valorosi soldati che ritennero schierarsi in opposte posizioni chi al Nord chi al Sud. Ma in ogni caso essi combatterono in obbedienza al loro ideale ed aldisopra di ogni interesse personale, combatterono tutti solamente per l’Italia. Non esito a riconoscere che queste considerazioni esulano dall’imparzialità, ma non posso non esprimere questo mio pensiero.

 

Il 12 novembre 1942 durante un’azione contro il porto di Bougie (Algeria), alla quale parteciparono 6 aerosiluranti italiane, l’aereo del maggiore Buscaglia fu abbattuto dagli Spitfire inglesi e precipitando in mare esplose.

Al rientro nella base di Castelvetrano dei 5 superstiti aerei, venne confermata la morte di Buscaglia e del suo equipaggio; lo stesso Bollettino di guerra n°901, emesso dal Quartiere Generale delle nostre Forze Armate, comunicava agli italiani l’eroica morte dell’Asso degli aerosiluratori, al quale venne subito concessa la M.O.V.M.

 

L’equipaggio dell’aereo del maggiore Buscaglia in quella incursione era composto come segue: 1°pilota C.E.Buscaglia, 2°pilota sergente maggiore Francesco Sogliuzzo, sergente marconista Edmondo Balestri, 1°aviere armiere Valter Vecchierelli, 1°aviere motorista Vittorio Vercesi, 1°aviere fotografo Francesco Maiore.

 

In quella azione accadde un fatto sorprendente: nell’aereo abbattuto non tutti perirono, due dei componenti l’equipaggio nell’impatto in mare e a seguito della esplosione vennero sbalzati fuori dall’aereo. Erano il maggiore Buscaglia e il 1°aviere Maiore che raccolti da una imbarcazione inglese furono prima trasportati in un ospedale francese poi in uno inglese. Le condizioni dei due erano gravissime tanto che il Maiore morì dopo due giorni tra atroci sofferenze, il maggiore pur essendo ustionato in quasi tutto il corpo e con gravi ferite al capo riuscì a cavarsela. Ad onore della verità si deve registrare che portato in Inghilterra venne curato con ogni attenzione dal personale medico sia militare che civile e quasi completamente guarito fu deportato in America sempre come prigioniero di guerra.

Dopo l’8 settembre, quando l’Italia del Sud era passata a combattere a fianco degli anglo-americani, il Maggiore Buscaglia rientrò in Italia e prese servizio agli inizi del 1944 nella nuova aviazione del Sud. Assegnato ad una formazione da bombardamento con apparecchi americani “Baltimore”, partecipò ad azioni contro truppe tedesche in Jugoslavia, ma solo come secondo pilota non avendo ancora l’abilitazione per il bimotore M.187 “Baltimore”

 

Desideroso di pilotare da solo quel tipo di apparecchio una mattina all’insaputa di tutti, salì su un “Baltimore” per  decollare; purtroppo l’aereo non rispose ai suoi comandi e precipitò al suolo esplodendo. Buscaglia morì sul colpo. A Bougie nel 1942 nella stessa drammatica situazione ne uscì invece vivo anche se gravemente ferito, a Campo Vesuviano (Napoli), in territorio italiano, la morte lo colpì.

 

Molte furono le congetture su quella strana vicenda, si disse allora che il maggiore avesse cercato di portarsi al Nord per raggiungere altri valorosi compagni che avevano aderito alla R.S.I.; altra “diceria” fu l’accusa di non essere più in grado di pilotare da solo un aereo, a causa delle gravi ferite riportate a Bougie che ne avevano menomato oltre che il fisico anche la psiche, si tratta di solo “supposizioni”. La vera ragione a mio avviso è da attribuirsi al destino avverso.

La temerarietà nelle sfide ha sempre un limite invalicabile.

 

Ancora o

 

 
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