La stanza di Andrea Amedeo Sammartano


Andrea Amedeo Sammmartano
   



Festa grande alla Dahra
       


 

Capitolo IV°

 

 

Tripoli, con molto rammarico, sembrava di colpo meno bianca, meno pigra, più occidentale e contemporanea e lasciava indietro il resto del Paese. Un po’ per uno svantaggio oggettivo, ambientale e culturale, un po’ perché volutamente restio a lanciarsi a capofitto tra le braccia imbonitrici di un effimero benessere, la Libia aveva accumulato un ritardo che la inchiodava ai sentieri sterrati praticati a piedi scalzi.

       Corso Vittorio, così ordinato e propizio, per l’ampiezza della sua sede stradale, allo sfoggio delle novità motorizzate e non, era sempre più frequentato e ormai prossimo a contendere il primato di presenze giornaliere al vecchio Suk el Turk: un inestricabile groviglio di imprevedibili, strette zanghette compresse al limite dell’ostruzione

 

Suk el Turk

 

 

dal deflagrare delle rampicanti mercanzie che aggredivano ogni centimetro quadro, all’interno e all’esterno di ogni esercizio commerciale, disponibile o indisponibile che fosse. Moderne, adescanti offerte pubblicitarie trasformavano abitudini sane e consolidate in nuove inclinazioni che, a differenza della solidità più sobria e misurata delle prime, generavano illusorie e via via più estreme sensazioni di immediato benessere. La latteria Girus per le colazioni e la pizzeria Bascetta per le merende avevano insinuato la convinzione e il piacere che di lì a poco avrebbero quasi definitivamente fatto dimenticare il gusto semplice del pane inzuppato nel caffelatte del mattino o del pane, burro e zucchero del pomeriggio, che da sempre calmavano in modo genuino gli spasmi di insaziabili appetiti giovanili.

 

«Adesso fai merenda, poi ti vai a divertire» raccomandava ad Amedeo la nonna Angela, rispettata per la profondità delle rughe che le solcavano il volto, acceso da quegli occhi azzurri che gli aveva trasmesso. Era stata lei il suo nume protettore ed educatore, e da qualche mese era mancata.

Il passare del tempo, terribile despota che forgia anche la tempra più tenace, non era riuscito a cancellare la traccia che quella figura, più di ogni altra, gli aveva lasciato nello spirito in termini di vivace e critica consapevolezza. E questa cozzava infastidita contro l’evolversi rapido e impenitente di ogni nuova indole che invadeva con mirabolanti e amorali cambiamenti tutti gli aspetti del comportamento tra esseri umani, che fossero semplici conoscenti, intimi o innamorati. Ogni considerazione su tale argomento lo riportava alla semplicità del passato, e il ricordo nostalgico di un momento, di una confidente e umana amicizia, del calore di un sentimento provato lo induceva a distogliersi da ciò che il progresso vagheggiava per il futuro prossimo o lontano. Egli aveva accorciato il metro che determinava l’opportunità di mantenere contatti e conoscenze e, ridotte per conseguenza le amicizie, gli si era affinata l’abilità di frequentare, valutare e approfondire unicamente le persone ritenute più interessanti. Nel suo distendersi, si dirigeva invece con fare propositivo incontro a un universo fino a poco tempo prima sconosciuto che lo affascinava e in cui era stato introdotto da Nuri e Leila; mentre sentiva che i luoghi ai quali era legato in precedenza, ossia la sua casa e il circolo, pur restandogli nel cuore avevano esaurito ogni missione con lui.

La Cattedrale di Tripoli, una chiesa in stile romanico progettata nel periodo coloniale, dominava piazza Ben Bella, che si dilungava a destra nei portici delle poste centrali, a sinistra in quelli che sovrastavano il Bar Bomboniera e si protendevano senza fine lungo corso Vittorio Emanuele

 

 

La Cattedrale Corso Vittorio

 

 

per planare, dopo il Caffè Commercio, ai piedi del castello Al Hamra, all’ingresso della Medina. Sul quarto lato della piazza, la musica si diffondeva ruffiana e sinuosa come una danzatrice del ventre, sotto la galleria dell’ex Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, che ospitava un allegro locale all’aperto, dove narghilè e scatole di domino rilassavano gli umori degli immancabili, pigri avventori.

 

 

Il Castello al Hamra Galleria dell'ex Istituto Nazionale della Previdenza Sociale

 

 

Tra di loro, vi erano spesso Nuri e Amedeo, che si ritrovavano lì nel primo pomeriggio per aggiornarsi sugli accadimenti.

In quegli ultimi mesi del 1967 non mancarono notizie sulle quali dibattere. Una su tutte: la caduta, agli inizi di ottobre, del governo presieduto da Abdul Qadir Badri. In verità era Nuri che, forte della fonte casalinga e della padronanza della lingua, che gli permetteva di interpretare propaganda e notiziari ufficiali di tutte le emittenti arabe, informava ed educava l’amico, sempre pronto all’ascolto e in allerta come un cane da caccia in punta verso la sua preda.

«La destituzione di Badri evidenzia il nervosismo del re. Egli è, comunque, sempre più opportunisticamente attento alle reazioni popolari, che di fatto hanno bocciato anche questo Primo Ministro. Ora punterebbe su Abdullahmid Bakkush, un nazionalista che da giovane ha partecipato in modo molto attivo alle manifestazioni antioccidentali, ma che adesso è di idee moderate e liberali. Servirà quindi a calmare il malcontento solo per un po’. Bakkush piace molto agli americani, perché nel corso di una conferenza stampa ha esternato il suo auspicio di poter accelerare l’ingresso della Libia nel mondo moderno, favorendo la partecipazione a tale progetto di elementi della nuova generazione dotati di un approccio concreto alla realtà tecnologicamente più avanzata: in politichese, ha ingolosito i nazionalisti, e in parole chiare è un benvenuto al mercato statunitense.»

Abdul Qadir Badri. Abdullahmid Bakkush

«Ha detto proprio questo?» lo frenò Amedeo per un attimo.

«Non è così stupido e sa cosa dire. Ha però abilmente mimetizzato la svendita del Paese con la necessità di modernizzazione, che in giusta misura può anche servire, poi è venuto allo scoperto quando ha furbescamente soltanto accennato all’imprescindibile potenziamento della politica di difesa libica e alla definizione di un piano, coerente con gli accordi stipulati nel 1953 e nel 1954, per la dismissione delle basi militari straniere.»

«È un innegabile passo indietro, questo approccio così contenuto e conservatore! Possibile che la gente non capisca? Tu cosa ne pensi, Nuri?» lo sollecitò.

«Sulla prima questione penso che con “potenziamento della politica di difesa” intenda giustificare i milioni di sterline che investiranno per ingrassare l’industria bellica americana e inglese. Sulla seconda devo dire che l’espressione “piano coerente con gli accordi stipulati nel 1953 e 1954” non è un semplice passo indietro, è una ricusazione di tutto quello per cui ha manifestato con passione nei suoi anni giovanili. Ricordo quando insisteva sulla chiusura immediata delle basi.»

«Ecco che arriva Leila» disse Amedeo, alzandosi repentinamente dalla seggiola e segnalando la loro presenza alla ragazza che, incerta nel procedere, li cercava in mezzo alla numerosa clientela adagiata tra i tavolini.

D’un tratto la radio interruppe la musica e una voce solenne sembrò comunicare qualcosa di rilevante.

«

«Penso sia più opportuno andare a fare due passi» invitò Amedeo avvicinandosi con molta discrezione all’amico e alla fidanzata, come a preoccuparsi che nessun altro ricevesse quel messaggio.

Quindi, con maggiore cautela, aggiunse: «Ho notato un paio di tizi che allungavano le orecchie per ascoltare i commenti della gente. Che cosa ha detto la radio di così urgente?».

«C’è stata la nomina ufficiale di Bakkush a primo ministro» spiegò Nuri alzandosi in piedi e dirigendosi disinvolto alla cassa.

Lasciarono il caffè dalla parte opposta alla piazza. Da quel lato la galleria si apriva ai verdi, freschi giardinetti, così piacevolmente contrastanti con il calore diffuso e appena attenuato da una giovane brezza marina. Passando accanto alla vasca rettangolare dai bordi marmorei squadrati e dal fondale di un azzurro chiarissimo, racchiusero preoccupazioni e aspirazioni fondendole in un tutt’uno, per iniziativa di Leila che, attardatasi di poco, li raggiunse di slancio e si avvinghiò alle loro braccia.

Verso est aggredirono in leggera salita la passeggiata orientale del lungomare che costeggiava il Grand Hotel e la rotonda della gazzella.

 

 

Piazza Gazzella

 

 

Senza affanno, seguitarono in direzione del Circolo Italia e subito dopo verso il Waddan, dove Nuri avrebbe incontrato la frangia più radicale dei nazionalisti. Amedeo e Leila proseguirono fianco a fianco sino all’ambasciata italiana. Poi attraversarono la strada e tornarono indietro di qualche passo lungo la balaustra a colonnine da dove avevano scrutato il porto con occhi da bambini. Lui, adorandola con uno sguardo, le sussurrò: «Ti porto in un bel posto».

Non fece in tempo a dirlo che già l’aveva trascinata, azzardando una presa delicata alla maglietta, giù per le scale che conducevano sull’arenile portuale, dove una baracca e uno smilzo pontile di legno in prosecuzione verso l’acqua costituivano casa e attracco per Giuma, un vecchio pescatore suo amico. Una barba brizzolata e incolta faticava a coprire gli scavi sul volto incartapecorito dagli attacchi simultanei del sole e del sale che, spesso alleati della fame, avevano scolpito e patinato anche il resto di quel corpo color rame. In compenso, non una fibra del suo spirito era stata intaccata dalle ingiurie dell’iniqua condizione in cui aveva vissuto; al contrario, pareva che solo piaceri e soddisfazioni ne avessero plasmato sia la fiera postura naturale, ora impercettibilmente ricurva, sia l’animo che si rifletteva generoso nella luce scura e antica dei suoi occhi. Salutò per primo da lontano e andò loro incontro  per poi accompagnarli, come a voler fare strada, e sorridendo a entrambi disse: «Spero che mio fratello Amedeo non sia venuto a pescare le mormore oggi, ma a far conoscere il luogo più bello alla ragazza più bella di Tripoli».

 

«A farle conoscere questa meraviglia, il suo padrone, e a insegnarle a pescare le mormore, Giuma. Hai un po’ di impasto?»

«Le canne sono sul pontile, campione, controlla se manca qualcosa, io preparo l’esca in un attimo.»

I due ragazzi si sfilarono scarpe e calze, e guardandosi come per alludere a un rituale già vissuto si sorrisero schivi. L’acqua tiepida al contatto delle dita dei piedi cambiava repentinamente da un’impressione a un’altra per l’effetto di mille traiettorie impazzite, accorse d’istinto in superficie, affamate.

«Sei fortunata – osservò Amedeo – oggi è un giorno buono per imparare.»

«Ora è il momento giusto» li sorprese Giuma, porgendo l’impasto di acqua, farina e formaggio che appallottolarono all’amo per provare il primo lancio.

Come in preda a un’inspiegabile frenesia, l’acqua mutò per un istante colori e riflessi, e poi solamente uno dei tanti luccichii accorsi fuoriuscì balzellante nell’aria appeso a un amo: quello di Leila! Dopo un attimo di incredulo stupore, lei sorrise, non incredula bensì sguaiata, senza pudore o riserbo, in un incontrollabile convulso sghignazzo, facendosi burla del “maestro”, così colpito e umiliato.

Notato l’accaduto, per non affondare del tutto l’orgoglio dell’amico, e a stento trattenendo l’impulso di prenderlo in giro, il vecchio pescatore si ritirò nella baracca dalla quale, dopo qualche attimo, si diffuse un buon profumo misto di brace ardente, noccioline tostate, menta e tè forte: questo, assieme a un pezzo di pane con tonno e salsa harissa, era il suo pasto prima dell’uscita al largo per la tesa notturna. Senza accorgersene, quasi per un incantesimo, i due giovani avevano smesso di pescare, e se ne stavano sul pontile, sedotti da quanto vedevano intorno. Le reti, armate di sugheri rossastri e piombi schiacciati, attendevano impazienti sul fondo di poppa del Signore del deserto che, attraccata al pontile, ballava lenta e a tratti una danza sensuale. All’interno del porto, sia i bastimenti immobili, indaffarati in operazioni di carico e scarico, sia quelli in lieve movimento d’arrivo o di partenza, si uniformavano rispettosi alla quiete di un pomeriggio terso che volgeva al termine, rotta da sordi, radi suoni di sirene, attenuati da scuri, stanchi sbuffi di ciminiere tremolanti. Anche le poche automobili, che assecondavano il lungomare sovrastante la piccola depressione che li ospitava, sfilavano discrete, deferenti e opache. Nessuno e nulla, lì, eccedeva, a parte i pensieri.

 

Non era sopportabile, in tre cuori pacificati ed estasiati da un così semplice spettacolo, il fiele irritante e provocatorio dell’ingiustizia, pronto a sciogliersi e a diffondersi per angustiare impotenti maggioranze e privilegiare insolenti, ipocrite minoranze. Amedeo vide trasparire dal fondale i corpi impuniti, fluttuanti e genuflessi dei responsabili di tanto dolore, che avevano di colpo, come banderuole al vento, cambiato atteggiamento e mimica facciale per riciclarsi, con mossa tardiva quanto inutile, in una nuova, stabile, equa realtà. Un bicchierino conico, zigrinato, colmo di tè e minuscole noccioline tostate lo distolsero da quel moto immaginario di stizza violenta. Il liquido scese forte e caldo tra le viscere, esondò all’altezza del petto e cristallizzò, facendolo precipitare, il veleno giallo che aveva intorbidito una buona parte di quel limpido pomeriggio. Leila gli cinse il fianco con un braccio e appoggiò leggera la testa sulla sua spalla sostenuta dalla sponda del pontile. Giuma, ricco dell’ospitalità offerta, seduto su una panchetta, aspirava sognante e avido una sigaretta, una Gefara estratta da un pacchetto basso, squadrato, in cartoncino rosso.

 

«Non siete mica sul porto di New York che vi potete permettere di stare abbracciati senza preoccuparvi di niente» li colse di sorpresa Nuri, affacciato con aria irridente dalla balaustra sopra le loro teste, che a destra scorreva fluida e ondulante come il corpo di un serpente, accompagnata da immobili, scapigliate palme lungo il tragitto che si interrompeva sul molo grande, ai piedi del vecchio Castello Rosso.

«Faddl ia Nuri» lo invitò Giuma, che evidentemente lo conosceva, indicandogli il vassoio con i bricchi ancora fumanti di tè.

Non se lo fece ripetere, sapeva della qualità di quell’infuso, e scesi gli scalini due a due, li raggiunse raggiante, irriconoscibile nell’umore rispetto a quando lo avevano lasciato, un paio d’ore prima, sotto l’albergo Waddan per la riunione ristretta.

L'Albergo Uaddan

A metà bevuta si accorse anche lui della suggestione di quel tardo pomeriggio; estrasse con le dita le ultime noccioline attaccate sul fondo e, masticandole, abbracciò il pescatore che si apprestava a salpare e gli disse, indicando in alto un’ipotetica insegna: «Da Giuma, il miglior tè nel posto più magico di Tripoli. Se non fosse per il fatto che poi rimarremmo senza pesce, ti obbligherei ad aprire un caffè».

Il vecchio, onorato, gli sorrise, prese a tracolla una coppia di bisacce, ringraziò come se stesse uscendo da una casa non sua, salutò saltando sul pontile e si calò sulla barca liberata dall’ormeggio, per dirigersi con lente vogate verso il molo orientale, dove raggiunse una grossa lampara.

Svelti, Leila e Amedeo sciacquarono le tazze del tè e ripristinarono l’ordine trovato, poi si sedettero accanto a Nuri, incalzandolo quasi con fare di rimprovero, perché era evidente che c’erano delle novità e sembrava che lui si divertisse a farle cadere dall’alto.

«Non è come pensate» iniziò il giovane berbero e mentre parlava non si capiva se fosse entusiasta o preoccupato per l’evolversi dei fatti.

 

Il resoconto che seguì colpì i suoi interlocutori per due considerazioni: la prima, se mai fosse stata in dubbio, riguardava l’acutezza e la chiarezza con le quali Nuri e compagni avevano inquadrato tutti gli schieramenti in campo e le possibili evoluzioni che la successiva battaglia per il potere avrebbe potuto avere; la seconda si riferiva all’impressione netta che i nazionalisti più radicali – quindi Nuri e da quel momento, se pur più marginalmente, loro stessi – avessero sconfinato con i loro propositi su un terreno insurrezionale. Il presentimento era che questi ultimi avessero la possibilità di seguire la trama degli avvenimenti da un punto di osservazione strategicamente favorevole, sia per la loro perspicacia politica, sia per il vantaggio di poter usufruire di probabili informazioni riservate. Proseguendo nel rendiconto, pareva certo che il re si fosse convinto che la capacità di governare del suo legittimo erede, il nipote Hasan al Rida, era molto limitata e che la durata della monarchia in Libia sarebbe dipesa dalla sua permanenza al trono.

Re Idriss Hasan al Rida

 

 

 

Gli inglesi, di concerto con Omar Shalhi, consigliere personale della Corona, avevano concordato con il sovrano l’ascesa ai vertici dell’esercito del colonnello Abdul Aziz Shalhi, fratello di Omar, creando le condizioni, in caso di estrema necessità, per l’insediamento di una repubblica a conduzione militare. I sudditi di Sua Maestà britannica, lì a complottare, e gli americani alla finestra, a osservare da finanziatori, rappresentavano la migliore delle garanzie per il massimo della durata della reggenza di Idris el Senussi. Da parte occidentale, la monarchia e il colonnello Shalhi erano ritenuti, per gli interessi che rappresentavano, il riferimento più sicuro per il buon fine dei programmi militari ed economici di Inghilterra e Stati Uniti.

Tra le due potenze i rapporti non erano cristallini, per il perdurare della posizione privilegiata di cui godevano gli inglesi nella considerazione del sovrano, nonostante le loro intenzioni di progressivo disimpegno già accennate. Tuttavia, l’Occidente doveva mantenere il controllo militare nello scacchiere mediorientale, minacciato dalla crescente influenza ideologico-commerciale che l’Unione Sovietica generava nei Paesi arabi e non solo. Inoltre, il rilevantissimo aspetto dell’investimento economico, in termini di sfruttamento delle risorse e di esportazioni di armi e tecnologia, rendevano la Libia un obiettivo prioritario. I nazionalisti moderati, seconda forza in campo nel panorama illustrato da Nuri, auspicavano un passaggio indolore dalla monarchia a una repubblica parlamentare che mantenesse le alleanze e le basi aeree straniere fino alla naturale scadenza degli accordi, per poi prorogarli, e che difendesse i privilegi della classe politica, finanziaria e affaristica. Anche loro, vezzeggiati da inglesi e americani che poggiavano i piedi su più staffe, avevano perso il consenso del ceto meno agiato ma socialmente più attivo, formato da studenti e giovani ufficiali dell’esercito. Si identificava proprio in questi ultimi la terza forza in campo che lui, con genuina, disinteressata passione, avvalorata dalla sua evidente, diversa e non sospetta estrazione sociale, rappresentava descrivendola teneramente, come ad assecondarne e proteggerne uno sviluppo, ora precoce e a breve dirompente. Un attimo di palpabile, partecipata riflessione coinvolse quel luogo e i tre presenti che, sorpresi, per un istante quasi trascesero.  Avvenne probabilmente in quel frangente il passaggio definitivo da un livello di lotta all’altro, e quando si riebbero erano ormai al di là del guado.

“Che cos’è che ti lega a una causa che non sia un basso, volgare interesse personale?” si chiedeva tra sé Amedeo, ascoltando l’amico e scrutando, non visto, il rapimento della sorella a quelle parole. Pensava infatti in quante sfumature avrebbero potuto differenziarsi, per genesi e successiva maturazione, la sua adesione al progetto e quella dei due fratelli berberi, apparsi in un sogno inaspettato e materializzati nell’intimo legame che saturava l’aria, rendendo più affannosa la respirazione, ripresa dopo averla sospesa qualche secondo.

 

Soltanto allora Leila si accorse di essere osservata e Nuri, stupito, come destato, ricominciò ad annodare le maglie che instancabili favorivano quell’incantesimo nella sua trasformazione. Cosa saremmo senza la parola! Se non diffidenti e incompresi, certo più lontani e impauriti. Eppure sono solo alcuni momenti improvvisi, quieti e silenziosi, colmi di sguardi teneri in cui si condividono emozioni preziose e profonde, ad aprire lo spirito all’accoglienza e alla fiducia incontaminata. Quella indefinibile pausa aveva suggellato un legame, un vincolo stretto in silenzio e senza simboli ai quali appellarsi, cementato da una comune, semplice partecipazione emotiva. Tra loro e in ognuno di loro per quella terra offesa, un confidente affidamento tracciava e spontaneamente indicava la strada da seguire con tenacia e il nemico da abbattere senza remora o attesa. Tanto che Amedeo, voltandosi d’istinto verso il mare, colpì a morte con lo sguardo quei corpi responsabili genuflessi, invocanti con visi truccati e mutati, pronti al riciclo, senza più corone in testa o tronfie uniformi o lugubri divise clericali, non più incravattati in obsoleti doppiopetto, in fila sul pontile, abbattuti dagli sguardi interroganti degli umili e degli offesi, e dalla vergogna di se stessi per non aver avuto il coraggio di prostrarsi prima.

«D’ora in poi dovremo considerarci parte attiva di un anomalo movimento rivoluzionario che si è costituito quasi senza alcuna formalità. Anche se nella nostra società non esistono strutture organizzate, un forte sentire, comune alla netta maggioranza della popolazione, sarà il fondamento sul quale montare i sostegni per un vero cambiamento. L’organizzazione è presente là dove serve, ma dove non serve, in un Paese destrutturato come la Libia, sarebbe unicamente un pericolo. Il nostro compito come soggetti intermedi è quello di evidenziare, con chi non ha sufficiente capacità critica, l’iniqua sproporzione della distribuzione delle ricchezze di questo Paese. È un lavoro che va effettuato con la massima discrezione, quasi distaccati, mai con toni troppo accesi, mai in convegni prestabiliti, ma solo durante i quotidiani scambi di idee, ognuno nel proprio ambito. Noi non avremo mansioni dirette, dobbiamo preparare un terreno che si saprà identificare in un modo o nell’altro a seconda di quale forza prevarrà nella disputa in atto.»

Nuri si concesse una breve pausa, come a verificare di non aver lasciato nulla in qualche piega della memoria per il coinvolgimento che lo accalorava.

 

In questa pratica dimostrava di volare veramente alto. In poco tempo, grazie alla sua smisurata passione suffragata da un autentico intuito, aveva raggiunto vette così elevate che gli avevano fatto guadagnare, seppur giovanissimo, un posto rilevante in seno all’organizzazione che frequentava. Leila ne era quasi certa e con Amedeo non aveva fatto mistero.

«Quello che vi ho appena suggerito di fare non è frutto della mia improvvisazione, ma di una scelta intenzionale di chi sarà più direttamente coinvolto nell’azione. I comportamenti e le abitudini fino a oggi adottati dovranno essere la falsariga sulla quale poggiare i prossimi. Se riusciremo in questo, mi sento di esprimere un certo ottimismo.»

Ci volle qualche secondo perché Amedeo o Leila, che con molta evidenza avevano accusato una miscela di apprensione e lieto stupore per l’importanza di quanto esposto, tramutassero in entusiasmo le prime impressioni ricevute. Non avevano immaginato che Nuri potesse essere a uno stadio simile nella preparazione del piano: il passo però era fatto e il vuoto in termini di partecipazione attiva che avevano provato fino ad allora poteva essere colmato. Davanti a loro due, già così legati uno all’altra, si aprivano le porte per assaporare l’intensità di una sovrapposizione di slanci che li avrebbe messi alla prova.

Si era fatto tardi e tornando verso l’abitazione dei due fratelli, annusavano l’aria in cerca del cambiamento e pareva loro di notarlo in ogni sfumatura diversa dall’ordinario che i loro sensi riuscivano a cogliere. L’inconsueta confidenza che i passanti dimostravano, l’insolito lieto e non lamentoso richiamo alla preghiera del muezzin dalla moschea, l’accentuata anarchica sinfonia dei clacson della trafficata piazza Castello e la generosa accoglienza di luci, suoni e movimento che sembrava offrire l’imbocco verso i portici di corso Sicilia, mitizzavano ai loro cuori un’aurora imminente. Ancora due minuti e avrebbero raggiunto il “Colosseo”  

 

 

 

 

e, attraversata in quel punto la larga strada, si sarebbero ritrovati di fronte al portone del palazzo che ospitava Nuri e Leila. Quando furono lì quest’ultima ebbe un sussulto e disse al fratello: «C’è papà davanti casa e ci sta salutando».

Nuri, intuendo l’imbarazzo di Amedeo, gli appoggiò la mano sull’avambraccio per tranquillizzarlo: «Non ti preoccupare, mio padre sa tutto di me e di te, come sa tutto di te e di Leila, e non è affatto contrariato».

Nonostante le premure dell’amico, attraversare la strada per lui non fu semplice. Eppure, una volta giunto viso a viso con il giovane ufficiale dell’esercito, in quel momento in borghese, l’imbarazzo fu annullato dal garbo con cui fu messo a suo agio.

Fatte le presentazioni e dopo aver invitato i figli a precederlo in casa, il militare chiese il permesso di parlargli.

«Ci vediamo al Beach Club sabato sera, va bene?» salutò Nuri, seguito da un cenno della sorella.

«Allora Amedeo… ci tenevo a incontrarti, sebbene sia già a conoscenza di alcuni fatti che ti riguardano, perché vorrei dirti almeno due cose in una. So che ti interessi con vero trasporto a Leila e so che con uguale forza ti stanno a cuore le sorti del nostro Paese. Senza nulla togliere a Nuri e a mia moglie, sono anch’io nella tua stessa condizione.

 

La cosa che ti chiedo in entrambi i casi − non ti appaia come un freno, anzi − è la prudenza. Ora vado, non è mia abitudine dilungarmi sulle questioni con persone sveglie» e gli porse la mano per congedarlo.

Il giovane rispose al gesto assicurando: «Spero di dimostrare con i fatti piuttosto che con le parole quanto io terrò in considerazione il suo consiglio».

Si sentì ufficialmente investito di una doppia responsabilità e una smania lo colse e lo spinse, ingenuo nel pensiero, fin sulla soglia di qualche inutile bravata. In quel momento di fantastica esaltazione, avrebbe voluto mostrare il proprio coraggio in entrambi i campi che coinvolgevano la sua passione, ma pensò bene di mettere a frutto l’esortazione appena ricevuta per tornare, almeno nella realtà, con i piedi per terra.

Era quasi l’ora di cena e affrontò con premura il lungo tratto di strada dalla chiesa della Madonna della Guardia fino al rilievo della Dahra, passando proprio nel cuore della città.

 

 

Chiesa della Madonna della Guardia

 

 

Per quanto allungasse il passo, lo stato di ebbrezza per quel pomeriggio, appagante e propiziatorio, lo tratteneva in centro, là dove erano probabili i festeggiamenti popolari nel caso di un buon esito delle vagheggiate speranze. Andava più veloce per superare l’ingresso del Banco di Roma, ma subito dopo moderava il passo per immaginare la nuova insegna: Banca Senza Interessi di Libia. Deviava dal tragitto per raggiungere la Barclays Bank di Shari al Fath per sostituirla a suo piacimento con la Banca Popolare Africana. Dopodiché, allontanandosi dal percorso più breve, rasentando la Cattedrale e risalendo davanti alla Fiat, senza cambiare la sigla, ne dava una nuova interpretazione: Fondo Internazionale di Aiuti per Tutti.

Ormai era lì a due passi, e sulla cancellata del Palazzo Reale affisse, o fantasticò di farlo, la targa «Biblioteca Universale». Nel frattempo si era fatto buio, le scritte non si leggevano più, e Amedeo a poco a poco rientrò in sé. Alla porta della Dahra salutò Hag Tarabulsi che appena lo vide gli chiese: «Hai buone notizie? Ti vedo di fretta e splendente».

 

«Spero per te che presto non ci sia più bisogno di fare la guardia.»

E con un gesto della mano, se ne andò rapido, lasciandolo un po’ perplesso.

L’unica bottega ancora aperta all’angolo del suo palazzo era il caffè di Hag Hossein. Stava riponendo seggiole e tavolini con il figlio Salah, mentre la radio produceva gli ultimi sforzi di quella giornata, che però non sembravano densi di novità entusiasmanti, anzi, si spensero stonati come un miagolio insieme alle luci del locale.

Amedeo varcò il portone del suo condominio e nell’atrio, dove viveva la signora Elvira, infermiera di professione, incontrò l’ultimo cliente del giorno disposto a farsi bucare le natiche da mani esperte. Quando entrò in casa, tutto gli apparve troppo scontato, in ordine: Roberto aveva quasi finito di cenare; la zia Giuseppina lo salutò, già pronta a infilarsi sotto le coperte; la mamma, nella sua distaccata disponibilità, si affrettò a servirlo senza sfiorarlo con una carezza e il padre era fuori a pescare. Mancava solo la nonna Angela e quell’assenza non era poco.

Dopo il pasto, avvertì che sarebbe andato al circolo: non aveva intenzione di permettere a quella lunga giornata di chiudersi senza un segnale di rivolta dal mondo che frequentava prima di conoscere Nuri e Leila. Intanto, sbalordendolo e lasciandolo  senza parole, invitò il fratello a uscire per dargli un primo segnale di cambiamento che scuotesse quella stagnante circostanza casalinga. Poi, con uno slancio che condensava la necessità di distaccarsi dalla noia di un’ordinata consuetudine, baciò la mamma e la zia che si guardarono incredule.

Prima di raggiungere l’associazione parrocchiale volle recarsi nella sede della sua squadra, El Nadi Dahra, che non aveva mai nascosto antipatie per l’arroganza del potere anche in ambito calcistico. La straordinaria e imbarazzante accoglienza fraterna che lo investiva quando si recava là era la norma: ognuno dei presenti si alzava e, abbandonando il gioco o la discussione in atto, si contendeva il privilegio di offrirgli la propria confidenza, dando prova di accreditarlo come uno dei loro. E questo avveniva non solo perché giocava in quel club, ma perché più volte aveva manifestato la propria partecipazione alle iniziative culturali e sociali che esso proponeva.

Quando arrivò l’altro giocatore italiano, il portiere Italo Papetti, l’atmosfera e i cori per l’approssimarsi di una partita molto sentita si scaldarono, al punto che la dirigenza e gli atleti locali si videro costretti a metterli al riparo in una stanza appartata. Fu lì che Amedeo ne approfittò, pur senza dare l’impressione di appassionarsi troppo, per orientare la conversazione sul tema politico, ma l’occasione gli offrì giusto un sorso di quel nettare nel cui invaso avrebbe voluto immergersi.

  

Aveva subito notato la ritrosia e la scarsa voglia di sbilanciarsi in discussioni che potevano portare a compromettersi e da questo, e per il poco che aveva ascoltato, dedusse arbitrariamente che il crogiuolo della situazione politica si avvicinava a un punto di ebollizione sufficientemente critico.

Salutò insoddisfatto per l’esito del suo tentativo, e insieme al fratello e a Italo, che non aveva nessuna colpa dell’infausto, nostalgico nome che portava, attraversata la strada, infilarono il portone del circolo di San Francesco. Scesero i tre scalini e mentre gli altri due entrarono subito nella sala dei grandi, l’unica a essere frequentata a quell’ora, Amedeo si soffermò alcuni istanti davanti alla sgangherata e incerta figura geometrica che rifiniva il campetto di calcio e nel buio, notato un pallone abbandonato in mezzo al manto d’asfalto, si avvicinò e lo rianimò palleggiandolo.

«Dovresti tornare qua un po’ più spesso, Amedeo, anche se questo posto non risponde in pieno a quello che più desideri, per ciò che ti ho sentito dire ultimamente.» Era l’inconfondibile cadenza bergamasca di padre Giovita Dossi, il parroco simbolo della comunità rionale, che usciva dalla sala illuminata per tornare al riposo della canonica.

Al centro Padre Giovita Dossi

«In fondo, per quanto la tendenza dei soci sia conformarsi senza tanta personalità agli squilibri di cui la società è vittima, questa non è da condannare senza attenuanti. Il rischio a esporsi, specialmente in un Paese straniero, è considerevole» aggiunse il frate.

«Non è questione di compromettersi in un’azione eclatante, padre Giovita, è il pensiero così omologante, ancora così nostalgico di un periodo che pure ci ha provocato danni incalcolabili, che rischia di esiliarmi da questo luogo, che mai rinnegherò.»

«Non pretendere tutto subito… semina il tuo pensiero con tolleranza e poi attendi i frutti con calma, noi non vogliamo perderti. Ora ti auguro buonanotte.»

«Ne terrò conto, buonanotte» disse al parroco, il quale sparì nell’atrio ai piedi del campanile che portava alla sua stanza passando per la sagrestia.

Si avviò dalla penombra del centro del campetto verso la luce e verso l’animazione della sala dei grandi, che all’interno ospitava, sulla sinistra, il biliardo, al centro e sulla destra, prima del bar all’angolo, un flipper e i tavolini per il gioco delle carte. Non entrò subito, ma si fermò a osservare e riconoscere gli amici dalle inferriate di una delle finestre. Sembravano impegnati a recitare in una commedia dove tutto doveva apparire ineccepibile, dai buoni convenevoli ai non infrequenti scatti d’ira per una carta o un colpo mal giocato; ogni movimento e ogni parola si attenevano a un copione, e loro sembravano attori o figuranti a cui fosse stata tolta la possibilità di un’ardita e irriverente improvvisazione.

 

Infine si decise, varcò senza indugi la soglia e s’immerse beato in quella placenta che lo aveva contenuto in un’epoca e in un contesto dove i nutrimenti assorbiti avevano determinato un legame e un senso di forte amicizia fraterna dai quali scindersi completamente era impossibile. All’interno salutò più affettuosamente di quanto aveva pensato di fare dieci minuti prima e in cambio incassò soddisfatto la finta di un diretto sinistro di Alfonso Parisani, di un gancio di Nello Di Martino, un attestato di stima calcistica da Angelo Lorenzon e Antonio Pelligra, uno sguardo in tralice con le narici spalancate da Giorgio Loriente, l’occhiolino di Stefano Lucidi, una mezza offesa di ammirazione da Michele “Liuzzo” Delfini e un invito per una partita al biliardo da Angelo Palmisciano e Giuliano Perissinotto.

Per un paio di ore quella sera rimase isolato, circondato da mura così familiari e da un multiforme, intimo piacere fisico che riusciva a bilanciare, per poco, l’apprensione che lo qualificava da un po’ di tempo. Roberto e Luciano, che lo conoscevano meglio di chiunque altro, in quella sala lo scrutavano più perplessi che mai.

Andrea Amedeo Sammartano

 



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