LE VACANZE ESTIVE

 

<<<  Nel 1960 le condizioni finanziare della mia famiglia erano notevolmente migliorate rispetto ai primi anni del 1950,  tante che tutti e tre, mio padre, mia madre ed io potevamo permetterci di andare ogni anno in vacanza  in Italia.

Per andare a visitare questi nostri parenti  dapprima anche noi preferivamo viaggiare per mare, pensando che fosse la cosa più sicura da fare, così utilizzavamo la nave "Argentina", di cui serbo tanti bei ricordi della mia infanzia. Nel tardo pomeriggio ci imbarcavamo sulla nave dal molo di Tripoli,  e la mattina dopo eravamo già a Malta, dove si faceva uno gradevole ed interessante sosta di mezza giornata. La sera stessa arrivavamo a Siracusa, dove sbarcavamo e proseguivamo il resto del nostro viaggio in treno per andare prima a Marsala a visitare i miei parenti materni e poi  a Favignana, prendendo l'aliscafo o il traghetto da Trapani, per vedere quelli paterni. Per andare in Calabria da mio nonno Giuseppe, che viveva a Natile Nuovo, ripassavamo da Marsala e proseguivamo fino a Messina, per attraversare lo Stretto col traghetto  senza scendere dal treno e arrivare, sempre in treno, a Bovalino Marina. Da lì prendevamo un autobus che ci portava , attraverso i tornanti dell'Aspromonte, fino a Natile Nuovo, che sembrava essere collocato in capo al mondo. Quando anche mio zio Giovanni, il fratello più piccolo di mia madre, si era andato a stabilire con la sua famiglia, in Lombardia, a Robecco D'Oglio, ci faceva un giorno e mezzo di treno per arrivare fin lassù.

Generalmente Marsala era la prima delle nostre tappe. A Marsala, paese di nascita di mia madre, alloggiavamo a casa di mia zia Franceschina , cugina di mia madre. Franceschina era sposata con Nino Accardi, un diligente impiegato di concetto che lavorava  presso l'ufficio amministrativo della rinomata casa vinicola Florio. La loro casa era ubicata in Via Edmondo De Amicis. Io trascorrevo buona parte del mio  tempo giocando allegramente in compagnia di mio cugino Giacomo e con il cugino più piccolo Enzo. Ricordo ancora che a casa loro mangiavamo spesso a pranzo  dei deliziosi piatti di aragoste cucinate in diverse maniere. Una delle specialità culinarie della zia Franceschina era il cuscus di pesce. Dopo aver speso circa una settimana con loro Poi proseguivamo le nostre vacanze andando a visitare i parenti di mio padre a Favignana e a Marettimo. A Favignana c'era la sorella più grande di mio padre, Marietta Ernandes, sposata Giangrasso. Sua figlia Francesca, mia cugina, si era a sua volta sposata con un Ernandes, da cui erano nati Michele e Mariangela , con cui giocavo perchè avevano più o meno la mia età. A Marettimo, l'altra isola dell'arcipelago delle Egadi, ci abitava un'altra sorella di mio padre, Concetta Ernandes, sposata con Nino Sardina, un valente  pescatore. Da questa unione erano nati Emanuele, Domenico, Maria e Franca. Franca, la piccola dei quattro, era quella con cui giocavo perchè aveva più o meno la mia età. Dopo Marettimo proseguivamo il nostro viaggio per andare in Calabria a trovare mio nonno materno Giuseppe e la sua seconda moglie Nunziata.

In Lombardia invece  vivevano miei zii, Giovanni Salmeri e Bertilla. Anche loro, qualche anno dopo, avevano deciso di lasciare la Libia e di partire alla volta dell'Italia insieme alla loro prima figlia Ninetta.  Mia zia Bertilla, che da signorina faceva Posenato, aveva una  sorella di nome Miranda che era sposata con Domenico Valvano, un vigile, ed insieme al loro figlio Vito vivevano  a Robecco d'Oglio. Questo è un  paesino che dista pochi chilometri da Cremona ed è situato sul fiume Oglio, non lontano dal Po. Mio zio Giovanni, anche lui marinaio come il padre, aveva fatto vari mestieri tra cui il pugile ed il muratore. Quando era giovane era riuscito a disputare la finale per strappare  lo scettro al campione siciliano dei pesi mosca di allora . Al termine del match, dominato da mio zio, il contrastato verdetto era stato di parità e  pertanto, per regolamento, il campione in carica manteneva lo scettro. Il campione gli aveva concesso la rivincita, ma in quel match mio zio aveva dovuto abbandonare l'incontro per una profonda ferita all'arcata sopraccigliare, dovuta ad una testata dell'avversario, non vista dall'arbitro. Dopo quell'incontro, finita da poco la guerra,  visto che non era riuscito a sfondare nel mondo pugilistico aveva deciso di appendere i guanti al chiodo edi dedicarsi ad altre attività. Aveva fatto il marinaio , poi aveva imparato a fare anche il muratore. Giunto a Robecco aveva trovato lavoro in una impresa edile. D'inverno però i lavori si fermavano perchè era così freddo che la calcina gelava e  non poteva essere lavorata. La paga era scarsa ed ed il freddo umido della Pianura Padana entrava nelle ossa. Era nata una seconda figlia, Stefania, e subito dopo una terza, Maria Franca.  Un altro fratello di mia zia Bertilla, Ugo Posenato, che lavorava alla Snia di Cesano Maderno aveva informato mio zio Giovanni che la fabbrica assumeva nuova manovalanza. Così mio zio Giovanni nel 1962 era partito da solo alla volta di Cesano ed era riuscito a farsi assumere subito come operaio, addetto alla manutenzione di alcuni macchinari che producevano filo per tessuti sintetici. Mio zio Giovanni si era subito guadagnato la simpatia della dirigenza, per la sua simpatia e per aver fondato per il circolo ricreativo dopolavoristico degli operai della fabbrica un piccola scuola amatoriale di pugilato. Nel 1964 era nata la quarta femmina, Giusy, e da allora le sue ultime speranze di poter avere almeno un figlio maschio si erano infrante. Dopo il pugilato si era impegnato nell'allenare una sua squadra locale, l'Equipe 2000, con cui aveva ottenuto dei lusinghieri risultati. Uno di questi ragazzi, il portiere Rotella,  aveva anche poi giocato come titolare di una compagine di serie B.

Comunque era viaggi  lunghi e faticosi da percorrere in treno ed altre volte strani come mi capitò una volta, all'età di dieci anni,  per andare a visitare un amica d'infanzia di mia madre , che abitava a Castellamare di Stabia, un paese che si trova tra Napoli e Sorrento. Quella volta a viaggiare  eravamo soltanto mio e mia madre, visto che mio padre  non poteva muoversi da Tripoli per un'urgente consegna di lavoro. Quando entrammo nella stazione ferroviaria di Castellamare  era ormai l'una di notte. Un'ora tarda per disturbare la sua amica,quindi non restava altro che trovare un albergo, che incautamente non avevamo prenotato. Era un posto nuovo per noi, non sapevamo dove andare e  avevamo un urgente bisogno di trovare un letto dopo aver percorso un viaggio lungo e faticoso in treno. Scesi dal treno fummo avvicinati da un facchino che aveva con sè un carrello  di ferro con le ruote. Senza avercelo chiesto aveva già caricato le nostre valige sul suo carrello, assicurandoci , con aria bonaria, che proprio dietro l'angolo c'era un buon albergo con camere libere che lui conosceva. Dopo averci fatto  camminare per circa mezz'ora finalmente arrivammo davanti alla porta d'ingresso di questo albergo. Forse una trentina d'anni prima forse poteva anche essere considerato un albergo  di lusso, ma ora all'esterno appariva decrepito e fatiscente. All'interno c'era un ampio salone, con un enorme divano e delle poltrone con  il tessuto  comsumato,  mentre un vecchio ed enorme candelabro di ferro battuto pendeva pericolosamente dal soffitto. Pagato il facchino, il portiere dell'albergo, mezzo addormentato, ci diede le chiavi della stanza numero 17. Mia madre già guardando il numero aveva storto la bocca. Per la poca luce salivamo la scala che ci doveva portare alla nostra stanza al primo piano. La scala era ricoperta da un vecchio tappeto rosso sangue, con i listelli rotti.  Salivamo le scale a tentoni mentre le nostre immagini su riflettevano deformate su enormi specchi appesi alle pareti.  Nella nostra stanza c'era  un enorme letto matrimoniale ed un vecchio armadio probabilmente costruito nel secolo precedente, che quando si apriva l'anta emetteva un suono sinistro.  Sdraiato  sul letto mi addormentai subito.

La mattina seguente,  appena aprii gli occhi,  sentii mia madre che con voce imperativa mi diceva:

-"Domenico andiamocene subito , i bagagli pronti sono" -

 -"Ma che è successo? Fammi almeno svegliare."-

"Andiamocene  via subito da questo posto" -  

"-Ma mi vuoi spiegare che t'è successo? Che c'è?"-

-"C'è che stanotte io non ho chiuso occhio.  In questa stanza ci saranno stati come minimo, minimo  almeno dieci camerieri, tutti vestiti di bianco, che ballavano davanti al nostro letto.".

-"Ma dai, forse te le sei sognati.".

-"Ma quali sognati. Camerieri veri erano , con tutte facce strane. Sbrigati andiamocene subito da questo posto. Anzi sai che ti dico, dalla  mia  amica non ci andiamo neppure, ci inventiamo una scusa, torniamocene subito a Siracusa, ci imbarchiamo sull'Argentina e ce ne torniamo a casa".

E cosi fù. Rifacemmo indietro in treno tutto il viaggio di ritorno non-stop, senza aver visto la sua amica d'infanzia. Tutto questo   per colpa di alcuni strani fantasmi o camerieri, vestiti di bianco, come diceva lei,  scaturiti dalla fantasia di mia madre, probabilmente dovuta alla sua  stanchezza del viaggio in treno e allo spavento preso guardando gli enormi specchi deformati dell'albergo. In seguito, raccontando quest'episodio, continuava ad asserire che lei quei camerieri danzanti li aveva visti per davvero danzare davanti al nostro letto e che nessuno gli poteva togliere dalla testa che quei fantasmi esistessero realmente.

Negli anni successivi, partendo da Tripoli,  avevamo cominciato anche noi a prendere l'aereo. I motivi che ci avevano indotto a cambiare mezzo di trasporto erano diversi e  forse tutti validi.  Primo, da qualche anno il prezzo del carburante era sceso  e così anche il costo del biglietto aereo; secondo, viaggiando in l'aereo si arrivava molto prima a destinazione; terzo,  volare era una cosa nuova e quindi maggiormente eccitante. In quel periodo gli aerei della flotta Alitalia, la nostra compagnia di bandiera, la cui ultima sede tripolina era stata in Sciara Haiti, volavano giornalmente dall'aeroporto di Castel Benito (Tripoli) a quelli di  Fontanarossa (Catania) e di Fiumicino (Roma). Alcune volte, in alternativa, quando spesse volte gli aerei Alitalia erano pieni, volavamo anche con la  linea aerea  locale, la Libyan Airlines, che era affidabile ed  offriva un servizio di bordo altrettanto ottimo. Devo confessare che, a partire dall'età di dodici, l'età del mio sviluppo,  andare in Italia in vacanza non sempre mi piaceva, anzi,  a dire il vero ci andavo malvolentieri. Dopo la fine della scuola quasi tutti  noi, ragazzi e ragazze del rione, ogni mattina andavamo a piedi in spiaggia allo stabilimento balneare del Lido Vecchio, che  era a due passi da casa nostra.  C'era chi aveva la cabina per cambiarsi e chi no. Io non l'avevo  e andavo direttamente in spiaggia indossando il solo costume ed un paio di ciabatte. Lì incontravo  amici e amiche del rione con le rispettive mamme. Ma c'erano anche altri ragazzi e ragazze che con i loro genitori venivano da altre zone di Tripoli. Al Lido Vecchio mi incontravo con i miei compagni di scuola dei Fratelli Cristiani Piero Provenzano e Tonino Virone.  Molte volte andavamo insieme nella spiaggia accanto del Lido Nuovo, dove incontravamo un altro compagno di scuola, Giancarlo Biscari, ed un caro amico ebreo, nostro coetaneo, Ariel Raccah, fratello del famoso pugile tripolino Vittorio Raccah, autore di indimenticabili incontri di boxe  nel ring del Circolo Italia con l'altro eccellente pugile, Giovanni Tantillo. C'erano altri amici come Gianni Fakouri, Enzo vaccarini, fratello di Umberto e Michele Spina. Poi anche alcune ragazze, nostre coetanee, che avevamo cominciato a frequentare  al Lido Nuovo , tra queste Marisa Nannini e Marika Gendusa.  Era cominciato già per me e per i miei coetanei  il periodo della pubertà, quando sia ragazzi che ragazze facevano gruppo a sè e da entrambi i gruppi  partivano già le prime occhiate furtive, i primi rossori, i primi ammiccamenti, i primi segnali di comunicazione non verbale. Era anche il periodo che nelle sale cinematografiche tripoline proiettavano spesso  film mitologici, in cui erano protagonisti Ercole, Maciste e Sansone.  I nostri eroi  da imitare erano i mitici attori Steve Reeves , Gordon Scott  e Victor Mature. In spiaggia coperti solo  dai nostri costumi da bagno,  con il busto eretto, petto in fuori, pancia in dentro, facevamo comicamente mostra dei nostri scarsi pettorali ed  addominali per  assomigliare a quei personaggi muscolosi, pensando di piacere alle femminucce. Queste ci guardavano e  sorridevano con sufficiente benevolenza, poi i loro occhi  maliziosi correvano ad ammirare i  ragazzi più grandi, quelli che gli addominali  li avevano sviluppati davvero. Quando stavamo solo tra noi ragazzi, ci divertivamo a  giocare sulla sabbia con le palline di vetro colorate, facevamo lunghe nuotate, camminavamo a piedi lungo la battigia con dei secchielli per andare dove c'era uno scoglio che aveva un'abbondanza di granchi, gamberetti e ricci. Per arrivare a questo scoglio bisognava camminare lungo la battigia dalla parte opposta al Lido Nuovo, fino a quasi l'altezza dello stadio Maccabi. Questo stadio, che prima di diventare esclusivamente un campo di calcio di secondo ordine, dove si allenavano molte squadre di serie A tripoline. Un tempo , attorno al campo di calcio, lo stadio aveva avuto una magnifica pista ovale dove si svolgevano numerose competizioni di speedway, che richiamavano tanto pubblico. Nello stabilimento balneare del Lido Vecchio c'era anche un piccolo bar dove potevamo giocare a calcio-balilla o a flipper. In un angolo del locale c'era un jukebox, che a quell'epoca a Tripoli rappresentava una novità.  Se si giocava a calcio-balilla e nel bar entrava improvvisamente qualche ragazzina che si conosceva e che magari piaceva a qualcuno di noi,  davamo una gomitata all'interessato per attirare la sua attenzione. Gli interessati più timidi e vergognosi diventavano subito rossi in viso. Forse avrebbero voluto parlare, ma cominciavano a balbettare e si impappinavano oppure abbassavano la testa e  facevano finta di continuare a giocare a calcio balilla, senza sapere che cosa altro fare. Debbo confessare che a me, spesse volte, capitava di fare proprio così. Invece quelli più  sfacciati e sicuri di sè , sorridendo disinvoltamente alla ragazza, si avvicinavano al jukebox, inserivano un gettone, selezionavano un disco e guardandola negli occhi le dedicavano una canzone. In maniera pensavano di dichiarare alla ragazza il loro amore, quasi sempre platonico, come un tempo lo facevano gli innamorati quando , attraverso un menestrello,  dedicavano una serenata alla loro amata.  >>>