GIOCARE NEL RIONE

 

<<< Nel periodo della mia infanzia  era in uso che i bambini portassero i calzoni corti almeno fino a dieci anni  e che fino a quella età si poteva  ancora giocare senza malizia con le bambine, nostre coetanee. Mia madre era molto amica sia della Signora Ninetta Zocco che della Signora Giovanna Badalucco, ambedue sorelle, il cui nome da signorine era Licari. Fino al 1953 entrambe le famiglie abitavano accanto alla nostra casa in Sciara Camperio, in una grande casa con giardino, poi la loro casa fu diroccata per dare spazio ad una nuova costruzione con più appartamenti senza giardino. Nel frattempo loro si erano trasferiti in Sciara Bottego in due case vicine  ma separate. Io andavo volentieri con mia madre a fare visita nelle loro case in Sciara Bottego, una strada adiacente a Sciara Camperio. Entrambe le loro case avevano un giardino annesso, con alberi e verde. In questi giardini, quando avevo ancora i calzoni corti, mi divertivo a giocare  con le loro figlie,  Rosaria Zocco  e  Pina Badalucco, due bambine della mia età. I nostri giochi erano semplici ed innocenti. C'era il gioco con i sassolini lisci, in cui vinceva chi era abile a  raccogliere da terra, con una solo mano, senza sbagliare, "cinque sassolini".  Ci arrampicavamo su gli alberi per raccogliere alcune foglie tenere e verdi, per avvolgerle, poi premerle nel punto giusto e usarle come un fischietto. Per giocare  "carè"  bastava avere una pietra piatta e fare per terra un disegno con otto caselle, su cui si doveva saltellare senza mettere il piede sulle righe. Più semplice ancora giocare "moscacieca"a  perchè occorreva solo un semplice fazzoletto  di stoffa per bendarsi gli occhi. Giocando a  "nascondino" trascorrevamo interi pomeriggi senza stancarci mai.  Alcune  volte ero invitato a giocare nel giardino dei Marino, dove il padre aveva una sua piccola officina e dove c'era un enorme albero di gelso, che in realtà erano due, di cui uno innestato, dai frutti bianchi e  scuri , e su cui  mi arrampicavo per giocarci e per mangiare i frutti dolci  con Giovanna e Lino Marino. Quando andavo all'asilo delle Suore Bianche di Giorginpopoli incontravo  altre bambine , mie coetanee, del rione:  Carmelina Gaudio, Romy Basile, Tina Avola , Carmelina Cannucci , Leila Sherif , Enza D'Amico e  Mariuccia Spallina.

Ad un certo punto noi maschietti, crescendo con l'età e con lo sviluppo fisico, tendevamo a non giocare più con le femmine, ma preferivano di più stare fra di noi.  I nostri giochi maschili  all'aperto consistevano nel  travestirci da cowboy. Con un cappellaccio in testa e con delle pistole giocattolo, caricate a salve con rotoli di strisce azzurre con puntine di zolfo che facevano "bang, bang".  Giocavamo a nasconderci dietro i muretti cercando di imitare le gesta degli eroi dei nostri fumetti, Tex Wiler, Pecos Bill, Kit Carson, Buffalo Bill o Davy Crockett. Pochi si travestivano da indiano, perchè nelle trame dei film di allora gli indiani erano considerati i cattivi mentre i cowboy erano i buoni ed alla fine, con le loro pistole, avevano sempre la meglio. Trascorrevamo sereni pomeriggi giocandoci, al "muro" o al "soffio"da terra, le figurine dei giocatori Panini.  Ci scambiavamo i doppioni dei fumetti di Topolino, Paperino, Batman e Nembo Kid. Giocavamo con la "zarbuta", la piccola trottolina di legno colorato  con la punta di ferro. Ci divertivamo a creare sulla terra una piccola piste ad ostacoli, così liscia e compatta e con la giusta pendenza  da fare invidia ai migliori ingegneri. Una volta terminata e compattata ben bene la pista  ci giocavamo con delle biglie di vetro colorato. Il vincitore che arrivava per primo al traguardo si aggiudicava  tutte le biglie.

Comunque il gioco principe, il gioco preferito da tutti noi ragazzi, restava quello del pallone. Non aveva nessuna importanza se la palla fosse di gomma, di plastica o di cuoio, l’importante era che fosse più o meno tonda e che rimbalzasse in maniera sufficiente. Con una palla a disposizione bastava  essere in due per iniziare a palleggiare, in tre si poteva cominciare già a fare una partitella a porta romana. Se il numero dei ragazzi aumentava si andava a cercare una zona con più spazio, con quattro pietre per delineare le due porte e naturalmente un palla per iniziare a giocare la  partita. Quando arrivava un nuovo ragazzo e mostrava intenzione di volersi unire al gioco interrompevamo la partita. I due capitani si disputavamo il nuovo giocatore a pari e dispari. Questi giocava con la squadra del capitano vincente. Per non favorire troppo una squadra avevamo istituito un sistema ad handicap , con la  regola  che la squadra col giocatore in più  veniva penalizzata di una rete. Non essendoci nessun arbitro,  a volte nascevano discussioni, per l'assegnazione di un rigore o di un fallo, ma alla fine in qualche maniera si riusciva a trovarci d’accordo. Generalmente a fare i capitani delle due squadre erano i più grandi o i più bravi.

Nel nostro rione l'unico posto  che consideravamo più adatto per poter giocare  le nostre partite al pallone  era la  strada sterrata  in Sciara Bottego. Avevamo trasformato questo vicolo stretto nel nostro campo di calcio preferito anche perchè ci passavano poche macchine e quindi era considerato anche dai nostri genitori  un posto sicuro per giocare. Questo vicolo era largo circa una decina di metri e lungo forse una sessantina, delimitato all'estremità  da due ingressi che noi chiamavamo "archi", anche se in realtà avevano un forma rettangolare, che per noi  fungevano da  porte del campo di calcio. I due restanti lati era delimitati  da una parte da alcune abitazioni e d'altra da un muro, fatto di mattoni bianchi di Gargaresh, alto un pò più di due metri, che faceva da confine con il giardino della famiglia Marino, che parzialmente lo avevano adibito  come officina.  Per noi bambini, ancora bassi di statura, questo muro sembrava  altissimo e difficile da scavalcare, tanto che quando la palla ci finiva dentro per noi diventava un piccolo dramma. Allora cominciava un lavoro di cooperazione reciproca,  che aveva come obiettivo il recupero della palla. Armati di santa pazienza  i ragazzi più grandi e robusti caricavano sulle loro spalle quelli  più piccoli e leggeri per aiutarli a salire sul muro. Quest'ultimi arrampicandosi sui rami piu’ grossi del gelso, vicinissimo al muro, scendevano giù dall'albero si scorticavano invariabilmente  le ginocchia, scivolando sulla ruvida corteccia del tronco dell'albero. Recuperata trionfalmente la palla e gettata oltre il muretto, il "piccolo eroe " faceva il percorso a ritroso e al suo ritorno la partita di calcio poteva ricominciare. Tutto questo si poteva fare solo se il feroce cane arabo dal pelo bianco dei Marino era legato con la catena, altrimenti nessuno si azzardava ad entrare in quel giardino con un cane così aggressivo.  Allora, alcuni di noi, i più disinvolti, andavamo a  bussare alla porta dei Marino e chiedevamo, se pur stanchi e trafelati ma con il nostro miglior sorriso,  di restituirci cortesemente  la nostra palla. Per fortuna, quando non si esagerava, la simpatica signora Lilla Marino, la proprietaria del giardino, era sempre gentile e disponibile e lei stessa ci riconsegnava la palla

Per inciso ricordo anche, dato che  abitavamo vicino allo Stadio, alcuni di noi andavano spesso a vedere le partite di calcio del campionato di calcio locale che si disputavano. Grazie all'invito generoso della famiglia Cannucci, che abitava in una palazzina al primo piano di fronte allo Stadio, dalla loro terrazza vedevamo gratis tutte le partite. Le squadre libiche non erano tante, però il loro livello di gioco era piuttosto buono, tanto che alcuni dei loro giocatori avevano fatto addirittura dei provini con alcune squadre italiane di serie A. Tra i più bravi in difesa mi vengono in mente i nomi di Kaami e Siauesces, che era chiamato "gabbadei" per il suo modo di camminare; Nuri, uno stopper elegante che avrebbe meritato la serie A italiana, Krema, che una volta, un pò aiutato dal vento, fece un una rete indimenticabile da metà campo. Tra i rifinitori provvisti di di buon talento c'erano  Squsi, una persona squisita e gentilissima ma che aveva il difetto di parlare con la "lisca" come Paperino; Senussi, forse il più bravo di tutti, dotato di un palleggio sopraffino; Regeb, un bravissimo regista; l'estroso Homsi, il mascalzone, che ogni volta che il pubblico lo fischiava si abbassava i calzettoni;  Sokni, che cercava di imitare Sivori con i suoi dribbling ed i suoi tunnel e sopratutto per i suoi calzettoni, abbassati e senza la protezione dei parastinchi,  coniati come calzettoni  "cacaiola" o alla Sivori. Tra gli attaccanti ricordo la veloce ala destra Tumi, il centravanti Ahmed Lahuel, fratello di Regeb, che nonostante avesse un solo occhio, era un cannoniere con i fiocchi, e l'alta ala sinistra Burghiba, che giocava nella squadra del Medina, sia a calcio che a pallacanestro, eccellendo in tutte e due le attività sportive.  Ricordo che tra le squadre più forti c'erano l'Ittihad e l'Ahly Tripoli, poi, a seguire la Medina, la Dahra, il Mizran, poi chiamato Uahda, ed il Bab Bahar. Per alcuni anni aveva partecipato a questo campionato anche il C.S.T., che era l'acronimo di  Centro Sportivo Tripolino, una compagine formata da una selezione di giocatori italiani locali provenienti dagli oratori delle associazioni cattoliche tripoline, come il San Francesco, La Salle, l'Antoniana e l'Olimpia. Quando, per varie e controverse ragioni, la squadra del C.S.T. fu sciolta, alcuni giocarono italiani confluirono alle squadre arabe locali come ad esempio il bravo portiere LanzonLucci, detto "gattus" per le sua agilità. In difesa Palmisciano e tra gli attaccanti il tecnico Marcello Trovato e il velocissimo Ciro Dama.   All'interno dello stadio oltre al campo di calcio, c'era anche un bellissimo velodromo dove venivano disputate varie gare ciclistiche su pista.

Tra i ciclisti italiani ricordo Cason, Rovecchio, Meilak, Gobbi, Cortinovis, Perrotta, Cenghialta mentre tra i libici Zintani, Sueia, Bahlul e Zaied.

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