Un caldo pomeriggio estivo 

a Tripoli (Libia)




Tripoli  -  Giaddat Istiklal
A passeggio con mio padre


Tripoli (Libia),  primi di luglio del 1958



LE MIE LETTURE ED I MIEI GIOCHI D'INFANZIA



Le estati tripoline erano generalmente roventi tanto che spesse volte, specie nel pomeriggio, la temperatura andava oltre i 40 gradi all’ombra. Il  caldo era così umido da sentire la necessità di rinfrescarsi con continue docce e così spossante che, per recuperare l’energie, la cosa migliore era cercare rifugio nella pennichella pomeridiana. Mio padre, dopopranzo, faceva un breve riposino e poi ritornava con la sua bicicletta al suo faticoso lavoro di fabbro nella sua officina di fronte allo Stadio, non lontano da casa nostra. Questa era ubicata in una palazzina, tutta bianca, al piano terreno in Via Manfredo Camperio al n. 10, una strada perpendicolare a Corso Sicilia (poi diventata Giaddat Omar el Muktar), che era un lungo viale che andava dal centro città, in Piazza Italia fino alla zona del Lido.




L'ingresso del Lido Nuovo


Dopo aver aiutato mia madre a sparecchiare la tavola e alcune volte a riordinare la cucina, me ne tornavo nella mia stanza a leggere e a riposare. La finestra della mia camera era rivolta a ovest, così durante le ore pomeridiane era battuta da un sole così cocente che diventava molto calda. A casa nostra non avevamo un impianto ad aria condizionata, perciò per rendere più fresco l’ambiente usavo una tecnica rudimentale ma efficace che avevo imparato da mia madre. Serravo fino in fondo la tapparella avvolgibile della finestra, cercando di lasciare il minimo spazio possibile alle fessure, poi, aiutandomi con delle mollette, appendevo un lenzuolo bianco umido d’acqua all’interno della finestra ed azionavo un piccolo ventilatore elettrico, puntandolo in direzione del lenzuolo. Il ventilatore muoveva l’aria, la spingeva contro il lenzuolo umido, che, a sua volta, la restituiva piacevolmente fresca all’ambiente. Poi, essendo completamento al buio, accendevo la luce del faretto appoggiato sul mio comodino e mi sdraiavo comodamente sul letto per dedicarmi alla lettura dei miei libri preferiti o del giornale locale. Ricordo con piacere di aver letto Il piccolo Lord Fauntleroy di Frances Hodgson Burnett, Tom Sawyer e Huckleberry Finn di Mark Twain,  Cuore di Edmondo De Amicis,  Il libro della giungla di Rudyard Kipling ed I ragazzi della Via Paal di Ferenc Molnar (quest'ultimo libro l'ho avrò letto per lo meno quattro volte, ed ogni volta che arrivavo  all'episodio della morte del ragazzo-soldato semplice Nemeksec, mi si inumidivano gli occhi).




Alcune copertine dei libri della mia infanzia


In quel periodo c’era un solo quotidiano tripolino, scritto in lingua italiana, Il Giornale di Tripoli, che era composto di sole quattro pagine. La prima pagina era dedicata alle notizie politiche locali e internazionali; la seconda alla  cronaca locale ed ai necrologi; la terza alle notizie d’attualità, per lo più ricavate dai quotidiani italiani, alle inserzioni economiche ed ai programmi dei cinema locali; la quarta ed ultima pagina (la mia preferita) allo sport. Nel 1958 avevo 10 anni di età. Avevo appena finito di frequentare la quinta elementare, sezione A, presso la scuola di Sciara Afghani dell'Istituto dei Fratelli Cristiani. Il mio maestro di quinta era stato Fratello Amedeo, proprio quello che poi, negli anni '70, fondò in Italia l'Associazione Ex-Lali. Fratello Amedeo, era un bravissimo insegnante forse un po’ burbero ma tanto buono d’animo. Credo che abbia dato i giusti stimoli (questo fatto lo racconterò in seguito) perché imparassi a leggere con sicurezza.




La testata del sito dell'Associazione Exlali - Fratel Amedeo



Qui sotto la foto di gruppo della mia classe con Fratel Amedeo.




Quarta fila in alto da sinistra : Gennaro Giglio, Piero Provenzano, Enrico De Fabianis, Pino Scuola, Alberto Eminian, Biagio Bonafede, Gianni Fakhouri, Giorgio Gasparri, Alojzy Wegrzynek

Terza fila da sinistra: Ennio Fortini, Vincenzo Minna, Emanuele Pani, Potito Colucelli, Stefano Cavazzini, Tonino Virone, Marcello Vacca, Giancarlo Biscari, Pierino Scarpellini (defunto)

Seconda fila da sinistra: Domenico Ernandes, Graziano Drago, Silvano Angelini, Guido Taliana, Carlo Dal Molin (defunto), Massimo De Paolis, Marcello Scerrino, Francesco Grasso, Vito Montalto

Prima fila da sinistra: Francesco Catalano, Giancarlo Della Valle, Claudio Salvadori, Antonio Poma, Bartolo Carbone, Michele Volteras, Giacomo Augugliaro, Claudio Romagnoli, Giacomo Anastasi ed accanto il nostro insegnante Fr. Amedeo  (alias Bartolomeo Cavaglià)

 

Generalmente dopo circa di un’ora di lettura perdevo la concentrazione e lentamente mi addormentavo, ma c’erano alcuni periodi in cui cercavo a tutti i costi di restare sveglio. Il motivo era che amavo il ciclismo ed aspettavo con impazienza di ascoltare alla radio l’inizio della cronaca delle tappe del Giro d’Italia oppure del Tour de France. In casa avevamo una gigantesca radio Marelli, color radica, che troneggiava in un angolo della mia camera, appoggiata su un solido tavolino color noce.

 


Una Radiomarelli di quel periodo, color radica.

 

L’accendevo, cercando di tenere il volume più basso possibile, cercando di non svegliare mia madre, che riposava nella camera accanto. Evitando di far rumore giravo lentamente la manopola per trovare, fra le tante stazioni locali ed internazionali, quella italiana ad onde medie della RAI (Radio Audizione Italiane), che trasmetteva la cronaca della tappe. Non era facile sintonizzarsi subito, molte volte la calda voce del radiocronista italiano giungeva disturbata dalle fastidiose interferenze delle altre numerose stazioni.

Nella mia cameretta il pavimento era quasi tutto rivestito da mattonelle color verde marino, solo nel centro dove, forse per ragioni decorative,  era stato creato un anello rettangolare formato da alcune piastrelle quadrate (della misura di 20x20 centimetri), di color giallo pallido. Utilizzavo questo rettangolo come uno pseudovelodromo su cui giocare, muovendo i tappi per le mie immaginarie sfide ciclistiche.  I tappi, che avevano i bordi zigrinati, erano quelli delle bottiglie delle bevande tripoline più conosciute come: Mirinda, Fanta, Sinalco, Coca Cola, Kitty Kola, Pepsi Cola, SevenUp, Birra Oea. Il Sinalco era un cocktail di frutta, la Kitty Cola, che aveva come logo la faccia di una gatta, la Fanta e la Mirinda, erano entrambe al gusto d'arancia, la Seven up  al gusto di limone. La birra Oea, l’eccellente birra tripolina era prodotta dalla famiglia Bianchi Carnevale. Questi, che erano già noti in Lomellina per la birra da loro prodotta, furono invitati da un ingegnere tedesco, Schubert, a costruire a Tripoli, in Sciara Kaled Ibn Ualid,  la prima fabbrica di birra del Nord Africa. L'opera dei Bianchi Carnevale in Libia portò alla costruzione, oltre che della fabbrica di birra Oea (antico nome di Tripoli), anche a quella  delle Ghiacciaie Libiche e delle Cantine del Vino, in cui veniva prodotto uno spumante che nulla aveva da invidiare ai migliori champagne francesi.



Alcuni tipi di tappi che usavo per giocare



Combinavo queste sfide scrivendo su ciascun tappo un nome preso in prestito tra i campioni più famosi del ciclismo internazionale e tra i corridori tripolini più conosciuti. Da una parte erano schierati i campioni internazionali dell'epoca come il lussemburghese Charly Gaul (il mio favorito), gli italiani Gastone Nencini ed
Ercole Baldini,  i francesi Louison Bobet, Roger Riviere e Jacques Anquetil, lo spagnolo Federico Martin Bahamontes e dall’altra i campioni locali come Renato Rovecchio, Antonio Meilak, Cesare Cenghialta, Gino Cason, Emilio Perotta, Vincenzo Avelli, i  due fratelli Viscuso e i forti corridori libici, Zintani e Sueia. 






Charly Gaul Ercole Baldini jacques Anquetil


Antonio Meilak (foto recente) Gino Cason Renato Rovecchio

 



I MIEI AMICI DEL LIDO



L’episodio(un tragico incidente automobilistico) di cui vi voglio raccontare  e di cui ricordo ancora bene la dinamica accade sul viale di Corso Sicilia, a circa 100 metri da casa mia,  accadde proprio in uno di quei caldi pomeriggi estivi. Erano circa le diciannove e malgrado l'ora tarda del pomeriggio faceva ancora caldo. Mia madre si era appena accorta che mancava il pane per cena e quindi era mia compito andarlo a comprare. Guardando l’orologio avevo calcolato di avere ancora a mia disposizione circa un’ora di tempo per fare quella commissione e di tornare a casa prima dell’ora di cena, cioè prima che tornasse 
mio padre dal lavoro. Era nostra abitudine comprare il pane presso un negozio di generi alimentari, che aveva il suo ingresso in Corso Sicilia. Il negozio era gestito da Giuseppe Moschetti, uno scapolo trentacinquenne di origine calabrese, che si contraddistingueva per viso simpatico e sorridente con sopracciglie e capigliatura folta. Accanto al suo negozio, andando a sinistra, ubicato proprio all'angolo di Corso Sicilia con Via Manfredo Camperio, c’era il bar mescita di Michele Gaudio. Michele, anche lui di origini calabresi, era emigrato in Libia negli anni ’20 ed aveva lasciato il suo paese natio in cerca di maggiori opportunità; poi con il suo onesto lavoro si era formato una famiglia. Con Michele era facile fare amicizia perchè era una persona semplice e buona. Entravo spesso nel suo bar, quando mi volevo dissetare, per comprarmi una fresca bottiglia di “gazzosa” locale, una bibita dello stesso colore dell'acqua, che a me piaceva perchè era frizzante ed aveva un  gusto dolciastro. Quando non avevo sete compravo da lui dei cioccolatini alla nocciola di forma rettangolare, rivestite di carta color oro con dentro delle figurine da collezione da attaccare ad un album. Il suo bar aveva un arredo modesto, ma curato. Lui stava dietro un bancone, che lo separava dal pubblico, posto a tre metri dall’ingresso. Sulle pareti dietro il bancone c'era delle robuste scaffalature di legno, fissate al muro, colme di bottiglie, divise ordinatamente per tipo. C’erano bottiglie di vino, di birra, liquori di vari tipi con etichette colorate e poi bibite locali di vari tipi, della stessa marca dei tappi con cui giocavo a casa.

 


Michele Gaudio

 

All’esterno del bar, girando in Via Camperio, accanto alla fermata dell’autobus, c’era Giuma, un  giovane ragazzo libico alto e  magro, che poteva avere circa la mià eta. Generalmente indossava una leggere veste bianca che assomigliava di più ad una pigiama. 


Giuma

Durante l’estate Giuma  si guadagnava da vivere abbrustolendo, all’aperto e riparato da un ombrellone, delle pannocchie di mais, che tutti chiamavano sbule. Giuma, come molti altri nostri amici libici che abitavano nella stessa zona, capiva e parlava l’italiano. Mi piaceva il suo modo di fare e di sorridere. Stava seduto su un piccolo sgabello pieghevole con la tela, quelli che si usano per andare in spiaggia,  ed aveva accanto a sè una coffa  (una cesta fatta di paglia intrecciata) dove teneva la sua scorta di pannocchie  fresche pronte per essere abbrustolite. I suoi arnesi da lavoro consistevano in una larga e robusta griglia di ferro, carbonella, trucioli di legno, carta di giornale e fiammiferi.  Su di un lato c'era una piccola tanica bianca da cinque litri colma d’acqua, che utilizzava di tanto in tanto per pulirsi le mani, annerite dal carbone. Abbrustolite le sbule le avvolgeva, con maestria e sveltezza, dentro le foglie verdi e fresche delle stesse pannocchie  e poi le serviva al pubblico al prezzo di una piastra cadauna.


Sbule abbrustolite su una griglia di ferro Una piastra libica del 1952, davanti e dietro



Dal lato opposto di Corso Sicilia, a circa cento metri dalla strada, esistevano ancora i vecchi binari inutilizzati della ferrovia che un tempo univano verso occidente la stazione ferroviaria di Tripoli a quella di  Zuara, un paese non lontano dal confine con la Tunisia. Ricordo che Giuseppe Moschetti, che per il caldo indossava una canottiera,  se ne stava seduto, sventolandosi il viso con un ventaglio, su una  panca addossata al muro del suo negozio, in attesa che arrivassero dei clienti. Seduti con lui, sulla stessa panca, c’erano il giovane Corrado Salemi e il signor Giacomo Cannucci. Conoscevo bene entrambi, perchè abitavano in Via Camperio, quasi di fronte a casa mia. Corrado, appena sedicenne, frequentava l’Istituto Tecnico per geometri in Sciara Mizran (ex Via Lazio). Era considerato un ottimo giocatore di pallacanestro, tanto che, nonostante fosse così giovane, giocava come titolare in una squadra tripolina di serie B, il Takaddem. I suoi compagni di squadra lo avevano soprannominato “Plastic” per la sua bravura nel saltare tanto in alto nei rimbalzi sotto canestro, nonostante avesse una statura media.

 


Corrado Salemi, a sedici anni

 



GIACOMO CANNUCCI



Giacomo Cannucci, originario della Sicilia, era un quarantenne di bell'aspetto, con folti capelli neri ed un paio di baffetti, con la faccia sempre abbronzata per cotta dal sole e dalla salsedine del mare, era un pescatore di professione. 





Giacomo Cannucci




In verità lui si definiva un “tonnaroto”, cioè un pescatore di tonni. Aveva lavorato per vari anni alle dipendenze della contessa Ricotti, una ricca nobildonna italiana, proprietaria di tanti terreni e, fra l'altro, anche della tonnara di Zavia, una località a quaranta chilometri ad ovest di Tripoli. Giacomo parlava spesso di tonni, di tonnare, di barche, di bastimenti, ed io lo ascoltavo con attenzione perchè avevo un grande interesse per gli argomenti di mare. 



Giacomo Cannucci con dei suoi  amici



Quel pomeriggio, visto che mi era rimasto ancora un po’ di tempo a disposizione prima di tornare a casa per cena, mi ero unito al gruppo per ascoltarlo mentre raccontava di alcuni episodi avvenuti durante la tonnara di giugno.

E' stato da lui che ho imparato che cosa fosse veramente una tonnara. Non sono mai riuscito a partecipare personalmente ad una tonnara, quindi quello che so è solo per sentito dire. Una tonnara è l'insieme di reti, particolarmente conformate, che si diramano in diverse camere, come un labirinto, dove il tonno entra, ma rimane imprigionato e poi catturato. Questa rete è fissata a dei manicotti di ancore galleggianti a forma cilindrica. I tonni, solo durante alcuni periodi dell'anno (nei mesi caldi), vanno istintivamente in cerca d'acque più basse, calde e più salate per riprodursi e deporre le uova. Entrano in queste reti, poi, per cercare di uscire, perdono completamente l'orientamento  e passano da una camera all’altra, da cui non riescono a uscire, fino ad arrivare nell’ultima camera, la famosa e spietata camera della morte. Solo il raìs, il capo dei tonnaroti, può decidere quando è il momento d’iniziare la mattanza.  Questo avviene quando lui ritiene che l’ultima camera è abbastanza piena di tonni. Da quel momento la pesca ha inizio, i tonnaroti arpionano i tonni con uncini, caricandoli sulle loro imbarcazioni e il sangue dei tonni tinge di rosso tutto il  mare circostante. La parola italiana mattanza  deriva dallo spagnolo matanza, che significa massacro.

 


Scena di una mattanza (clicca sull'immagine per vedere il video)

 

Giacomo, con una voce flemmatica e resa ormai roca dal fumo delle sue sigarette, continuava a parlare di tonni mentre tutto attorno l’aria profumava del buon aroma del mais abbrustolito e forse un pò bruciacchiato. Giuseppe Moschetti mi aveva già servito il filoncino di pane da portare a casa, che io tenevo in mano. Ascoltando parlare, ogni tanto davo un’occhiata al mio orologio per controllare se  era giunta l’ora di rientrare a casa. Era da poco passatele 19 e trenta e nel bar di Michele stazionavano ancora alcuni avventori libici, che conversavano allegramente, brindando  a non so cosa con dei bicchierini di anisetta, una bevanda alcolica, fatta a base di anice verde,  il cui sapore è simile a quello del finocchio con retrogusto di menta. Altri clienti invece bevevano vino e birra da bicchieri più grandi. Tra i vini ricordo il Ruber Afer, corposo e di alta gradazione, mentre tra le birre, la birra  l'Oea, una birra locale, era inconfondibile per il gusto amaro

 



La birra Oea
Il vino Ruber Afer



GIORGINPOPOLI


Devo premettere che in Libia il boom del petrolio era scoppiato solo da un paio di anni. Alcune compagnie petrolifere, per lo più americane, inglesi e francesi, avevano iniziato a trivellare il petrolio dei loro giacimenti nel deserto libico e nello stesso tempo avevano aperto molti uffici amministrativi nel centro di Tripoli.

A quella ora il traffico cominciava ad intensificarsi,  era l'orario di uscita dagli uffici. Per lo più il flusso delle auto era formato da macchine dei dipendenti amministrativi di queste compagnie petrolifere che dal centro città si dirigevano ad ovest, verso una nuova zona verde e vicina al mare che prendeva il nome di Giorginpopoli, dove la maggior parte di costoro aveva la propria dimora. Giorginpoli (il cui nome si dice che sia derivato dalla famiglia italiana Giorgini, una delle prime famiglie a  giungere in Libia attorno al 1912, proprietaria, tra l'altro di vari terreni in quella zona), era una località che distava circa 5 chilometri dal centro città. Con la nuova ricchezza economica derivata dalla scoperta del petrolio libico, Giorginpopoli si era ingrandita velocemente. Malgrado fosse carente di infrastrutture e che molte strade non fossero state ancora asfaltate, Giorginpopoli era diventata in poco tempo  una zona residenziale di lusso. Nel giro di poco tempo erano state costruite tante belle villette unifamiliari, tutte circondate dal proprio giardino. Il prezzo d'affitto di queste villette era salito in maniera così vertiginosa che solo le famiglie locali benestanti o i dipendenti stranieri di queste compagnie petrolifere potevano permettersi di pagare. 

 


A Giorginpopoli furono costruite molte villette unifamiliari



In quel momento tutto sembrava entrare nella normalità. Era ancora chiaro, il sole era ancora all'orizzonte, nell'arco di un'ora comunque sarebbe scesa la sera.

Giacomo, ancora intento a a parlare di tonni, improvvisamente si era zittito e si era messo a guardare fissamente un punto in direzione della strada. Io, che invece davo le spalle alla strada, mi ero voltato incuriosito per capire il motivo della sua interruzione. Uno dei clienti che avevo visto bere in precedenza, di corporatura media, dai capelli grigi e con i baffi, era appena uscito dal bar di Michele. Con passo barcollante e si era diretto sul bordo del marciapiede di Corso Sicilia come se avesse intenzione di attraversare il viale per andare sul lato opposto della strada, verso la Ferrovia. Camminava incerto sulle gambe e dava la netta impressione di avere la mente annebbiata dall’alcool. Probabilmente per aveva bevuto qualche bicchierino di anisetta di troppo. Poi, avventatamente, aveva cominciato ad attraversare la strada, senza prima curarsi di guardare in entrambe le direzioni. Continuando a barcollare era arrivato ormai al centro della strada, poi, quasi indeciso, si era fermato a guardare indietro. Quell’attimo d'indecisione gli fu fatale!



L'INCIDENTE

 


La piantina dell'incidente all'incrocio tra Via Camperio e Corso Sicilia

 




Dal centro città veniva una Volkswagen, un maggiolino color verde chiaro, con la struttura tipica di quel periodo, che si dirigeva in direzione ovest verso Giorginpopoli. L’impatto tra la macchina ed il povero disgraziato fu violento. Il conducente dell'auto aveva cominciato a frenare solo dopo averlo investito. Il corpo si era sollevato in aria quasi come un fuscello per accasciarsi inerte dieci metri più avanti sull’altro bordo della strada, lato della ferrovia. Giacomo Cannucci e Giuseppe Moschetti guardavano la scena sbigottiti; Michele Gaudio, forse dopo aver sentito il colpo, era subito uscito dal bar insieme con alcuni avventori per vedere cos’era successo. Io rimasi immobile, quasi paralizzato dalla paura, mi girai mentre il corpo della persona investita era ormai supina ed inerte per terra. Era la prima volta che assistevo ad un incidente di quel tipo ed ero spaventato. Corrado Salemi, quasi d’impulso, insieme ad altri due avventori del bar, si era messo  a correre verso quel corpo che giaceva ancora inerte sull'asfalto, forse nella speranza di poterlo soccorrere. Fui colpito dal coraggio e dal sangue freddo che Corrado aveva dimostrato di avere in quel momento così tragico. La vettura color verde, che aveva investito l’uomo, aveva rallentato la sua corsa e si era fermata  circa 30 metri più avanti. 



Una volkswagen verde dell'epoca



Un uomo tarchiato, di carnagione bianca, dai capelli chiari, tagliati corti, era sceso dall’auto e si era fermato, come atterrito, da quello che era successo un istante prima.  Probabilmente doveva essere un tecnico di qualche compagnia petrolifera straniera che, finito il suo orario di lavoro, se ne stava tornando nella sua casa di Giorginpopoli. Corrado era nel frattempo tornato da noi  e scuoteva mestamente la testa, facendoci capire che l’investito era già morto. Alcuni libici adirati, che avevano assistito alla scena dell’incidente, volevano scagliarsi urlavano ed imprecavano contro il conducente, che con sguardo afflitto, guardava nel vuoto, come inebetito. Intanto era giunta una camionetta land-rover verde scura della polizia. Ne era sceso un poliziotto, che era subito andato ad accertarsi sulle condizioni dell'investito, e costatatone il decesso era ritornato alla sua camionetta per prendere un lenzuolo bianco e coprirlo. Poi si era diretto verso
tre o quattro vocianti facinorosi che, urlando, additavano  l’investitore al poliziotto. Un secondo poliziotto, con una divisa grigia, aveva iniziato a fare la perizia dell’incidente misurando la lunghezza della traccia della frenata lasciata sull’asfalto dalle ruote della macchina investitrice, mentre un'altro con un fischietto, bloccava il traffico tanto che si erano formate due lunghe file di macchine in entrambi i sensi. Intanto, a velocità sostenuta e a sirene spiegate, era giunta un’ambulanza e si era fermata vicino al corpo inanimato. Tre uomini, in tuta bianca, erano scesi dal portellone posteriore. Dopo la constatazione  del decesso, il cadavere era stato adagiato su una lettiga e portato via mestamente. Altri due poliziotti avevano preso in consegna l’investitore e lo scortavano sulla camionetta forse per interrogarlo, ma più che altro per sottrarlo alla folla inferocita. 

Io, ancora confuso e spaventato, guardavo la scena con il mio filoncino di pane sotto il braccio. Poi sentii che qualcuno mi aveva messo una mano sulla spalla, come per proteggermi. Era mia madre, che era accorsa, preoccupata per la  mia lunga  assenza e , dopo essersi affacciata alla finestra di casa,  aveva visto tutta quella ressa di gente lungo il Corso Sicilia. Era giunto il crepuscolo e la folla dei curiosi cominciava ormai a diradarsi. Giuseppe Moschetti era rientrato nel suo negozio, Michele era tornato dietro il bancone a servire i suoi clienti, mentre altri avventori fuori dal bar continuavano a discutere animatamente sulla dinamica dell'incidente. Giuma, da par suo, seguitava tranquillamente ad abbrustolire le sue sbule. Giacomo e Corrado, entrambi avviliti e mesti, rincasavano parlando a bassa voce. Mia madre, ancora in silenzio, ora mi stringeva la  mano e mi conduceva verso casa. In fondo a Via Camperio  intanto era apparso mio padre che, ignaro di quanto fosse accaduto,  se ne tornava serenamente a casa dal lavoro con la sua bicicletta. 





Mia madre Mio padre



Quella sera non volli cenare! Me ne andai subito a letto e piansi ancora prima di addormentarmi, leggendo per l'ennesima volta il libro di Ferenk Molnar I ragazzi della via Paal.




EPILOGO



Il giorno dopo  sulla pagina della cronaca de Il Giornale di Tripoli c’era un articolo che si riferiva all'incidente del giorno prima, in cui c'era scritto che il libico deceduto aveva 42 anni e lavorava come manovale per una di ditta italiana  di costruzioni; lasciava la moglie e cinque figli, dal più grande che aveva 16 anni al più piccolo che ne aveva 4. Il conducente dell’auto, un giovane trentacinquenne di nazionalità americana,  impiegato come contabile presso l'ufficio amministrazione di una importante compagnia petrolifera americana, era stato arrestato e condotto nel carcere di Castel Benito, un carcere vicino all'aeroporto di Tripoli, in attesa di giudizio. Qualche settimana dopo apparve un altro articolo sulla cronaca del giornale italiano, in cui risultava che dopo una settimana di carcere, a titolo preventivo, il contabile americano era tornato in libertà. I familiari del defunto avevano pattuito con l'avvocato della sua difesa una certa somma di denaro, come risarcimento del danno arrecato alla famiglia stessa. La difesa del cittadino americano ribadiva che l'omicidio non era stato doloso ma solo colposo. Era stato riscontrato che la velocità del mezzo non era stata eccessiva, essendo stato il conducente abbagliato dalla luce del sole, tanto da aver investito il de cuius solo accidentalmente. 

Mi auguro con tutto il cuore che la cifra pattuita tra le due parti, come risarcimento di quel tragico evento, possa essere stata in seguito sufficiente a sfamare la moglie ed i figli del defunto e di aver fatto studiare i cinque orfani in modo che avrebbero potuto da grandi raggiungere un' adeguata posizione sociale nella loro vita.