La stanza  di Emilio Luigi Parlato


Emilio Luigi Parlato



 

CAPITOLO III

  

Ricordi e Peripezie di un Tripolino

  

Fuga da Tripoli

 

Il  presente  racconto  va  inserito  subito  dopo  lo  scoppio delle navi Birmania e Città di Bari, che hanno distrutto, al porto, nel 1941 il bar di proprietà della mia famiglia. Io allora ero diciottenne; mio padre, già grande, a causa di quel bombardamento, è rimasto senza lavoro. Noi, stanchi di tutto quello che avevamo passato, volevamo allontanarci dalla guerra, che specialmente al porto era stata  particolarmente  dura.  Dato  che  i miei  genitori erano  siciliani,  scegliemmo  la  Sicilia  come  luogo tranquillo, in cui la guerra non sarebbe arrivata, così credevamo. Lasciavamo Tripoli con dolore, anche perché una mia sorella si era sposata e voleva restare; due miei fratelli, uno del 14 e uno del 20, erano sotto le armi e combattevano sui fronti libici. Prefettura e Questura ci fornirono  tutti i documenti necessari e il 15 ottobre del

1941 fummo pronti a partire. I nostri familiari, restanti, ci accompagnarono fino alla casa Littoria, nei pressi del lungomare, e lì con dei pullman già pronti, siamo partiti per laeroporto di Castel Benito.

Il trimotore,  Bianchi  SM79

L’unico mezzo di trasporto disponibile era un aereo militare,  un trimotore,  Bianchi  SM79,  in nostra  attesa, da  poco  arrivato portando  dallItalia  soldati  e rifornimenti. Salimmo con un gruppo formato tutto da donne e  bambini, gli unici uomini eravamo mio padre, poco  più  che  cinquantenne  ed  io  diciottenne. Lequipaggio era formato dal pilota e da un aviere che fungeva da mitragliere. Le mitraglie erano tre, una al centro, che fuoriusciva dalla torretta ed era azionata dallaviere che, seduto su un sediolo rotante, poteva sparare  in  tutte le direzioni; le  altre  due  erano posizionate  nei due  fianchi.  Quando  laviere  capì  che l’unico  uomo  disponibile  a sparare  ero io,  cominciò  in fretta e furia ad istruirmi sul funzionamento dellarma in caso  di  necessità,  raccomandandomi  di  non  sparare verso la coda dellaereo,  né verso lala, ma solo in linea diritta, al resto avrebbe pensato lui. Il mio battesimo di volo è avvenuto co, in una situazione drammatica. Lasciando  la terra ferma,  avevamo  davanti  solo mare e cielo;  allaltezza   di Malta, base  inglese,  il  pilota  fece segno  allaviere   di  stare  allerta,  e lui  si  piazzò   alla mitraglia    centrale,    assegnandomi   quella   di    destra. Eravamo tutti paralizzati dal terrore, le donne pregavano e io, con larma in mano, cercavo di bucare le nuvole con gli   occhi   alla   ricerca   del   nemico.   Per   fortuna,  quel momento  interminabile  passò   senza  incidenti  e guardando   giù  ecco   improvvisamente  la   Sicilia,   che vedevo per la prima  volta, non piatta come lAfrica, ma con  le  sue montagne,  che  io  vedevo  storte,  dato  che laereo   stava virando per  atterrare.   Prima  di  toccare terra l’aviere rientrò le mitraglie, chiudendo gli sportelli; eravamo    a    Castelvetrano,   ma    prima   di    scendere, ringraziammo    il   pilota   per  la   sua  bravura    ed  io abbracciai  laviere,  di  cui  mi  consideravo  un collega. Quei bravi  ragazzi  non  li  ho  più  visti,  chissà  che  fine avranno fatto.

  

Arrivo in Sicilia

Era il 15 ottobre  1941. Scesi, ci siamo inginocchiati  ed io  ho  baciato  per la  prima volta il  suolo  italiano, terra che  osservavo con  grande  meraviglia,  nel  vederne  il colore  diverso  da  quello di Tripoli  e  nel  toccarne  la solidità diversa dalla sabbia. Negli uffici municipali di Castelvetrano, ci hanno registrato come profughi e accompagnati   alla   stazione   sul   treno   per   Agrigento. Anche questa esperienza è stata una novità, per il mezzo sul quale non avevo mai viaggiato e per il paesaggio che continuava   a sorprendermi.   Arrivati   a   Castrofilippo, siamo stati accolti dalla famiglia di mia mamma, che ci ha messo a disposizione una casa.

Prima che finisse il 1941, mi impiegai al Comune, come responsabile  dellufficio Anagrafe  bestiame,  in  cui venivano registrati tutti gli animali da lavoro del paese e forniti di carta didentità, che doveva essere mostrata, in un  eventuale controllo da  parte  dei  carabinieri,  anche per  strada.  La  mia  competenza comprendeva  anche  la leva militare per i muli, che, quando occorreva, potevano essere requisiti dallesercito. Quando era necessario, arrivava   una commissione   di   ufficiali   veterinari,   per visitare  i  muli,  che,  se  venivano dichiarati  abili, potevano essere requisiti e utilizzati in guerra .

La popolazione veniva avvisata dellarrivo della commissione, alcuni giorni prima, da un banditore  con un  tamburo.  Questa  requisizione  era obbligatoria, nessuno   poteva  esimersi;   anche  se   veniva  pagata  a prezzi stabiliti  dal  governo,  il  contadino veniva  privato del  suo  mezzo  di  lavoro  a cui  era  molto affezionato.  A causa della guerra e quindi della mancanza di personale maschile,  facevano  parte   del  numero  degli  impiegati anche le donne. Una di queste faceva la dattilografa, si chiamava Concettina, e dato che esisteva una sola macchina da scrivere, tutti ci rivolgevamo a lei ed io in modo particolare.

Chiamata alle armi

 

In attesa della chiamata alle armi

Il sabato pomeriggio, detto sabato fascista, era destinato alle esercitazioni militari, che avvenivano in un  grande  piazzale,  dove noi giovani, in attesa della chiamata alle armi, ci addestravamo.   Un   giorno fui chiamato dal Federale, che mi propose di partecipare  ad  un  corso  a Roma  per  lattestato  di  Primo  Cadetto”,  che  sarebbe durato un mese. Accettai con entusiasmo, desideroso di conoscere  la  Capitale e  partii  con  altri  fortunati.  Alla stazione di Roma ci accolse un gerarca, che prima di accompagnarci al campo di Monte Mario, ci avver che lì dentro  si  faceva sul  serio  e  che,  se  qualcuno  voleva ritirarsi, era meglio lo facesse subito. Quel mese è stato sfiancante   per   la   severità   della   disciplina  e  della ginnastica, ma anche per la mancanza di una adeguata alimentazione.  Alla  fine  sono  venuti  alcuni  osservatori dalla  Germania, Giappone  e  Spagna  ad  ammirare  la nostra sfilata a passo romano di parata.

Tornato a casa, con l’attestato di “Primo Cadetto”, sono stato nominato istruttore  premilitare e con me i giovani hanno  provato  la  vera ginnastica.  A gennaio  del  1943, fui  chiamato  alle  armi e  assegnato  al  6°  reggimento  di fanteria   della   divisione   Aosta,   posta   fra   Palermo   e Trapani,  in difesa della  costa  nord-occidentale;  in vista di un eventuale sbarco nemico, ci esercitavamo alle armi e ai combattimenti. Tutto ciò durò fino al 10 luglio 1943, data  del  vero  sbarco, che  avvenne  invece nelle  coste  a sud dellisola, lontano  dalla nostra  posizione.  Quindi io non mi trovai subito ad affrontare il nemico appena sbarcato,  ma  la  mia  divisione  si  scontrò  dopo  pochi giorni con le truppe americane, che risalivano dal sud, mentre noi dai dintorni di Palermo andavamo verso il centro della Sicilia, a Nicosia, in provincia di Enna, dove ho avuto il battesimo del fuoco, per tentare di fermarli. Ma   questa   era   pura  illusione,   perché   nelle   grandi battaglie  che  abbiamo  sostenuto  nei pressi  di Troina, parte dei nostri reparti furono sconfitti o presi prigionieri o riuscirono a risalire lo stretto di Messina. Io mi trovai nel mezzo di una grande ritirata disordinata, che   ci   portò   fino   a   Troina,   tenendo   questa   nuova posizione per cinque giorni. Sembrava che gli americani avessero   premura,   agguerriti  sempre   più,   facevano ripetuti attacchi terrestri e aerei; in uno di questi, alcuni gruppi caddero prigionieri, tra quei soldati, cero io. Era il 5 agosto 1943. Leggendo  oggi  i  libri  di  storia  a  questo  proposito, il generale  Bradley, comandante  del 2°  corpo di  Armata americano,  ebbe  a  dire  che  a  Troina  fu combattuta la più  impegnativa  e  sanguinosa  battaglia  che  gli Americani  sostennero   durante   lintera   campagna   di Sicilia. La mia prigionia durò pochi giorni, perché gli Americani,  che  esaminavano  la  situazione  e  la provenienza  di  ogni  prigioniero,  si  accorsero  che provenivo da una zona già da loro conquistata e, senza perdere tempo, per non dover portare appresso il peso di questi  prigionieri,  firmarono  un  documento  dove risultavo prigioniero sulla parola e in cui mi impegnavo sul  mio  onore, a  non  prendere  più  le armi  contro  gli anglo-americani; con esso dovevo presentarmi, giunto in paese, al Comando che ormai era nelle loro mani. Aperti i  cancelli  del  campo  solo per i  fortunati  come  me,  che abitavano a sud, mi avviai verso casa, che distava da lì circa 200 chilometri, che percorsi un po a piedi e un po su carretti di passaggio, guidati da carrettieri mossi a compassione   del  mio aspetto  estenuato, ma  che   mi davano un po di respiro.

  

Ritorno a Tripoli

Arrivato  a  casa  e  dopo  un  periodo  di  riposo,  tornai  a lavorare allufficio Anagrafe  bestiame,  dove  incontrai  i vecchi colleghi e quella dattilografa, che mi aveva colpito in   precedenza,   tanto   che   ci  fidanzammo  e poi   ci sposammo, in un giorno particolare, il 29 aprile 1945. Quel  giorno,  era domenica,  suonarono  le  campane  a festa, credevamo  che  fossero  per  noi, invece  sapemmo che era finita  la guerra  e che lItalia era libera,  ma nel nostro piccolo paese, questa grande notizia era arrivata con quattro giorni di ritardo. Nei giorni che seguirono il matrimonio,  la mia mente e quella dei miei genitori era rivolta  di  nuovo  verso  quella  Tripoli,  che  eravamo  stati costretti   a  lasciare,   anche   perché   vi   abitavano   un fratello,   ormai  tornato  dalla   prigionia   e   una   sorella sposata.  Ma  questa  volta  Tripoli  non era più  italiana  e ancora  non  cerano  servizi  di  linea.  Data  la  voglia di rientrare della mia famiglia, alla quale si era unita anche la  mia giovane  sposa,   cercammo   un  traghettatore   o come   si   direbbe   oggi,  uno   scafista.  Lo   trovammo   a Siracusa,  al  porto.  Lui  prendeva tempo, perché  non  si fidava,  ma  poi  acconsentì  e  raccolse  settanta persone che   dovevano  attraversare   il   Mediterraneo   in   moto- peschereccio, ma questa volta partendo dalla Sicilia.

Il viaggio fu unaltra avventura, prima per raggiungere a gruppetti con piccole barche il natante che aspettava al largo  e  poi  per  affrontare  due  notti  e due  giorni  di navigazione.    Tutti    i    movimenti   dellimbarco   sono avvenuti di  sera  tardi,  per  evitare  i  controlli;  il motore era una Isotta Fraschini, aveva un bel rombo e presto ci siamo trovati  in  alto  mare.  Per  fortuna  era  estate  e il mare era calmo, ma attorno a noi cera solo mare, sole e il buio della notte. Dovevamo avere pazienza e pregare. Fattosi  giorno,  i  marinai  ci  invitarono  a fare silenzio e restare  chini  e  coricati  sul  fondo,  perché  eravamo  nei pressi di Malta ed era prudente  non farsi vedere. Dopo un altro giorno di navigazione, venuta la sera, i marinai ci  avvisarono  che  non  mancava molto, infatti dopo  un paio  dore  vedemmo  delle  luci  e  finalmente  la terra.  Il motore venne messo al minimo, ora la barca si muoveva appena. Il capo dei tre marinai col binocolo osservava la terra   vicina   a  quelle  luci,   era   quello  il  punto   dello sbarco;   eravamo   davanti   ad una spiaggia,   il  lido  di Tripoli, come dire, davanti casa. In precedenza avevamo osservato   un  passeggero  che   parlottava   con   il  capo barca,  allarrivo   capimmo   che  era   un  familiare  dei proprietari  del  lido,  dove   in   quel   momento   si  stava svolgendo una serata danzante. Aspettammo  in silenzio la fine della  festa e poi fu messa  in acqua una piccola barca,  dove  presero posto  il  nostro  compagno  con un marinaio.  Dopo circa mezzora  ecco arrivare  due grosse barche, i cui rematori erano arabi, i quali, nella gioia di vedere   il  loro   padrone,   si prodigarono,  con  parecchi viaggi, a portarci a terra. I marinai rimasti a bordo, nel salutarci ci chiesero di non buttare il cibo che ci era avanzato,  perché  poteva  servire  a  loro  nel viaggio  di ritorno.

L Isotta Fraschini si rimise in moto e prima che noi toccassimo  terra,  era scomparsa.  Ci siamo  calati  scalzi sul bagnasciuga, toccando terra. Gli Albanesi nel 2000 e poi  gli  Africani  hanno  copiato  da  noi.  La  famiglia del nostro compagno di viaggio è stata gentile, nel suggerirci come non farci trovare dalla polizia, altrimenti cera larresto e il rimpatrio. Come Dio volle raggiungemmo la nostra casa, riabbracciando i nostri familiari increduli.

Permanenza a Tripoli 

Così ritrovammo le nostre abitudini, amicizie, luoghi che avevamo lasciato  ma non  dimenticato,  mentre  per mia moglie   tutto   era   nuovo   e   veniva  conquistata   dalle bellezze della città, di cui le avevamo tanto parlato e che lei stava provando e assaporando. Non persi tempo per cercarmi un lavoro; anche se, essendo arrivato clandestinamente, ero sprovvisto di documenti, mi presentai agli uffici delle officine P.W.D. e trovai due persone che discutevano, poi seppi che erano lo Staff  Watson , seduto alla scrivania , e Vittorio Malinconico, il capo officina. Alla mia richiesta di lavoro, lo Staff rispose affermativamente,  chiedendo  il  mio  nome  e  un documento. Gli dissi il nome, facendo finta di cercare il documento, che sapevo di non avere; nello stesso tempo, contando su quellaltro signore, Malinconico, che mi ispirava  unistintiva  fiducia,  senza  essere  visto dallinglese, gli feci un gesto significativo  con la mano e lui capendo al volo, assicurò lo Staff che si sarebbe occupato della questione.

Lo Staff  si allontanò, raccomandandomi di tornare lindomani, puntuale al lavoro con i documenti. Rimasti soli,  il  mio  salvatore  mi  chiese  se  ero arrivato  con le barche, e capita la situazione, mi assicurò che lì mi sarei trovato in  buone  mani  e  potevo  stare  tranquillo.  Per merito suo ho fatto la mia carriera di operaio meccanico, anzi  posso  dire  che  diventai  il  suo beniamino,  perché per qualunque problema si rivolgeva a me.

Gruppo lavorativo del P.W.D. - Natale 1952

Un altra persona  che  mi stimava molto,  era  il  maggiore  inglese, che comandava tutte le officine collegate ed aveva il suo ufficio  in  corso  Sicilia,  al Palazzo del Governo.  Ogni tanto   veniva   ad   ispezionare   i   reparti   con   la   sua macchina privata, una Hillmann. Mentre si fermava per le ispezioni, voleva che gli controllassi la macchina, ed io cercavo di farlo contento. Una volta, invece, telefonò a Malinconico,   chiedendo   che   lo  raggiungessi   al   suo ufficio. Arrivato , tutto emozionato e non sapendo cosa voleva  il  maggiore  da  me,  mi  vidi  consegnare  le  chiavi della  sua  macchina,  che  doveva  servire per  portare  in giro la moglie, ma ad una condizione, che non la facessi assolutamente   guidare.  A   casa,  trovai già   pronta  la signora che, uscendo, si avviò verso il posto di guida. Io fui  più  svelto  di  lei,  le  aprii  lo sportello  di  dietro  e  mi infilai al posto di guida. Volle essere portata ai magazzini generali inglesi, e, alluscita, risalendo in macchina, cominciò  a  fare  conversazione, mentre  io  la osservavo dallo specchietto retrovisore. Poi sorridendo mi chiese di guidare ed io, altrettanto  sorridendo le risposi di no. Al che lei domandò se era suo marito che me lo aveva raccomandato e, alla mia risposta affermativa, smise di insistere.  Questa   fu   la   prima   delle   tante  uscite  in macchina che facemmo insieme.

Ormai  i  soldati  inglesi,  di  turno  allentrata,  mi conoscevano e mi facevano entrare senza problemi. Nelle successive   uscite,   ogni   tanto  tornava   a   chiedere   di guidare,  ed  io  alla  fine,  persi  la  mia  fermezza, concedendole  il  posto  di  guida  e sedendole  accanto. Capii subito il motivo dei divieti del maggiore, la signora era  una spericolata  ed  io temevo  per  tutti  e  due.  Le chiesi cosa sarebbe successo se il marito fosse venuto a saperlo  e  candidamente  mi  rispose  che  non  sarebbe stata certo  lei  a  dirglielo.  Da  quella  volta  ha  guidato sempre lei.

Ad  agosto  del  1948,  la  mia  famiglia  aumentò,  nacque una  bambina, in via Raffaello  n.  31.  Tutto  era  andato bene, ma dopo una settimana mia moglie ebbe delle complicazioni; chiamai il primario del reparto chirurgia, professor Regoli, che la fece immediatamente ricoverare. Ora  dovevo  tutti i giorni  recarmi  in  ospedale  e rispuntava quel problema, che ancora non avevo risolto, la   mancanza   di  documenti.   Anche   se   avevo   amici inglesi, non avevo osato ancora sollevare questo argomento,   forse  sbagliando,   temendo   di   perdere   il lavoro. Avevo un grande amico francescano, padre Illuminato   Colombo, che  proteggeva   ed  aiutava chiunque avesse bisogno. Mi rivolsi a lui, raccontandogli le mie vicissitudini e quali conoscenze avessi sul lavoro. Lui   contat   il  maggiore   inglese,   che  comandava   in polizia  e,  dopo  una  settimana,  fui  convocato.  Seppi, dopo,  che erano  state  chieste  informazioni  su  di me  al capo del P.W.D., proprio quel maggiore, che si fidava di me, affidandomi la macchina con la moglie. Il capo della polizia, infatti, mi confermò che la mia situazione si era sbloccata  proprio  grazie  a  lui,  che aveva  garantito  per me. Con il tanto sospirato documento, mi recai al lavoro e venni  a  sapere  da  Malinconico  che  il  maggiore  mi voleva al Palazzo del Governo; quando arrivai, mi chiese se avevo sistemato tutto ed io sorridendo, gli mostrai il documento, che dovevo a lui. Per ringraziarlo, nellandarmene scattai sullattenti, battendo i tacchi, riconoscendo la sua superiori e magnanimità.

Ho già raccontato tutto quello che ho vissuto in guerra e nella Tripoli degli anni del dopoguerra, quando ormai la città  non  era  più  italiana  ed  erano  entrati  gli  inglesi; tanto  che  io  lavoravo,  come  ho  già  detto,  per  loro  al P.W.D. Proprio in quel luogo ho conosciuto per caso, il signor  Tullio Mantovani,  che  aveva  la  sua  officina  in sciara Bu Harida. E venuto in visita al P.W.D. e assieme al  capo  Malinconico  ha fatto  il  giro  tra  i reparti.  Quel giorno io ero intento ad un lavoro di alta precisione, collocare il bareno in un basamento di motore per la barenatura  e ladattamento delle bronzine  di  banco  di un motore a sei cilindri, che stavo mettendo a nuovo. Lospite, che  era  un  esperto  nel  campo,  rimase colpito da quello che stavo  facendo,  tanto che, nellandarsene, mi invitò a visitare la sua officina; poi, quando lo feci, mi propose di fare dello straordinario da lui, fuori dalle mie ore di lavoro. Accettai, anche per arrotondare le entrate. La sua officina aveva reparti di torneria, di motori industriali, saldature elettriche e autogene con forno di raffreddamento.   Fuori   ,   un  vasto   cortile   conteneva rottami ferrosi di qualsiasi tipo e forma, che venivano recuperati   da  varie   zone   e   servivano   a  creare   pezzi nuovi, dato che non arrivavano più i pezzi originali di ricambio dalle  fabbriche  italiane. Nella sua officina era iniziata   anche   la   costruzione   di   grosse   presse,   che dovevano   servire   ad  eliminare   laminati   leggeri,   filo spinato  , residuati  di guerra  di tutte  le battaglie che si erano svolte in Libia. Questo lavoro gli era stato commissionato  dalla  ditta Citexco.  Nello  straordinario che  facevo  da  lui,  imparai  il  loro  funzionamento  nei minimi particolari.

I primi anni cinquanta videro la partenza degli inglesi da Tripoli e anche la mia uscita dal P.W.D. Un altro lavoro già   lavevo,   però   il   P.W.D.   mi  aveva   formato   come operaio,  avevo  conosciuto  persone  degne  di  ogni rispetto,  dallo staff Watson , al maggiore  a cui dovevo i miei sudati documenti e che mi aveva onorato della sua amicizia  e   soprattutto  Vittorio   Malinconico,  che   non potrò mai dimenticare per la stima vicendevole che avevamo  luno  per laltro.  Con  la  fine  di  questo  lavoro, fui assunto dallofficina meccanica Mantovani, arrivando proprio nel momento della istallazione delle presse della Citexco,  dove  lui  mi mandò.  Ora  si  apriva  un  altro capitolo   della  mia  vita,  salivo   di   grado,  perché   alla Citexco avevo i diritti dovuti a tutti i lavoratori regolari, compresa lassistenza per me e la mia famiglia. Fui assegnato   al  funzionamento   delle   presse.   La   mano dopera  era  tutta  araba,  io   solo  ero  italiano.  In  un quadrato di raccolta, infisso nel terreno, venivano gettati e  sistemati   dagli   arabi,   vari   pezzi   di   ferro   e   altro materiale ferroso; quando il quadrato si riempiva, veniva chiuso  con  uno sportello  rinforzato  da  grosse  barre  di ferro. Io avevo il compito di azionare dei sollevatori, che, con una pressione di 200 atmosfere, spingevano una grossa   piastra   allinterno   della   pressa   e   tutto   quel materiale diventava una balla quadrata, che all’apertura dello   sportello   con   grosse   mazze,  veniva  sollevata  a mano  da  un  arabo,  dall’aspetto  di  un  ercole,  di  nome Slim.

Questo  lavoro  durò  circa  un  anno  e  mezzo  e  alla  fine tornai  alle officine Mantovani,  addetto  ai  motori industriali. Slim mi si era molto affezionato e mi pregò di trovargli qualcosa da fare. Mantovani, nella sua officina, aveva bisogno di un guardiano notturno ed io gli raccomandai  lui, che riuscì  subito  gradito  al principale per il suo fisico. Gli fu assegnata una baracca; Slim mi pregò di chiedere se poteva portare anche la moglie, ma Mantovani era restio. Io lo convinsi, che, se ci fosse stata la moglie, sarebbe  stato  più legato  a quel posto,  anche durante   il   giorno,   e  così  fu,   perché   Slim,   per   la gratitudine, anche se non aveva un compito preciso, si rendeva  utile  in  ogni  modo,  e  Mantovani  capì  di  aver fatto un  buon  affare.  Tullio  non  lavorava,  ma  dirigeva con la sua costante presenza tutti i reparti dellofficina. Aveva preso labitudine di cominciare il suo giro dal mio reparto  e  con  il  tempo  prese a  parlare  con  sempre maggior confidenza. A volte questi colloqui venivano sospesi, perché usciva con la sua Austin, restando fuori un po di tempo, e  , al  suo ritorno, ripassava  da me e riprendeva, come se continuasse il discorso interrotto, dicendo: Allora, hai capito? - La prima volta non riuscii a seguirlo, poi capii e alla sempre stessa domanda, lo precedevo, continuando, come se non ci fossimo mai interrotti. Aveva  la  passione per le moto, che  venivano messe  a  punto,  per  le  gare,  nella  sua officina; partecipava,  come  capitano  dei  Diavoli  neri,  allo speedway motociclistico, che  si  svolgeva  sotto  lalbergo dei Mehari e che richiamava  un folto pubblico  di tifosi. Io,  insieme  a  mia  moglie  e  mia figlia,  non  mi  perdevo una gara e in queste occasioni, incontravo la moglie e il figlio di Mantovani, che lo seguivano.

Tripoli, agosto 1952 - Mia figlia Lina con la cugina Lina sul Lungomare  Conte Volpi, alle loro spalle l’Uaddan

Con il tempo mi confidò che aveva in mente di lasciare Tripoli,  perché  la vita cominciava  a  farsi  difficile;  la giovane   generazione   libica   mal   ci  sopportava, inutili erano  i  ripetuti  appelli  di  re  Idris,  rivolti  a  loro per  il  rispetto   verso   di   noi.   Molto  diverso  era   invece latteggiamento dei più anziani, specialmente quelli che avevano condiviso con noi il lavoro. Mantovani era originario  del  Veneto  e  lì  pensava  di  tornare, impiantando   unofficina,   anzi   mi   aveva   proposto   di seguirlo e lavorare  ancora  con  lui.  A  me  il  discorso piacque,  tanto  che  ne  parlai in famiglia.  Anche  mia moglie aveva notato il diverso comportamento, a volte irrispettoso, del libici, dato che lei era in contatto con la gente,  in strada,  forse  più  di  me.  Per  questo cominciammo a valutare la situazione, anche perché le comunicazioni aereo-navali con lItalia si erano riaperte, la Tirrenia aveva destinato il piroscafo Argentina, che da Napoli, toccando Siracusa e Malta, raggiungeva Tripoli e viceversa. Fui informato dal mio principale che doveva mancare  per un po di tempo,  per recarsi  in Italia e in quel periodo io dovevo sostituirlo, facendo un po da sorvegliante   lavoratore.   Ci   riuscii   abbastanza   bene, tanto  che al  suo  ritorno,  Mantovani  trovò  tutto tranquillo e ritornò  alla carica nellinvitarmi  a seguirlo, dato che ormai la sua idea si stava concretizzando. Essendo arrivato il momento della decisione finale anche per  me,  mia moglie  mi  suggerì  di  andare  in  Sicilia,  al suo   paese,   per  vedere   come   si   viveva   e   se   cerano possibili di lavoro. Lidea non era proprio da scartare, valeva   la   pena   fare   questa   prova;   perciò  chiesi   un permesso  al principale,  che me loaccor,  di mancare un mese per recarmi in Italia. In real il passaporto era valido tre mesi, ma io non ne parlai.

 

Ritorno in Sicilia

Era  il  mese  di  giugno  1955.  Arrivati  in  Sicilia,  mia moglie ritrovò i suoi genitori, fratelli e sorelle, mentre io pensavo  al  da  farsi.  Castrofilippo  era  ed  è  ancora,  un paese agricolo, i suoi abitanti coltivavano la terra manualmente,  ma  anche  con  mezzi meccanici.  Proprio in  uno  di questi mi  imbattei  un  giorno;  in  un  garage cera un operaio che stava montando un motore in un trattore,  mentre  il  padrone  dellofficina,  che ho conosciuto dopo, era seduto al fresco. Chiesi il permesso di   entrare   e  mi  informai   sul   lavoro,   che   si   stava svolgendo, facendo delle domande pertinenti, dalle quali si capiva che ero del mestiere. Quel motore era stato revisionato a Caltanissetta, alle officine O.M.; a quella notizia le mie orecchie si drizzarono e chiesi informazioni alloperaio,   che,   senza   parlare,   mi   indicò   il   signore seduto fuori, al quale chiesi se avevano bisogno di un operaio, ma lui, non conoscendomi, titubava e mi pose molte domande sulla professione. Io oltre a nominare motori e macchine su cui avevo lavorato, spiegai anche la mia situazione  di profugo precario ed il breve tempo, che avevo, di prendere una decisione, che doveva essere definitiva, data limportanza del passo che mi apprestavo a fare.

Fui    invitato    ad    una    prova    pratica    in    sede,  Caltanissetta. Arrivato  a  casa,  raccontai  la  notizia  che mi sembrava importante e risolutiva per il nostro futuro a mia moglie, che ne fu felice. Allinizio della settimana, mi  recai  sul  posto  del nuovo lavoro  e  diedi  prova  delle mie capacità, dato che fui cambiato continuamente, proprio  per  tastarmi,  nei  vari  settori.  Data  la  distanza dal  mio  paese,  abitavo  in una  locanda,  per  tornare  il sabato sera; ma già quel primo sabato il principale, pagandomi  la prima  settimana  di lavoro,  con  una cifra che  giudicai  superiore  a  quella  che  prendevo  a  Tripoli, mi informò che potevo ritornarvi per sistemare la mia posizione  e poi  prendere  definitivo posto  allO.M.  Dissi che avevo altri giorni di permesso e volevo essere ancora messo   alla   prova, andò  a  finire  che  quei   giorni superarono   il  mese   che   avevo   chiesto  a  Tripoli   al principale.  Nel  frattempo arrivò una lettera  da parte  di mio fratello, che aveva incontrato Mantovani adirato per la mia assenza ingiustificata e mi informava che, persistendo così,  avrei  potuto non  trovare  più  il  mio posto.  Questo  mi  fece decidere  e  ripartii  con  la  mia famiglia alla volta di Tripoli. Dato che mio fratello aveva accennato  sommariamente  la mia  situazione,  trovai  ad accogliermi un Mantovani inaspettatamente sorridente e curioso di sapere tutte le novi del mio nuovo lavoro in Italia. Io lo accontentai,  gli dissi come stavano ormai le cose e che sarei partito per sempre. Lui con grande magnanimi volle che tornassi, per quei giorni che restavano,  al  lavoro, prendendo ore  di  permesso  per sbrigare  le  pratiche  per la  partenza. Mi  mise  a disposizione persino la sua macchina, per eventuali spostamenti, dato che dovevo vendere la mia balilla.

Con mia moglie, mia figlia e la mia mia balilla

Lasciare Tripoli definitivamente non era così facile come poteva sembrare, era stato difficile entrarvi clandestinamente,   ma   era   pure   difficile  uscirne.   Si doveva dimostrare di non avere pendenze con la polizia, cause, contravvenzioni, una dichiarazione liberatoria del padrone di casa, bollette pagate di acqua, luce, gas. Quando   tutte   queste   pratiche  furono   espletate   e   fu fissato il giorno della partenza, conclusi il lavoro da Mantovani salutando tutti, compagni di lavoro, Slim, ma soprattutto lui, Tullio, che, avvicinandosi a me, per stringermi  la mano, mi disse: non hai avuto fiducia in me! ciao e buona fortuna” - Non ho potuto e saputo rispondere.  Sarà  stato  un  rimprovero  o  un complimento? Se  avessi  ascoltato  lui,  oggi,  invece  del siculo avrei parlato in veneto.  Comunque   auguro   a  lui,  se   mi   leggerà,  e   alla  sua famiglia   tanta   fortuna   che,   sicuramente,  avrà   avuto nella  sua  terra  natia. 

La mia patente libica

 

Addio a Tripoli 

Arrivato  il  giorno  della  partenza, tutta  la  famiglia  venne  a  salutarci  in  via Raffaello,  la strada che ci aveva visti crescere, quanti ricordi, quando sul marciapiede mia figlia pedalava sul triciclo, fatto da me.  Sulla  strada  per  il  porto,  cercavo  di imprimermi bene nella memoria tutto ciò che vedevo, la scuola delle suore  bianche,  con  suor Erminolda, la maestra di  mia figlia,   per   tre   anni,   la   chiesa   della  Madonna   della Guardia, dove andavamo a messa la domenica, corso Sicilia,   piazza  Italia,   piazza   Castello   e   poi   tutto   il lungomare Bastioni fino al porto, dove ci attendeva la nostra nave Argentina.

Questa volta non era un viaggio di piacere, era una partenza definitiva; mettendo i piedi sulla scaletta della nave ci trovavamo già in suolo italiano. Dal molo dovera ancorata la nave, si vedeva la cupola e il campanile della Cattedrale,  le  due  torri  del palazzo  della  previdenza sociale, la torre del banco di Roma, la torre del palazzo del Governo, il maestoso e splendido lungomare alberato di palme con le due alte colonne, le guglie e i merletti del Grand Hotel, tutto il palazzo della cassa di risparmio, il Castello  e  tanti  tetti  di  case  bianche,  caratteristiche della città. Questo era quello che i nostri occhi avevano potuto  fotografare prima  che  calassero  le  ombre  della sera del 5 Settembre 1955, lasciando in noi come una negativa,  che  restava  custodita  nella  memoria  e  nel ricordo.   Al   suono   della   sirena,   la   nave   cominciò   a staccarsi dalla banchina e sembrava che dicesse definitivamente: Addio, mia bella e cara Tripoli! - Lasciavamo  questa  città,  insieme  ad  un  lungo  periodo della nostra vita, trascorsa in quella terra che era stata la quarta sponda dellItalia e che poi si era rivelata come lodissea  dellItalia  in  Africa.  Oggi  a  distanza  di  tanti anni mi è rimasta  la nostalgia  delle sue bellezze  create dalla intelligenza, maestria, bravura di architetti, ingegneri,   tecnici   e   operai   specializzati   italiani,   che hanno saputo costruire strade, ferrovie, viadotti, allontanando   il   deserto   dalla   città   e  al   suo  posto costruito  palazzi degni di fare invidia a tutte le nazione del mondo.

A Siracusa,  la mattina  del 7 settembre,  eravamo  attesi dai  funzionari della  Prefettura,  che,  dopo  aver controllato   il   foglio   di   via,   rilasciato  dal   consolato italiano di Tripoli, mi fornirono un attestato, da portare al comune  di Castrofilippo,  in cui si comunicava  il mio stato  di  profugo, assegnandoci  il  generoso  sussidio una tantum  di  dodicimila  lire  per me,  capo  famiglia, e cinquemila cadauno per mia moglie e mia figlia. La mia vita lavorativa in Sicilia si è svolta tra lO.M. di Caltanissetta  e  in seguito  lapertura  di  una  officina  in proprio  nel  paese  che  mi ospitava,  Castrofilippo; lofficina  fu  affiancata,  in  seguito,  anche  da  un distributore di  benzina,  per  cui  la  mia  vita  divenne sempre  più  intensa,  ma  per  fortuna  piena  di soddisfazioni,   da   parte   di   clienti  del   paese   e   del circondario.   Ho  continuato   a   seguire   le   vicende  di Tripoli, che considero ancora oggi la mia città, anche perché i miei fratelli e sorelle erano rimasti lì.

Li  ho  seguiti  nei  tragici  avvenimenti  del  1970,  il  loro forzato rimpatrio, la difficile ricerca di una località dove stabilirsi,  fino  agli  ultimi  fatti  di questi  mesi,  a Tripoli, che mi hanno colpito nel profondo, nel vedere le macerie dei  luoghi  tanto  amati.  Oggi  ho  la  fortuna  di  avere raggiunto gli ottantanove anni, di avere una discreta salute, una buona memoria e la possibili di  scrivere, soprattutto   con   laiuto   dei   miei   cari,   senza   i  quali sarebbe stato impossibile il mio accesso a Internet. Ho anche  un  fratello maggiore, che  ha raggiunto  la veneranda e di 98 anni, vive a Grosseto, accudito dalla figlia  e  con  il  quale  mi  sento  spesso.  Vivo perciò  di ricordi, di lettere, di scambi di opinioni, da parte di tanti amici sconosciuti sparsi in tutta Italia. Questo è stato possibile solo grazie a Paolo Cason, che con la sua straordinaria  pazienza  raccoglie  e mette insieme  le voci di noi esuli. Grazie Paolo, grazie anche a quelli che mi hanno letto e contattato  e a quelli che mi leggeranno e mi contatteranno;  con  sempre  Tripoli  nel  cuore,  saluto tutti.

I nostri FOGLI DI VIA rilasciati dl Consolato Italiano di Tripoli
Certificato rilasciato dalla Prefettura di Siracusa nel 1955




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