La stanza  di Emilio Luigi Parlato

Emilio Luigi Parlato

 

CAPITOLO II

  

Da Tripoli a Hon orizzontarsi nel deserto

  

Bashir 

Anche  questo è un mio  ricordo, si tratta di un altro viaggio di lavoro, quando   ero   ancora al  P.V.D., ma questa volta si trattava di arrivare ad Hon, distante dalla capitale 650 chilometri, di cui 450 in pieno deserto, per recuperare  dei motori che ad Hon non servivano. Avremmo  dovuto  partire con tre  macchine, capeggiate, la prima da due responsabili inglesi con lautista arabo, nella seconda dovevo  esserci  io con il secondo autista arabo e nella terza il collega di lavoro, Del Cuoco, con il terzo  autista  arabo. Il  mio aiutante  Bashir, nativo  di Socna, locali a pochissimi chilometri da Hon, non era stato messo in lista per poter venire, ci è rimasto molto male e mi ha pregato affinchè venisse con noi. Io ne ho parlato con il solito caro Malinconico, sempre pronto ad ascoltarci, dicendo che  Bashir,   essendo del luogo, poteva esserci utile. Per  mezzo  suo Bashir  è entrato nella  lista.  Saggia decisione,  perché poi  ci è tornato utile. Dietro suo consiglio,  abbiamo  portato  della  roba, che lì non avremmo  potuto trovare, come  pasta e pane in abbondanza, il primus per la cottura dei cibi e alcune pentole. Dovevamo stare circa 15 giorni.

Viaggio a Hon

Le  macchine  sono  state  caricate,  oltre  agli  attrezzi  di lavoro e la nostra roba, anche di due fusti di 200 litri di acqua per bere e per i radiatori delle macchine e bidoni di benzina di scorta; legate  ai laterali  le lamiere bucate da usare in caso di insabbiamento insieme alle pale per spalare la sabbia. Hon è una locali della Tripolitania , che confina con il Fezzan; la sua oasi, ricca dacqua e di 40.000 palme da dattero, contava 3.500 abitanti.Siamo   partiti,   capi   colonna   gli  inglesi,   in   seconda posizione io e in terza Del Cuoco. Questo era lordine di marcia, non erano permessi prove di velocità o sorpassi, e questo è rimasto fino ad un certo  punto.

Consci del percorso e delle difficol che ci attendevano, perché avevamo studiato tutto a tavolino, abbiamo percorso   la   litoranea  che   va   verso   la   Cirenaica   e sorpassati Homs, Leptis Magna, Zliten e Misurata, lasciamo la litoranea e prendiamo la strada che va verso sud,  allinterno,  superando  el  Gheddahia;  in  serata  e prima che facesse buio, siamo arrivati a Bu Ngem, dove abbiamo pernottato, passando la nostra prima notte in pieno deserto. Gli inglesi avevano fissato lora della partenza  per  la  tarda  mattinata,  ma  i  libici,  che di deserto ne capivano sicuramente più di noi, hanno consigliato  di partire  appena  faceva  giorno;  infine gli inglesi si sono arresi, avevano capito che bisognava viaggiare  nelle ore  più  fresche  e anche  perché  tra  Bu Ngem   e Hon non c era nessuna altra località, ma solo sabbia  e  bisognava  arrivare   prima  di  sera,  per  non restare isolati di notte. I tendoni di copertura delle macchine   sono   stati   arrotolati   in   alto,   in   modo   da lasciare circolare l aria in tutta la macchina, mentre   il sole   faceva   il   suo   lavoro   in   quella   zona   desertica, portando la temperatura in alto.

Abbiamo dovuto ricorrere più volte ai fusti d acqua,  sia per noi che per i radiatori che bollivano e mettere stracci bagnati sulle pompe ACI della benzina, che con il calore si bloccavano, facendo fermare il motore. Noi   approfittavamo   di   queste   continue   fermate   per mettere qualcosa  sotto  i denti e rinfrescarci  il viso. Ma sono arrivate anche le dune di sabbia, che con i loro spostamenti avevano invaso quel poco di pista carrabile che si poteva vedere.

Alt!  La  macchina  di  testa  si  è  fermata  e  subito  dopo anche noi . Linglese, con la bussola in mano ci indicava quale,  secondo   lui, era la   direzione   da  seguire,  ma questa era sbarrata dalla sabbia, che vi si era stabilita. Uno   degli   autisti,   e  precisamente  il   mio,   non   era d’accordo  a  seguire  quella direzione,  ne indicava unaltra, ma avremmo dovuto superare    qualche montagnola di sabbia e lui era sicuro che subito dopo, avremmo  trovato   nuovamente   la   pista  che   avevamo perso.Continuava a spiegare che era pratico del deserto, prendeva  manate  di  sabbia  e  le  buttava  in  aria  e  ci

faceva vedere il vento dove le portava, per far capire che, se avessimo continuato per la direzione della bussola, ci saremmo insabbiati, e indicava l altra direzione.

L inglese  cominciò  ad  innervosirsi  e  a dire parolacce nella sua lingua, una di queste era fuck you. L arabo, che aveva ricevuto quelle parole   anche a Tripoli e ci era abituato, lì, in pieno deserto dove si sentiva a casa,  non le tollerò affatto e prendendo l inglese per il bavero, gli ricambiò la parolaccia. Noi, preoccupati per la piega che aveva preso l accesa discussione, cercavamo di dividerli. I  due inglesi,  si  sono  guardati  e,  forse  perché  si  sono visti  in minoranza,  hanno  aderito,  anche  se  a malincuore, a quello che diceva l autista e tutti insieme abbiamo seguito le sue indicazioni.  Si è molto lavorato, spostando una avanti all altra le lamiere  che  ci  permettevano  di  fare  avanzare  le macchine poco alla volta; tutti abbiamo lavorato, anche gli inglesi, non erano superiori, si guardava solo alla sopravvivenza. Abbiamo superato la parte più morbida della sabbia  che  si  era  spostata  col  vento  e abbiamo trovato quella più dura, più solida, che ci ha permesso di arrivare alla pista, senza più laiuto delle lamiere, che abbiamo sistemato dentro le macchine. Qui, fermi ormai sul duro, vedevamo la soddisfazione dellautista arabo, e la mortificazione dell’inglese. Quest  ultimo,  ha fatto  un  gesto veramente  nobile,  che non  ci aspettavamo;  è  andato  verso larabo e  gli  ha stretto la mano, ammettendo la sua superiori   in tema di deserto; abbiamo applaudito. Non contento di questo, l  inglese disse:  OK,  ora  il capo  colonna  sei  tu,  vai avanti”.  Così abbiamo  proseguito  il viaggio,  con  la  mia macchina  in testa,  senza  più  intoppi  e senza  difficoltà, sotto  il  sole  cocente.  Allimbrunire  siamo arrivati   ad Hon,   esausti,   ma   trovando   degli   alloggi  abbastanza decenti. Ci siamo divisi in settori di nazionalità,  in uno gli inglesi, in un altro gli italiani e nellaltro gli arabi. Bashir, il mio  aiutante,  non  ha  fatto  parte  del  gruppo degli  arabi  perché la stessa  sera  è  andato  a  Socna, distante    qualche   chilometro,   dove    abitava    la    sua famiglia;  andava  la  sera  e tornava  la mattina  per  il lavoro.

 

Permanenza a Hon 

A  causa  del  forte  caldo,  il  primo  giorno  di  lavoro  è andato male, per i giorni successivi ci siamo organizzati, cominciando prestissimo e sospendendo nelle ore più calde. Ero abituato al caldo di Tripoli, ma quello di Hon era terribile. Anche gli stessi arabi del luogo, sparivano ad un certo orario e poi ricomparivano. Le serate le passavamo  scambiandoci  le  visite,  è  capitato  che una volta gli inglesi sono arrivati mentre stavamo cucinando, forse spinti dal profumino che si sentiva e sono rimasti a mangiare da noi. Abbiamo fatto una spaghettata, l abbiamo  condita  con  un sughetto  che  era la fine  del mondo, roba da leccarsi i baffi. Gli inglesi l hanno ben gradita e ci hanno invitato  per la sera seguente. Anche da  loro  si è mangiato  bene,  non  ho  gradito solo l abitudine  di  bere  latte  a  tavola.  Bashir  non  ha  voluto essere da meno   e ci ha invitati a mangiare il cuscus a casa sua, a Socna, dove siamo stati accolti molto bene. Io non so cosa Bashir avesse raccontato di me alla sua famiglia,  un  fatto  era certo, suo padre  si  era  messo  al mio fianco, e non finiva più di domandarmi di suo figlio, chiedendomi  come  si comportava,  cosa  faceva, orgoglioso di quel figlio, che indossava il camice da meccanico.

Arrivato  il  momento  del  pranzo,  siamo  stati  invitati, dopo aver tolto le scarpe,   ad entrare in una stanza dove cera una grande stuoia, sulla quale ci siamo seduti incrociando  le  gambe.  Al  mio fianco  cera  sempre  il padre  di  Bashir,  che  mi  invitava  a  mangiare,  quasi volesse   imboccarmi.   Eravamo   tre   razze,   seduti  allo stesso desco e questa fratellanza era molto bella. Ad un tratto alle nostre narici è arrivato un odore meraviglioso, che si sprigionava dalle pietanze. Noi europei siamo stati serviti nei piatti, gli arabi hanno mangiato tutti insieme, prendendo il cibo con le mani da una grande conca di legno,   da   dove   ognuno   seguiva   la   sua   direzione, andando  verso  il  centro,  senza  sconfinare nella  parte dell altro. La mamma di Bashir è comparsa per servirci il pranzo, ma non si è seduta con noi. Il cibo era piccantissimo  e  ogni  tanto  dovevo fermarmi  per respirare  e  bere sorsi  d’acqua.  Poi è  arrivato  il  rito del thè,  preparato  usando foglie  essiccate  con  una operazione molto lunga, inframmezzata da chiacchiere e racconti.

Si  usano  diverse  caffettiere,  dalla  prima  esce  il  primo thè, che ha un gusto aspro e fortissimo. Nella seconda caffettiera si mettono a bollire le foglie già sfruttate ottenendo un thè meno forte e più leggero. Poi si passa alla terza caffettiera dalla quale fuoriesce un thè leggerissimo al quale si aggiungono un po di noccioline. Questo era  il thè  che  preferivo  a  Tripoli;  quando  in officina interrompevamo  il lavoro  per fare  il  thè,  anche se  pagavo  la mia parte  per  intero, prendevo  sempre  il terzo   bicchierino   con   le  noccioline.   Nel   pomeriggio Bashir   ci   ha   fatto   visitare   Socna,  un   centro   più importante di Hon, che contava 1.500 abitanti, appartenenti alloasi di Giofra che era stata il capoluogo prima di Hon. Era situata su una piccola altura, in una conca  ricca  dacqua  e  di  palmeti  con numerosi  pozzi, molto caratteristici, costruiti con uno scivolo del terreno in  pendenza  che  facilitava  e  rendeva  meno  faticoso  il lavoro dellanimale addetto al sollevamento.

Nei   giorni   successivi   abbiamo   lavorato   alacremente, anche perché i nostri viveri si assottigliavano sempre più ed  eravamo arrivati  a  cibarci  di  pane  duro  ammollato con  lacqua  e  uova che si  trovavano  in  abbondanza, anche se nellaprirli, dovevamo stare attenti alla loro freschezza,  molto  in  forse,  dato  il  caldo.     Quando il lavoro fu terminato, abbiamo caricato la nostra roba, per partire la mattina dopo all’alba, pregustando la gioia del ritorno.

Ritorno a Tripoli

Questa   volta,   durante   il   viaggio,   non   ci   sono   state difficoltà, la pista era quasi sgombra e siamo arrivati la sera,  per  il pernottamento a  Bu  Ngem,  dove  avevamo fatto la prima tappa all’andata e dove cera una piccola oasi  e  i  resti  di  un  vecchio fortino  dei  Romani. La mattina dopo siamo ripartiti, e dopo un centinaio di chilometri,  superando  el  Gheddahia,  abbiamo puntato su   Misurata,   distante  altri   130  chilometri;  ormai   si sentiva già lodore del mare. Finalmente ecco Misurata, città di circa 5.000 abitanti,  con una fiorente  industria di tappeti e un popolato quartiere di italiani. Ormai, arrivare  a  Tripoli  era  una passeggiata,  la  litoranea  era tutta asfaltata e si poteva viaggiare senza sbalzi. Passati Zliten e Homs, nel pomeriggio siamo arrivati, facendoci annunciare  da  colpi  di  clacson nei  cortili  del  P.V.D., accolti  con  grande  entusiasmo.  Finalmente ero  sulla strada  di casa,  avviandomi,  pensavo  che  mia  moglie  e mia figlia avrebbero stentato a riconoscermi, tanto ero diventato nero. Invece, dopo un attimo di smarrimento, allapertura della porta, sono stato accolto da entrambe come  un  eroe,  il  reduce  che  ritorna  a casa  dopo  la guerra. Ritrovando gli affetti familiari, la nostra cucina e una comoda  vasca  da  bagno  colma  d’acqua  calda,    le mie stanchezze  sono passate  e di quei giorni è rimasto solo un bel ricordo, che permane ancora indelebile nella mia mente.

   
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