LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

LA VOCE NOTA

 

Eravamo in postazione dietro un fiume, a sud della mia città.

La mia casa distava non più di due chilometri, al termine di un viale di pini marittimi dalla chioma generosa, ora sfrondati, con certi monconi scortecciati, dilaniati, bruciati.

Col fronte in bonaccia mi era concesso far visita ai miei cari, magari procedendo, per sicurezza, parallelamente alla strada, a una cinquantina di metri di distanza, fuori dal tiro.

Cosa non agevole  per svariate  ragioni.  In primo  luogo  i campi zuppi d’acqua in quell’autunno piovosissimo che non mi permettevano di procedere spedito.

Tanto che preferivo la bicicletta, giocando d’azzardo con i cannoni che battevano il viale.

Procedevo a sbalzi, abbandonando il velocipede per appiattirmi nel fossato quando il tiro si avvicinava.

Il percorso non fu mai così agevole come nel giorno in cui ebbi la fortuna di accodarmi al folto gruppo di inglesi – circa duecento, secondo i cronisti – che, guadato il fiume con eccessiva baldanza, isolati successivamente dal grosso per un’improvvisa piena del modestissimo corso d’acqua, si erano subito, assai giudiziosamente, arresi.

Sotto scorta, marciavano verso la città, dismessa la proverbiale iattanza che li distingue nella buona sorte, e le scarpe tirate a lucido.

Lo scarpinare della colonna lungo il corso cittadino richiamò alle finestre o, timidamente, sul limitare di portoni socchiusi, un apprezzabile numero di cittadini, sempre più folto perché stranamente l’artiglieria era ammutolita.

Non, come sperato, odiate divise verdi in lunga fila disarmata si presentarono ai loro occhi, non ribaldi nazisti finalmente innocui sotto la minaccia di gloriose divise kaki.

Al contrario, uomini in kaki, con o senza un ormai inutile elmetto a scodella in capo, infangati fino alle ascelle, sorvegliati dai molossi della “Feldgendarmerie  quelli, per intenderci, con la pettorina metallica al collo, naturalmente in grande spolvero nonché motivata allegria.

Come era potuto accadere? Le sorti della guerra erano forse compromesse?

Lo zio Adolfo aveva proprio adesso sfoderato le sue armi segrete?

E giù a ritirarsi dalle finestre, ad allontanarsi dai portoni per recare la ferale notizia agli altri, barricati nelle cantine.

I cronisti del regime – uomini di parte e per di più prezzolati – affermano che si produsse allora un “oh” di delusione percepibile a tutti e diffuso a onda fino alla periferia.

Certo fu uno shock di massa cui fece seguito un altrettanto diffusa depressione che avrebbe potuto, a sua volta, condurre a gravi fenomeni,  tanto gravi che non voglio nemmeno immaginarli,  se la Provvidenza,  di lì a qualche giorno, non avesse suggerito ai protervi guerrieri di Kesserling di ritirarsi indisturbati  dietro l’ennesimo,  esiguo corso d’acqua, a nord della città.

Allora canti, baci, abbracci, battimani, pianti liberatori; invocazioni, messe solenni e “te deum”; balli, sbornie epiche e banchetti pantagruelici, a coprire gli spari delle prime vendette.

I miei genitori vivevano nell’appartamento assegnato al custode di un’importante istituzione privata cittadina: una camera da letto piuttosto vasta con un soffitto altissimo, un cucinino e, se lo vogliamo contare, uno stanzino con la finestrina del bureau da dove mio padre sorvegliava l’entrata e accoglieva i visitatori. Che mia madre aveva reso meno anonimo con uno specchio con la “reclame” della Cinzano e un tavolinetto con sopra un mazzo di girasoli, eterni perché finti.

In quei giorni se ne stavano invece ben riparati in uno dei profondi sotterranei del palazzo rinascimentale.

«Me lo sentivo che saresti venuto» gridò la mamma, corsa ad abbracciarmi. «Guarda, se non ci credi! Fra poco la minestra sarà pronta. Eh, caro mio, le mamme queste cose, le sentono!».

Il babbo carico di legna da ardere mi salutò anche lui visibilmente contento, ma, come al solito, pacato.

«Hai visto gli inglesi?».

Gli risposi che ero arrivato senza alcun intoppo proprio seguendo il loro mesto corteo, al sicuro dall’artiglieria.

«Le loro divise non sono molto diverse da quelle della prima guerra mondiale, e nemmeno gli elmetti: me li ricordo bene, dopo Caporetto, quando qualche loro reggimento ci fu inviato di rinforzo. Brutti giorni, quelli… però il Piave lo  passammo noi italiani».

«A proposito di italiani, devo dirti una cosa importante, prima mangia, però. Da quando non trovavi una minestra calda?… Sì una cosa importante… Moglie, cosa aspetti a versargli la minestra?».

Rispose di malagrazia: «Che fretta hai? Non vedi l’ora che se ne vada? È appena arrivato! Lascialo in pace!».

Non replicò. Prese a spuntare un suo rugoso “toscano” sul quale tanto a lungo si esercitò, non senza qualche usuale “madonna” biascicata in un bisbiglio, per evitare i rimbrotti d’ufficio della consorte, che quando, alla fine, tirò soddisfatto la prima pestilenziale boccata, avevo già finito la minestra.

«Dunque  voglio dirti – ma lo sai anche da solo – che la guerra l’avete persa. Il peggio deve ancora venire perché moltissimi sono decisi a vendicarsi. Quasi sempre a ragione. Sarai d’accordo con me: porcate ne avete proprio fatte tante e di ogni genere in cielo, in terra e in mare, ma a condannarvi saranno sufficienti anche solo, che so io, l’aver indossato la camicia nera, una vecchia inimicizia, o l’invidia o ragioni di interesse o anche perché sei più bello, più ricco, più fortunato e gli hai soffiato la morosa. Vacci a capire cosa ci bolle nel cervello! Il fatto è che in guerra sparare è normale. Tirare sul mucchio dei vinti non sarà una colpa per nessuno!».

«Attilio! Sono discorsi da fare a un figlio appena arrivato dal fronte, poco prima che torni in quell’inferno!».

«Oh, basta, donna! Lo sai quanto è costato a me socialista vedere che il mio unico figlio se ne andava con le camicie nere? Che rinnegava la libertà, che coltivava la violenza? Che stava dalla parte di chi aveva saccheggiato la cooperativa e dato fuoco alla casa del popolo? Soprattutto dalla parte dei signori? Eppure non mi sono mai opposto. Solo io so a qual prezzo!

Perché, cara la mia donna, ogni uomo deve essere libero di scegliere la sua strada. Sono suo padre e voglio salvargli la vita. Non lo capisci? Lasciami almeno finire il discorso».

La mamma si consolò: «Alle sue sfuriate sono abituata da una vita. Ma è sempre l’uomo più onesto e giusto della terra il mio Attilio».

«Allora ascoltami:  non ti presenti più al reparto; io ti nascondo dove nessuno può scovarti…».

«Babbo, questa è diserzione.  Lo sai come viene punita in guerra».

«Altro se lo sa! Durante l’altra guerra, un suo amico, fu condannato e fucilato dai carabinieri in un amen. E Giusto, un mio cugino che lo presero a guerra finita, che si era nascosto fra i monti, gli diedero dieci anni» azzardò la mamma.

«Allora che ritorni al fronte» sbottò lui «che te lo ammazzino a bastonate. Che te lo impicchino in piazza. Se così preferisci. Non potrai dire però che non avevo tentato di evitarlo».

Puntò un dito accusatore : «Vivrai col rimorso di aver deciso la sua condanna a morte».

Ora lei singhiozzava, asciugandosi le lacrime con l’orlo del grembiule.

«Non ci avevo mai pensato. Sono un soldato. Dimmi, babbo, tu avresti disertato, come tanti altri, dopo Caporetto?».

«Niente paragoni che non stanno in piedi… Allora il nemico era l’Austria, per tutti gli italiani. Nella mia compagnia eravamo quasi tutti socialisti ostili agli ufficiali, ai comandanti, alle gerarchie, contrari alla disciplina agli ordini disumani, ai massacri dell’arma bianca. Pensavamo che, finita la guerra, avremmo sopraffatto la borghesia esausta. Detto questo, nessuno metteva in dubbio la necessità di rispedire oltre le Alpi, alla “casa dei tuoi” lo straniero. C’era un solo esercito, del popolo; nessuna milizia personale a difendere il capo contro i suoi connazionali».

Raccolsi il moschetto. La mamma mi sussurrò: «Ti ho messo qualcosa da mangiare nel tascapane, anche un bel salamino. Sta’ attento, mi raccomando! Non esporti».

«Farò di tutto, mamma. Non essere in pensiero. Ti prometto che tornerò appena possibile».

«Dio lo voglia» sospirò.

Anche il babbo mi abbracciò.

«Speravo che avresti deciso oggi stesso…».

«Non oggi. Mi attende un camerata ai giardini, per tornare insieme… Non dubitare: terrò in conto la tua proposta. Lo so che mi vuoi bene».

«Ne parleremo la prossima volta». Che non ci sarebbe stata.

Radio Fante,” quella sera, preannunciava un imminente ripiegamento con l’abbandono della città ormai condannata da una manovra a tenaglia che ci avrebbe isolati. Notizia ritenuta certa, perché era stato dato ordine all’autocarro del materiale pesante di tenersi pronto.

«Vedrete che sarà per la notte prossima». Invece di lì a poco, con l’autocarro giunse il comandante.

«Qui, se non sloggiamo, ci fanno fessi! Oggi pomeriggio i signori inglesi hanno sfondato dalla parte della collina con l’intenzione di puntare sulla Via Emilia e aggirarci. Siccome loro sono veloci come tartarughe e svegli come talpe, li precederemo: così rimarranno col solito pugno di mosche. Quindi armi in spalla!

Seguite la ferrovia fino al ponte. Lì avrete ulteriori ordini».

Iniziò la dolorosa marcia dell’abbandono per più della metà di noi, nati e cresciuti in quella città.

Ben presto mi apparve chiaro che la situazione non era favorevole a un tentativo di defilarsi…

Fossimo stati sotto tiro, avrei potuto acquattarmi poi sparire. No, il tiro nemico latitava quella notte, mentre procedevamo in fila indiana, a distanza di sicurezza, sul lato destro della massicciata, pronti a ripararci nella scarpata contro i colpi che sarebbero provenuti da sinistra.

Non mi era stato possibile munirmi di un abito borghese che avrei subito indossato anche se ciò non sarebbe stato privo di rischi perché un “borghese” scoperto sulla linea del fuoco è un “borghese” fucilato.

Peggio ancora se mi avessero colto in divisa lontano dal reparto. La conclusione, sarebbe stata certa: passato per le armi, come disertore.

Avevo cento volte esaminato  con la mente il percorso. Il punto di partenza ideale sarebbe stato dal cavalcavia più vicino al centro della città, dove, a ridosso dei binari, mi avrebbero offerto riparo alcune case diroccate. Di lì con un po’ di fortuna, sfruttando l’oscurità dei portoni che per disposizione militare, dovevano rimanere aperti, sarei giunto alla circonvallazione, sorvegliata da pattuglie miste di cittadini e di soldati contro i sabotatori mentre l’entrata al borgo medioevale era difesa da posti di blocco.

Due le possibilità  a questo punto: rintanarmi  e attendere l’arrivo degli inglesi: qualche ora, un giorno; due al massimo. oppure, per vie traverse, giungere al rifugio dei miei genitori. Rischioso. Quasi impossibile.

Intanto avevamo oltrepassato il cavalcavia. Si apriva la periferia industriale, presidiata dai nostri alleati.

Ascoltai la pioggia ticchettare sul telo mimetico che mi riparava, giù fino al ponte ferroviario da dove, dopo un breve percorso in autocarro, finimmo dietro l’argine di un altro fiume.

La mattina, scorsi all’orizzonte la torre comunale con accanto l’altissimo campanile.

Mio nonno, la cravatta a fiocco nera e il cappello a tesa larga degli anarchici, quando ero bambino, me li presentava come i simboli di due poteri scellerati, nemici della libertà dell’individuo: la monarchia e la chiesa.

Non mi convinceva. Per me la monarchia era quel re baffuto – sorridente del quadro alle spalle della cattedra, quotidianamente esaltato dalla maestra.

La fuga ignominiosa a bordo della corvetta Baionetta era ancora lontana.

E la chiesa? In primo luogo una “barba” di due ore settimanali di, “Io sono il Signore, Dio tuo” recitato in coro da maschietti e femminucce, separati nelle due file di banchi, uniti nelle voci argentine.

«Non ammazzare. Ve lo ricordate il vecchio catechismo? Facile a dirsi allora. In guerra, se vuoi sopravvivere…! Consolare gli afflitti, seppellire i morti. Cose divenute così ordinarie ai nostri giorni che dopo un po’ ci fai il callo e diventano routine. Si accende un cero e non se ne parla più».

Ci incuriosiva il misterioso intrigante non commettere atti impuri.

Nessuno, parroco o catechista, approfondì l’argomento. A casa si ricevevano risposte strampalate. Il mito della cicogna che porta i bambini resisteva.

Ribadita, la suddetta “barba”, durante la Messa domenicale accanto alla mamma: «Sta’ composto! Non distrarti!».

È dura a sei anni resistere per più di mezz’ora. Se poi si trattava di una messa cantata, immaginatelo voi…!

Meno male che, a funzione terminata, c’erano il campetto di calcio – venti metri per dieci – e i palloni che percuotevano i muri della canonica con tonfi da grancassa, fra il tripudio di grida bambine.

Valli a capire, i nonni!

In città carriaggi in ritirata, stracarichi di materiale militare, di testate di letti, di biciclette e perfino di una stia con pennuti starnazzanti. Qualche raro autocarro zeppo di soldati irsuti, assonnati, guardinghi, con la baionetta in canna. Qualche rarissimo semovente. Dietro le imposte la gente si rincuorava.

Fervevano i preparativi per accogliere i liberatori. Era ancora presto però.

Al calar delle tenebre, in un inusitato silenzio, erano rimaste solo alcune decine di uomini della miccia.

L’armageddon, si  scatenò dopo  l’una.  La  città  sussultò squassata da una catena di catastrofiche esplosioni. Rapido susseguirsi di lampi, di bagliori. Cupo franare di muri.

«Non sarà rimasto vivo nessuno, laggiù. Scommetto la testa che non troveremo più un mattone sopra l’altro».

Assiepati in attonito gruppo, i villici commentavano, ringraziando, una volta tanto, il buon Dio di averli destinati a vivere in campagna senza l’acqua corrente.

A metà mattina, diradatosi il polverone, ritrovai all’orizzonte, intatto nella sua slanciata eleganza, con la rossa cuspide, il campanile che stava li, ancor prima del “sanguinoso mucchio”.

La torre era invece scomparsa. Mio nonno avrebbe commentato che almeno uno dei poteri malefici era caduto.

La disparità di trattamento tra il campanile della vetusta abbazia, da un lato, e della torre civica e degli altri campanili, tutti miseramente  crollati,  dall’altro,  fu argomento  principe nei discorsi dei cittadini,  tornati nuovamente  nei rifugi per proteggersi  questa volta dall’artiglieria  germanica  e da radi, ma micidiali, attacchi aerei.

Trascurando  il florilegio di opinioni,  pareri, supposizioni, rivelazioni della tradizione orale, tre principalmente  sono le ipotesi della carta stampata, qui elencate con spirito libero e obiettivo.

Quella agiografica, assemblata trionfalmente dalla nuova politica: un eroico manipolo di insorti aveva, con ben affilate forbici, o tronchesi che fossero, tagliate le micce, così che i teutoni erano rimasti bellamente gabbati.

C’è chi ci crede e chi no. Il partito la raccontò.

Quella  qualunquistica,  alquanto  ridanciana,  politicamente inaccettabile anzi indecente.

A salvare la vetusta torre campanaria sarebbero state le preziose  risorse,  mai dissipate,  mai requisite  di champagne  di marca e di annata e di altri vari nettari ad altissima gradazione alcolica di un notissimo bar, consegnate a un manipolo di guastatori che, nel bel mezzo dei disastri che combinavano, conservavano tuttavia un acuto senso del dei piaceri della vita.

Nel suo genere, la transazione o baratto avrebbe avuto una sua epicità.

Il revisionismo storico, in tempi più recenti, seppur sottovoce, ne suggerisce una terza, del tutto “off limits” oltre che “politically no correct”.

La penultima notte prima della liberazione fu ospite dell’abbazia un caporione fascista perciò stesso detestabile, anche se risulta essere stato un valoroso soldato e il non indegno autore di un libro sulle vicende dei nostri in Russia, trattate, come è noto, da ben diversa angolazione, dal nostro carissimo 
Mario Rigoni Stern.

Quel signore avrebbe dato la sua parola che il campanile sarebbe stato risparmiato.

Per non tediarvi col racconto della nostra odissea – ritirata, (Natale sul Senio; capodanno in una Bologna polare, e via retrocedendo fino al Veneto) giungiamo al 21 aprile del 1945.

Quando ero scolaro, la signora direttrice didattica, ogni 21 aprile, riuniva le classi nel teatrino.

Pensate!  Si  era  procurata  un  microfono  circolare,  come quelli dell’EIAR, coi quattro fili che reggevano una scatoletta al centro. Rarissimo, molto invidiato.

Con esso e per esso conduceva la cerimonia sul Natale di Roma e anche festa del lavoro, dopo l’affossamento del Primo Maggio.

Proprio una cosina a modo. Prima di tutto una breve introduzione su Romolo e Remo, e i primordi della storia romana con sottofondo musicale da grammofono del Coro Radiofonico della GIL percepibile solo a tratti. Di seguito, la signora direttrice in persona recitava i versi di Orazio metricamente scanditi, molto apprezzati dalle maestre.

Saliva sul palcoscenico,  in un tifo da stadio, una bimbetta bellina, bellina, biondina, biondina, figlia di un signore molto in vista, per recitare con cadenza scolastica ed espressione incolore “Te redimito di fior purpurei”.

A conclusione, il coretto, rimasto fino allora nella penombra, schierato in bell’ordine sul proscenio, intonava con maschia veemenza Sole che sorgi libero e giocondo, con tanto di cavalli domati e di Roma signora del mondo.

Come prescriveva il cerimoniale, la manifestazione  si concludeva con Giovinezza cantata in coro.

Applausi del pubblico, lunghi e convinti per ritardare il rientro in aula. Il 21 aprile 1945, durante uno scontro, una bomba a mano mi scoppiò vicinissima. Finii in ospedale con una ferita superficiale a una gamba, con la vista offesa dai calcinacci, o dallo spostamento d’aria, o da ambedue le cose insieme.

Dalla confusa ansia iniziale per la mia situazione, passai ben presto all’urgenza di accertare in quale stato realmente mi trovassi.

Della ferita alla gamba poco mi preoccupavo. In un’altra occasione in fuga dai Titini, un po’ da solo, un po’ sorretto dai camerati, avevo marciato per due ore con una ferita ben più grave.

Mi terrorizzava invece il buio in cui ero tenuto.Mi sentivo come un combattente che, accecato, sta rintanato nella sua buca consapevole che presto udrà la voce di chi lo “finirà” con un colpo, senza poter reagire.

Fin dal giorno seguente cominciai tuttavia a imparare l’arte sottile di interpretare i segnali che mi giungevano.

L’udito pareva affinato al punto di riconoscere la presenza di suor Nazzarena dal fruscio della gonna.

La percezione vigile di quanto avveniva intorno era organizzata in una sintesi funzionale alla lettura del mondo circostante.

Il medico si rivolgeva a me con rispetto, usando il lei, spiegandomi con linguaggio piano il decorso favorevole della degenza.

Uno di quegli uomini che per educazione, stile di vita, professione e censo riescono a volare alti sulle miserie, senza dover parteggiare né essere coinvolti né contaminati.

Gli sono ancor grato per come mi curò, anche se non comprese la mia situazione  quando  mi annunciò,  professionalmente soddisfatto: «Fra una settimana, dieci giorni al massimo, la dimetteremo».

Che mi sarebbe accaduto una volta dimesso?

Al contrario l’infermiere Boscolo, fin da quando mi bendò gli occhi, se la prese con me: «Dovete crepare tutti, tu e gli altri assassini come te». Non mi dava pace: «Sai quanti ne hanno fucilati di sporchi fascisti come te? Il tuo giorno è vicino. Ci penseranno i tuoi concittadini a regolare il conto: corre voce che stanno per arrivare».

«Ammazzami tu, se ne hai il coraggio, mezza sega!» gridai…

Suor Nazzarena, trafelata: «Vergognatevi! Siamo in un ospedale, mica all’osteria!».

Talvolta mi domandavo perché infine mi preoccupassi del mio futuro. In ogni evenienza, anche azzoppato e cieco, non sarei forse sempre stato alla mercé dei miei nemici?

Subito dopo però interrogavo la religiosa se era vero che i partigiani scovavano i fascisti anche negli ospedali.

«L’ho sentito dire».

«Qui sono mai venuti?».

«No finora. Non ti pare un tantino esagerato che vengano a cercare proprio te in una città che di Romagnoli della repubblichina è piena? Non ti angustiare: se verranno ti avviserò».

Non riusciva certo a convincermi, poveretta!

«Quando verranno, cosa farò? Se avessi un’arma anche con un colpo solo, lo saprei».

Suor  Nazzarena  seguiva  quotidianamente  il  medico  nella visita, verso le nove. Erano poco più delle otto, quando, sconvolta, mi annunciò: «Sono arrivati proprio quelli della tua città. Fra poco comincerà il controllo. Ora discutono con il primario che non si dà per inteso di permetterglielo. Sforzati, per quanto puoi di rimanere calmo. Non è detto che ti conducano via. In altri ospedali si sono limitati all’identificazione a chiedere la data della dimissione. Affidati alla misericordia del Signore».

Non so quanto a lungo durò la mia angoscia, teso a cogliere ogni rumore nel silenzio tragico che mi avvolgeva.

Risuonarono i passi di più persone. Poi distinsi, vicinissimi, quelli di un solo individuo  insieme col fruscio della gonna della religiosa.

Immobile nel mio brivido di terrore, irrigidito col volto proteso in avanti come i ciechi. Intanto ardevo di sudore. “Ora lui esamina tutti i ricoverati, uno a uno” immaginavo, “oppure scorre l’elenco. Infine pronuncerà la sentenza: Morigi Giorgio, vieni con noi”.

Una “voce nota” scandì invece nel nostro dialetto: «Qui non c’è nessuno». E aggiunse perentorio: «Andiamo al piano di sopra».

«Il Signore ti ha fatto una bella grazia! Devi essergli riconoscente. Vai in chiesa?».

«Di rado» mentii dolcemente.

«Non me ne faccio caso: la mia povera mamma, profuga dalle vostre parti durante la grande guerra, mi raccontava che i nostri parroci tremavano per la salvezza dell’anima delle nostre ragazze timorate di Dio, non meno che per l’evenienza che i nostri giovani si invaghissero delle vostre donne scostumate, che la chiesa, non sapevano nemmeno cosa fosse e talvolta bestemmiavano. Quanta miseria morale!».

Non obiettai che la situazione era un po’ più articolata. Mia madre, per esempio, non si addormentava prima di aver recitato il Rosario, col babbo in rispettoso silenzio. L’unico momento della giornata in cui non pretendesse di interloquire.

«Quando passerai davanti a una chiesa entra un momento e di’ semplicemente: “Ti ringrazio, Signore”».

Si illuminò tutta: «Che stupida! Si vede che invecchio. M’era passata del tutto dalla mente. Il mio primario, nemmeno lui va in chiesa, ma è tanto buono che tutti lo stimano, siccome voi “neri” qui siete tanti e, appena usciti, zac vi farebbero la festa, ha ottenuto che siate consegnati agli inglesi. Forse l’agitazione mi ha giocato un brutto scherzo! Vi attende la prigionia. La vita però è salva! Lo conoscevi, vero? Vi conoscete?».

«Suora, sono bendato. Ho solo udito una “voce nota”».

Una voce familiare fin dalla fanciullezza, via, via trasformatasi nel tono, nelle inflessioni.

Ah, il grido di giubilo per quel pesce enorme rimasto nella nostra “bilancia” sollevata a stento con sforzo concorde dalle acque intorbidite del fiume!

Più avanti, in un flash di peccato-castigo. L’urlo d’angoscia: «Mi ha preso!».

Ritratta la mano insanguinata dal posteriore, mentre il contadino col fucile imbracciato minimizzava: «Non è niente. Era caricato a sale. Brucerà per un po’… Così imparate a rubarmi l’uva. Non bastano gli uccelli, i vicini, i passanti: vi ci mettete anche voi, bastardi. Allora io cosa raccolgo? E al padrone cosa dico?».

Con un barlume di rimorso: «Fallo sedere nella corrente del fiume, proprio qui di fronte il livello è basso. Nell’acqua il bruciore passa prima».

Si faceva buio, il bruciore era diminuito solo un poco.

«Vai a chiamare la mia mamma».

Ecco la mamma, il contadino avvilito con una carriola e sua moglie che solidarizza con l’altra donna gratificandolo dei più infamanti epiteti del repertorio popolare.

Il ferito, gemente a ogni sobbalzo, viene sistemato prono sulla carriola: «Ma che ospedale! Ci mancherebbe altro! Lo porteremo a casa!».

Il singolare corteo si avvia. Sempre flagellato l’improvvido sparatore con le più cupe minacce di arresto e condanna da parte della mamma e da sanguinose esternazioni sulla sua reale capacità di intendere e di volere, su, su fino ai sarcasmi sulle sue prestazioni erotiche, vomitate dalla consorte.

Un infermiere, antico conoscente della famiglia, accorse solerte.

Pulì, disinfettò, bendò la rosa di piccole ferite di un paziente che sussultava con grugniti di dolore ogni volta che il batuffolo di cotone insisteva a pulire la piaga.

«Per fortuna  ti ha preso nel sedere!  È tutto passato.  Fra un’ora cesserà anche il dolore».

«Tranquilla anche tu, sposa. È andata bene».

Primavera 1943 o delle illusioni svanite.

Stalingrado: una tragedia epocale che incenerisce il mito del tedesco invincibile. La ritirata in Russia: un’ecatombe. Siamo per il momento abbarbicati al deserto nordafricano: per quanto tempo ancora? Gli Americani hanno rovesciato le sorti del conflitto.

Pola. Sono in servizio al comando-tappa quando nella folla dei militari smistati alla loro destinazione mi chiama la “voce nota”.

Effusioni sincere. Rivedersi,  in guerra, diviene un avvenimento.  Rinsalda, sia  pure  fuggevolmente,   antichi  legami. Sono evocati persone, luoghi, situazioni, consuetudini di una «umanità rinnegata» per l’imperiosa necessità di uccidere per non essere uccisi.

«Ti va un caffè? Vuoi un panino?» chiedo preoccupato perché ho al mio cospetto un uomo del tutto diverso.

Se non mi avesse chiamato, avrei stentato a riconoscerlo.

Non solo per il volto smagrito fino ad apparire ossuto quanto per l’agitazione che traspariva dai continui movimenti delle mani, quasi piccole contrazioni; dalla fissità prolungata degli occhi che si alternava a sguardi agitati, lanciati in ogni direzione, come un animale spaurito.

«Torno dall’est» esordisce sottovoce. «Ne ho viste di tutti i colori. Che errore allearsi coi tedeschi! Sì, ne fanno di tutti i colori! Non parlo di azioni militari. Tu qui, come te la passi?».

«Discretamente  quando sono di servizio in città. Quando invece ci spediscono sui monti, anche per me vale la regola di ammazzare per non rimanere fregato. Prigionieri, nessuno ne fa, né da una parte né dall’altra».

«Sono però sempre azioni di guerra, voglio dire fra armati. E vi fermate lì!».

«Perché, c’è dell’altro?».

«Eccome! In Polonia apprendo la durezza dei tedeschi verso gli ebrei. Non avrei mai creduto fossero arrivati a tale disumanità. Giunto in paese, scorgo un incendio. Brucia qualcosa come una chiesa. Ho saputo dopo che era la sinagoga. Non ero presente quando vi hanno rinchiuso tutti gli ebrei del luogo, con le donne, con i bambini piccoli. Sono però giunto in tempo per udire grida terrificanti provenire dal rogo che divorava ormai il tetto. Capisci? Urla di innocenti! Qualcuno, sfuggito alle fiamme, giaceva falciato dalle raffiche all’entrata.

Intorno i soldati con le armi spianate e gli abitanti del posto indifferenti, se non soddisfatti. Mi chiedo: “il Duce ne è al corrente?”. Andrò a Palazzo Venezia a dirglielo! Rinneghi l’alleanza coi tedeschi! Cerchi un modo per evitare al nostro popolo le stesse stragi. Perché, ricordatelo:  riserveranno  lo stesso trattamento anche a noi! Se poi non si muovono dall’alto, agirà il popolo concorde».

Una tradotta cigolante coi vetri degli scompartimenti in perpetua fastidiosa vibrazione lo riportò a casa col suo rovello.



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