LA STANZA  di  ILARIO MANTELLINI
  

Ilario Mantellini
   

NORMA

Nella stanza, fra il fumo acre degli spari, irruppero i partigiani. Urlavano tutti. Uno sacramentava perché qualche fascista era fuggito sui tetti. «Quello sul pianerottolo lo abbiamo accoppato…». Un altro raccomandava  ai compagni di stare lontani dalle finestre: «Dai tetti grandina!».

Rannicchiata vicino a una scrivania, Gaia tremava. In un angolo, rigido, con lo sguardo perso, stava Francesco, l’anziano milite. «Compagno comandante, ne abbiamo due vivi. Che ne facciamo? Voi altri tenete le mani ben alte che ho il grilletto ballerino, oggi. Tu, troietta, in piedi con le manucce ben in vista!».

«Capo» interrogò di nuovo. «Cosa ne devo fare?». «Lo sai…». «C’è una donna». «Fa il tuo dovere». Tagliò corto il comandante che già saliva le scale col grosso della pattuglia.

Tre armati li scortarono nel giardino. Dietro le imposte socchiuse occhi curiosi sbirciavano la scena. Due condussero Francesco a ridosso del muro di fondo, coperto d’edera, vicino a una fontanella. Il terzo spinse l’ausiliaria contro la vetrata che si apriva sull’atrio: «Stai qui e goditi la scena».

Il milite attendeva, un mozzicone di sigaro tra le labbra, un filo di saliva al lato della bocca. «Sta’ lì buono, veniamo subito» lo ammonì uno del terzetto. Non si curò di rispondergli. Glielo aveva già detto a quei “cosi” che lui era il piantone del comando e la ragazza una dattilografa.

Per quanto lo riguardava, riteneva naturale ciò che stava per accadergli, dal momento che si era lasciato prendere vivo. Avrebbe dovuto appostarsi insieme con quel giovane che ora giaceva sul pianerottolo. Sapeva come si usa un mitra, per bacco! Però non era scattata quella molla – imbracciare l’arma e difendersi – che in altre occasioni gli aveva salvata la vita.

Quante volte aveva ammonito le reclute: «Ricordatevi che il fucile, in guerra, è vostra madre, vostra sorella, la vostra fidanzata. Non sparate mai per secondi: porta male». Vai a capire perché non aveva reagito.

D’altra parte, se avesse seguito i fuggitivi, lo avreste visto correre tra i camini alla sua età, verso i sessanta, con due guerre alle spalle? Era destino finisse così.

La prima, quella del 15/18 l’aveva combattuta con l’ardore dei vent’anni negli Arditi. Era stato ricompensato con un posto di cantoniere: come era bella la strada nuova, voluta dal duce fra le colline, ombreggiata dai cipressi e dalle querce subito al di là del fossato. D’inverno guidava lo spazzaneve per liberarla dal peso: allora brillava al sole come una lama. La seconda in Jugoslavia con le Camice Nere.

Guerra  viscida  contro  un nemico  imprendibile,  subdolo, feroce. Non riuscivi a dormire, non ti era concesso sederti o mangiare in pace. Si diventa bestie a combattere contro le bestie. Però sapevano morire. Fumavano calmi un minuto prima dell’esecuzione. Ti fissavano negli occhi con odio, pronti a gridare “Zivio Tito” prima della raffica. Anche le donne.

Promosso e rimpatriato per istruire le reclute aveva sperato di essersi liberato da quell’incubo invece se lo era ritrovato ancora più crudele nella guerra fratricida, costretto a battersi contro gente del suo paese.

Intorno a lui il cielo sereno, le rondini e un albero striminzito all’angolo laggiù in fondo.

Altra cosa le querce delle sue colline e i cipressi!

Come per incanto gli acciacchi di tutti i giorni erano scomparsi. Si sorprese a piegare, senza le solite difficoltà, le dita delle mani, una dopo l’altra. Che meraviglia! Come rispondevano agili agli ordini del cervello. Peccato che fra poco tutto avrebbe avuto termine. Ecco infatti davanti a lui i due che gli avrebbero staccato il biglietto.

Quello che armeggiava intorno al “bren” indossava un buffo paio di calzoni corti e stretti dai quali debordava, alla vita, l’adipe rotoloso di un riformato  rimpannucciato  tutto d’un tratto di bellici vestimenti.

Ansimava nel tentativo di sbloccare l’otturatore. Fulvi i capelli sul volto paonazzo. L’altro in abito cittadino a doppio petto, sandali estivi ai piedi e “borsalino” a tesa larga portato alquanto all’indietro per lasciare apparire il ciuffo saturo di brillantina, si gingillava con una Walther P.38 e pareva aspettasse i comodi del collega.

«Si sbrighino! Cosa aspettano?».

Ammonì se stesso: «Non tentare la fuga perché ti abbatterebbero e ci faresti una magra figura. Vuoi essere da meno di uno jugoslavo?».

«Voglio fumare». «Una sigaretta?» offrì il cittadino col ciuffo. «Preferisco il mio toscano…».

Si oppose il socio: «Non dargli retta, bischero. Cerca solo di guadagnar tempo». «Almeno datemi il tempo di pregare». «Perché,  tu preghi?»  si meravigliò,  sarcastico,  l’obeso  nel puntare l’arma. «Scommetto che andavi alla messa tutte le mattine prima di rastrellare i miei compagni».

Intercedette il collega in doppio petto: «Accontentatelo. Non ci vuole molto». «Conterò fino a dieci, se vuoi, prega» concesse. Cominciò la conta. Al sette l’anziano milite si mise sull’attenti. Gaia, alla sventagliata si rattrappì su se stessa. Col capo fra le mani, serrò gli occhi. Percepì qualcosa fra un rantolo flebile e un sospiro. Lo schiocco del colpo di grazia la fece sobbalzare.

In una pozza di sangue che si allargava, tra frusti d’edera e calcinacci, giaceva un fagotto rattrappito. «Un momentino, bellina, intanto dì le tue preghierine che ti si accontenta subito».

Non pregò perché non ci riusciva. Ebete, statua cimiteriale, pietra insensibile già rassegnata a muoversi verso il muro. Vide solo che confabulavano fra loro.

Il capo pareva quello che chiamavano Saetta. Ridacchiando, con grandi manate sulle spalle pregustavano  un loro per lei ignoto piacere. Come spensierati ragazzotti di quartiere che hanno deciso di fare una capatina al casino: «Oh, ragazzi, c’è la nuova quindicina!».

Concluse Saetta: «Portatela dalla Norma. Questa sera poi, grande gara. Chi ne fa di più vince un premio, signori e signore, non un prosciutto come credereste, bensì la maiala intera».

Norma se la trovò davanti sulla soglia della casa dove era acquartierata insieme con i suoi compagni.

I due giovani la sorreggevano sotto le ascelle, quasi sollevata dal suolo. «Guarda che bella puttanella fascista abbiamo preso. Ci sparava dai tetti». «Perché non l’avete eliminata?» chiese burbera.

Rispose piccato, ma non senza rispetto quello che sembrava il capintesta:  «Ci sarà tempo anche per quello. ora le si dà una spolveratina, di corsa perché dobbiamo tornare. Stasera ci sarà anche il Saetta. Tutti insieme faremo una bella festicciola. Con i fuochi d’artificio» ammiccò.

Intanto l’avevano  trascinata nella loro stanza e chiuso l’uscio. Le parve giusto che strigliassero per benino quella fascistella ora spaurita, fino a qualche ora prima capace di dare la morte.

Quando tuttavia udì rumori sordi fra singhiozzi e bestemmie sopravvenne un certo disagio: «Chissà perché le donne, prima o poi, vengono maltrattate».

Se ne andarono abbottonandosi i pantaloni. Li attendeva una giornata impegnativa a stanare i cecchini. Strada facendo s’infervorarono a immaginare le delizie che li attendevano la sera. Quando Norma entrò nella stanza la ragazza si coprì con un moto di pudore. «Vestiti che ti devo chiudere nello sgabuzzino. Ti hanno affidata a me e non vorrei che tu scappassi».

«Dove vuole che vada, così conciata?». Raccolse la divisa e seguì la carceriera. Ci volle del bello e del buono perché le mani, scosse dal tremito, rivestissero alla meglio il corpo umiliato.

«Calmati, prima di sera non torneranno». «Sì, ma allora?». «Allora si divertiranno un po’». «E dopo? Mi creda: non sparavo. Ero una segretaria. Lavoravo in ufficio». Norma si adirò: «Segretaria o no. Sei una fascista. Ti abbiamo preso o no con la tua sporca divisa addosso in un covo d’assassini? Dunque cosa ti aspetti, sgualdrinella?». «Non sono una puttana. Ero vergine fino a mezz’ora fa» mormorò.«A chi la vuoi dare a bere? Quella biancheria da ricchi che indossi a che serve se non a mandare in bambola gli uomini? Così graziosa, con quelle mutandine di seta, chissà quanti ne hai accalappiati! Dimmelo! Coi partigiani t’è andata male, vero?».«Le dico che ero vergine. Vada a vedere sul letto se non ci crede». «Chiacchiere!  Sono focosi perché sono giovani, perché la battaglia fa certi scherzi. Forse saranno andati un po’ fuori dalle righe». Chiusa a chiave la porta dello stanzino, tornò in cucina. “Vergine fino a mezz’ora fa – rimuginò –, a che serve essere vergine? Per lo meno a quella non servirà più per trovarsi un marito. Che in fine è la ragione per la quale loro, le signorine di buona famiglia, ci tengono tanto a non darla prima del sì in chiesa. Fin da bambina, glielo ficcano in testa le madri, lo esigono i padri per il decoro della famiglia, lo impone la chiesa. Anche fra noi proletari – diciamocelo pure – se hai perso la verginità, fortunata te se raccatti un vedovo o un invalido”.

Un compagno, a suo dire pazzo di lei, l’aveva convinta alla prova d’amore poco più che adolescente “Che sono queste ubbie borghesi?” complice, in realtà, più che l’ideologia, la cotta fulminante che si era presa per lui. Di lì a qualche mese l’aveva abbandonata “perché poco seria e perciò inadatta alla lotta politica”.

Fuggita in un’altra città, lì aveva preso a frequentare uomini che con la cospirazione alimentavano la speranza di una nuova umanità di eguali dove non si sarebbe trovato posto per il parroco che l’aveva accolta di mala grazia al catechismo: «Poverina, tu non ne hai colpa, ma i tuoi genitori non sono mica sposati in chiesa». Né per la signora maestra che la rimproverava di fronte alle compagne per le sue scarpe inzaccherate.

Non padroni arroganti e nemmeno padri abbrutiti e madri rassegnate. Il re, il duce, il papa e la classe borghese: tutti al rogo! Il resto era cronaca recente di lotta partigiana contro i padroni, per il comunismo. Prima staffetta, quindi incaricata del trasporto delle armi. Fino al giorno in cui, di fronte all’esitazione di un compagno nel giustiziare un caporione fascista, gli aveva strappato di mano il “mitra” e aveva posto fine alla faccenda. Si era così guadagnata i galloni sul campo.

Quella dal bugigattolo cominciò a implorare: «Mamma, non voglio che tornino… Signore, fa che non tornino, piuttosto fammi morire prima…». Si calmava per un attimo e subito riprendeva con toni rabbiosi: «Gaglioffi: erano in due ad approfittare di me. Che eroi!

Venite a vedere come mi hanno ridotta!». A mezzogiorno Norma mise a scaldare la minestra. Detestava cucinare. Le rammentava le penose acrobazie di sua madre per porre qualcosa sul loro povero desco. E le collere bestiali di suo padre, se mancava il vino.

“In questo almeno ha ragione la fascistella” ammise “non si sono di certo comportati da gentiluomini i miei valorosi compagni. Li si può capire: sono giorni in cui tutto è permesso contro i vinti”.

Le si affacciò un dubbio: “Sarà vero che era un’impiegata e non una tiratrice che ci bersagliava dai tetti? Perché sarebbe diverso. Ma che diverso! Cara mia, se cominci a salvare quello perché, pur fascista, è un uomo onesto, o questa perché è giovane e sostiene di non aver sparato, la rivoluzione va a farsi benedire. Prima i fascisti, poi tutti gli sfruttatori del popolo”. Al momento di versarsi la minestra nel piatto le venne fatto di riempirne un altro per la prigioniera: “Non è detto che debba patire la fame proprio l’ultimo giorno” si giustificò.

La trovò rannicchiata in fondo allo stanzino. «Tu, l’era meglio se ti ammazzavano subito. Guarda in che stato sei!». Le porse il piatto.

«Non la voglio». «Prendila, devi essere affamata. Da quando non mangi?». «Da due giorni. Grazie lo stesso». «Come ti chiami?». «Scusi, a lei cosa importa?». «Facevo per attaccare discorso. Mi perdoni, signorina».

«Mi chiamo Gaia, nome molto adatto alla situazione in cui mi trovo, vero?» ironizzò «L’è un nome da ricchi». «Mio padre è medico condotto e la mamma maestra. Non siamo ricchi. Una famiglia agiata, ecco. Già che ci tiene le dico che ho diciassette anni. Ero ausiliaria; ero liceale; ero vergine.

Ero. Ora mi hanno violentata due gaglioffi che mi useranno ancora un po’, dopo mi accopperanno. Dunque consideri che già ora non sono più nessuno. Lei che è donna come me, mi risparmi altri orrori. È una preghiera che le rivolgo» concluse implorante.

«Mettiamo le cose in chiaro. Siamo due donne, ma la differenza c’è e molta. Primo, io sono l’avvenire, tu il passato infame. Secondo, per tua regola, io non credo né nei santi né nel loro principale, perciò sprechi il tuo fiato se mi preghi. Infine, per quale ragione dovrei risparmiarti la giusta vendetta degli oppressi? Dimmelo tu. Mi chiamo Norma. Di anni, come vedi, ne ho più di te. Ora combatto contro i nazifascisti. Dopo edificherò il socialismo. Ero operaia. Finito questo  troiaio, non tornerò in fabbrica. Noi donne dobbiamo farci intendere, cari compagni, se è vero che nella lotta siamo state alla pari con voi. Prima bisogna togliere di mezzo la chincaglieria: Scusa, intendo la gente come te, altrimenti il socialismo mica lo facciamo».

L’ausiliaria non ribatté.

«Non hai nulla da dire? Che vuoi possa dire una senza cervello come te! Perché è chiaro che, se tu ne avessi avuto un briciolo, non saresti qui. I tuoi genitori, mi chiedo, non ne hanno nemmeno loro? Sei quasi una bambina! Oppure sono fanatici come te?».

«I miei genitori stanno nella chincaglieria, come lei dice. Fascisti fino al 25 luglio hanno poi cominciato a riunirsi coi galantuomini dell’Azione Cattolica per rifondare un partito già esistito, un tempo. Don Sturzo qua, Don Sturzo là». 

«Un nemico del socialismo» la interruppe Norma.

«Così quando li hanno invitati ad aderire alla Repubblica Sociale, si sono negati. Per loro il fascismo era finito. Per meno. Mi sono arruolata».

Oh quel pomeriggio, nel teatrino del paese, dopo il documentario sulla liberazione del duce da Campo Imperatore! La gente tutta in piedi, in lacrime, a cantare: “Duce, Duce, chi non saprà morir”. Vecchi e giovani, uomini e donne, e lei con loro.

Aveva annotato sul diario.

 

25 Luglio.

A letto con l’influenza. Dalla sala da pranzo giungeva l’eco del giornale radio. D’un tratto un "oh" di stupore seguito da un lungo silenzio. Ho intuito che era accaduto qualcosa di grave. Il nonno, scuro in volto, mi ha annunciato la caduta del duce.

 

28 Luglio.

Sono sfebbrata, ma il babbo mi vieta di uscire. Mi pare di capire per ragioni diverse dalla convalescenza. In paese la fan da padroni alcuni vecchi sovversivi. Gli anarchici e i comunisti sono i più intemperanti.
Ce l’hanno con tutti. Per fortuna al calar delle tenebre i Carabinieri insieme coi soldati in licenza, pattugliano le vie.
La Casa del Fascio, saccheggiata, è stata data alle fiamme.
Saccheggiate anche la biblioteca e le attrezzature del Dopolavoro.
Qualche fascista è stato malmenato.
Non pochi si sono ritirati in campagna. Gli antifascisti più ragionevoli sono i liberali e i repubblicani – quanti nomi nuovi! – tra loro molti si sforzano di placare gli animi.

 

28 Agosto.

I miei, tranne il nonno che simpatizza per i mazziniani, sono andati  coi “preti”.  Si riuniscono  in canonica.  Li chiamano “Pipì”. Mi fa ridere! Si tratta per lo più di piccoli proprietari terrieri, anche quelli che possiedono un poderello da venti quintali di grano all’anno, un ciliegio, due cipressi rachitici all’inizio della carrareccia e un paio di bestie sfinite nella stalla, ma con lo stemma nobiliare sull’architrave della porta…

Il nonno sostiene  che in casa si sta diffondendo  il tanfo della sacrestia…
«Ti sbagli – rispondo – è puzzo di Pipì». Ridiamo insieme.
«A proposito  di risate,  ascoltatemi.  C’è  sempre  gente  in piazza in attesa dei giornali o di notizie sensazionali. Passa il prevosto, panciuto, panciuto, sudaticcio, sudatone. Pare non sia più riverito come un tempo».
Infatti da sotto i portici sbuca la Marcona, scarpe scalcagnate, bisunta a volontà e grida: «A morte i preti!».
Il prevosto si gira, la squadra un attimo e con voce soavissima da messa di Natale: «Marcona, se lo deve ricordare! I preti come me e le puttane come lei non muoiono mai».
Riprende la passeggiata col breviario a contatto di naso, gu- standosi il trionfo della risata corale e di qualche battimani che ricacciano la malcapitata al riparo delle arcate.

 

8 Settembre.

Stupite, buona gente! È una giornata storica! La guerra è finita così in un batter di ciglia, come, di solito, non accade almeno secondo i manuali. Si percepisce una strana euforia mista a incredulità, timore, sconcerto. Tutti parlano e straparlano. Nessuno in verità ci capisce un fico! I giornali vanno a ruba con i loro titoloni. A sera si barattava un mulo del Regio Esercito con un abito usato.
Il sor Luigi, che vive solitario nella sua villetta sopra il paese, con fama di originale se non di balzano, ha gelato tutti gridando alla folla: «Ridete e cantate scimuniti, ma questa è una peste. Cento volte maledetti coloro che l’hanno voluta. Per colpa loro il sangue segnerà la porta di tutte le case».

 

12 Novembre.

Oggi, dodici novembre, mi sento di cominciare così, caro diario, col cuore in tumulto, con l’anima adagiata su una nuvoletta del settimo cielo, e gli occhi, o occhi miei avventurati!
Pieni della sua immagine. Pronta a salire con lui sul suo Macchi 200 quando, insieme a pochi altri eroi, morde al cuore le formazioni immense, ordinate, impassibili delle “fortezze volanti” col loro lungo strascico di scie bianche.
Ne ho vista una staccarsi dalla squadriglia e precipitare mentre il cielo si popolava dei puntini ondeggianti dei paracadute.
Faccio fatica, mio amatissimo diario, a mantenere il filo delle cose.
Ha un bel predicare il professor Trapani: «Ragazzi andate dietro alla realtà effettuale, perché il resto altro non è che imbambolamento romantico per grulli o fideismo a buon mercato per gonzi».
Dunque, questa mattina sono andata dal giornalaio. Come è usanza saluto tutti, dato che tutti ci conosciamo in paese. E tutti rispondevano al saluto come è ovvio. Non a caso dico “rispondevano” perché da quando sanno che ero alla Casa del Fascio il giorno del documentario, alcuni mi negano il sa- luto ostentatamente. Altri scantonano come fossi un untore. Qualcuno grugnisce un “’giorno” stitico, stitico, forse per rispetto a mio padre che è universalmente stimato.

Grazie a Dio ci sono anche quelli dalla mia parte. Allora sono saluti carichi di simpatia: «Brava la mia Gaia. Ho saputo che sei dei nostri, brava la mia bambina!» con affetto e calore inusitati.

Orsù, di fronte al Caffè Perotti vedo un giovane bello, aitante, fasciato nella divisa azzurra di ufficiale dell’aeronautica, coi nastrini delle decorazioni, numerose per i suoi ventisette anni.

Il volto ancora cotto dal sole africano. Bianchissimi i denti, caldo il sorriso.

Gli fanno corona alcuni giovani che, come lui e me, hanno scelto la Repubblica e due ragazze belline. In vero le più belle del paese. La Mimma,  figlia dell’avvocato  Clerici, piacevolmente traboccante sopra e sotto la vita dove è giusto che una donna lo sia. Un tantino carica di trucco. Estatica di fronte al suo eroe.

Poi Lilia, laureanda in medicina, in paese già considerata zitella per i suoi venticinque anni senza la parvenza di un innamorato.

“ Un tipino “ sentenzia la mamma, con appena un tocco dell’acidità tipica di una donna matura, anche se ancora piacente, nei riguardi di una bellezza appena sbocciata.

«Un’acqua cheta, una madonnina pentita» insinuano le malelingue «perché si dice che anche lei giù in città dove studia…».

Non ti dico, dolcissimo diario, quali astute manovre abbia posto in atto per passargli vicino e salutarlo. In fondo le nostre famiglie si frequentano da generazioni.

Non scherzo. Mi sentivo risucchiata  verso di lui. Con un sorriso che doveva essere ebete – per mia buona sorte non c’erano specchi – con l’angoscia di non trovare le parole adatte, nel terrore di arrossire come spesso mi accade.

Mentre modulavo il mio più compito: «Buongiorno, Lamberto» mi è corso incontro lasciando la compagnia. E le ragazze di stucco.

«Sei Gaia, vero? Quasi non ti riconoscevo! Sei una donna.

Una ragazza bella, anzi bellissima, anzi unica…».

Le due bellone, che faccia avessero ve lo lascio immaginare.

«La conoscete, ragazzi? È la figliola del dottor Benci».

«Caro Lamberto non solo la conosciamo, ma sappi che è dei nostri» ha risposto uno dei giovani.

«Ciao, bellina» lo ha interrotto Lilia che bazzica in casa mia per i consigli che il babbo le dà.

«Questo ti fa onore» ha ripreso il mio pilota «e a me personalmente moltissimo piacere. Anche perché i tuoi si sono allontanati».

«Io no» ho replicato quando già l’astuta Mimma, circondata la vita del mio aviatore, guidava la compagnia verso il caffè. Fine della beatitudine.

Dopo alcuni mesi troviamo nel diario: Devo riuscire ad arruolarmi. Non lontano piovono le granate. Gli altri fascisti del paese se ne sono andati già da un pezzo in Romagna, la terra del duce. Lascerò il paese con gli ultimissimi, il segretario del fascio e sua moglie.

 

A distanza di qualche settimana:

Ti riprendo a sera fatta, diario mio, di un giorno cruciale della mia esistenza. Siamo alloggiati nella casa del fascio – sacchetti alle finestre e mitragliatori in postazione contro i banditi che si fanno vivi ogni tanto – a una quarantina di chilometri dietro il fronte. I miei sono dall’altra parte.

Il brontolio lontano delle artiglierie mi dilania l’animo. I camerati del luogo, tra affettuose  premure,  ci pongono  mille domande, turbati.

Prefigurano nella nostra la loro odissea futura.

Questa mattina al secondo tornante l’autocarro è stato costretto a sostare perché l’artiglieria batteva la strada… istintivamente ho guardato in alto verso il paese. Le case non si scorgevano  più. Nel cielo grandinavano  gli shrappnels  con graziose nuvolette bianchissime.

«Siamo bloccati?» ho domandato al conducente. Speravo con tutta l’anima di tornare dai miei cari che in quei minuti dovevano aver scoperto la mia fuga.

«Indietro non si torna. Non senti il fuoco delle armi leggere? Significa che gli inglesi sono vicinissimi».

Appena esplosa l’ultima salva ha schiacciato l’acceleratore oltrepassando il punto critico alla massima velocità. Ha sorriso quando ormai eravamo in fondo alla valle.

«Di solito una batteria spara con una certa cadenza. Basta calcolare gli intervalli e cogliere l’attimo favorevole. Loro caricano e noi intanto ce la diamo a gambe» ha concluso con l’aria di un veterano che, in realtà, è appena più anziano di me.

Proibito pensare ai miei. Il dado è tratto anche se ora valuto il dolore che gli ho recato.

Tenendo conto che ci divide la linea del fronte, devo concentrarmi sul mio proposito. Facile a dirsi. Se penso al babbo così orgoglioso  di me, al nonno allegro complice delle mie marachelle. Insomma: cosa fatta, capo ha.

Di certo incontrerò Lamberto. Forse mi inviterà al Circolo Ufficiali. Povera mamma. Sembrava lo presagisse. Ordunque, fra qualche giorno sarò a Milano per iniziare il corso. Non è forse ciò che ho sempre desiderato? Gaia divenne una “Balillina”. Al termine del corso, con le altre ausiliarie sfilò per le vie di Milano cantando Canta la giovinezza la canzone del cuore…

Ben allineate, orgogliose di servire la patria nel momento in cui gli uomini fuggivano dalle armi…

Ai lati della via qualche timido applauso, un briciolo di affettuosa ironia dei camerati mentre i civili scantonavano.

Come le altre Ausiliarie sognò di battersi contro gli Alleati.

Soldati contro soldati. Ardimento di pochi contro lo strapotere del nemico.

Fu esaudita solo in parte nell’estate  del ’44 e destinata ai servizi di retrovia.

«Ti lascio il piatto sulla panca, nel caso ti venisse fame» l’avvertì tornando a chiuderla a chiave.

Quando Norma entrò in fabbrica, più o meno all’età della prigioniera, credette di aver conquistato il mondo con la sua paga fissa che la rendeva indipendente. Dopo una settimana desiderava solo andarsene.

«Capirai, ero bellina: non c’era collega maschio, giovane o attempato, che non avanzasse proposte indecenti. o non tentasse di palpeggiarmi».

Me ne lamentai con le compagne più anziane. Mi consigliarono di non dare loro corda e di lasciar perdere.

«Vedrai: nel giro di un mese avranno già smesso».

Quando però un certo Selvi mi trascinò con intenzioni chiarissime in uno stanzino da dove fuggii a stento singhiozzando come la fascistella questa mattina la mia caporeparto gli ripassò la schiena col manico di un badile e le altre operaie lo minacciarono: «Se ci provi ancora ti strapperemo le palle!».

«Che c’entra? Stiamo ai fatti» dice sempre il nostro commissario politico «è una fascista. I fascisti ci hanno massacrato per vent’anni. Forse anche lei con il suo dannato moschetto ci bersagliava  da lontano, dove i nostri mitra non arrivano.

Dunque, doveva finire come gli altri fascisti, subito. Le mie compagne di lavoro mi protessero. Questa ragazzina traviata dalla propaganda, chi muoverà un dito per lei?».

Da dietro l’uscio la reclusa domandò l’ora.

«Sono le cinque».

«Norma, mi ascolti».

«Ha mai sparato a qualcuno?».

«Che domanda! A fascisti come te».

«Preferisco morire piuttosto che subire il supplizio di stamani. Mi spari lei prima che tornino quei maledetti. Sarà un atto di amore. Dio glie ne renderà merito».

«Vaneggi, signorina. Smettila. Da questa mattina mi rompi le scatole coi tuoi piagnistei». Troncò il discorso.

Maledetto il momento in cui gliel’avevano affidata.

“Non ci vuole molto a indovinare cosa le accadrà quando torneranno. Dopo, semi-incosciente verrà condotta in un luogo appartato, non però lontano da una strada o da un caseggiato e le diranno: Vai, sei libera. Vai! E quella, ingenua com’è, crederà al miracolo, raccoglierà gli ultimi brandelli dell’animo suo, e si dirigerà d’istinto verso la luce delle case, verso i lampioni della via. Non riuscirà a fare più di due o tre passi che arriveranno i colpi. È una bambina. Non le deve accadere. Non voglio le accada”.

Bisognava concludere la faccenda. Di come l’avrebbero presa i compagni non si curava affatto. Provassero ad alzare la cresta! Gliele avrebbe cantate a puntino! Per motivi personal e abbietti avevano disobbedito a un ordine.

Quanto alla pretesa della signorinella, figurarsi se le avrebbe dato ascolto! Si aprì l’uscio. La partigiana, vestita per uscire col mitra a tracolla le porse un lungo soprabito chiaro.

«Indossalo…».

«O Signore, mi hai esaudita! Grazie signora Norma, Dio la rimeriterà». Poco dopo erano per strada. Norma era popolarissima.

«Ciao, Norma, hai catturato una spia? Graziosa la spietta!» celiò un giovane.

«È una parente» rispose tirando dritto.

Intanto Gaia si chiedeva dove sarebbe avvenuto. Dovunque gente spensierata e giovani partigiani che giocavano a pallone coi liberatori.

Tutti fraternizzavano con tutti, al suono della musica diffusa dalle camionette della propaganda.

Girato l’angolo apparve un palazzotto di mattoni rossi. Davanti erano parcheggiate alcune di quelle strane, piccole auto che la gente aveva ribattezzato “la macchina di Ridolini” con la scritta “Military Police” sotto il parabrezza.

«Avverrà nel cortile di quella caserma. Già, la caserma della polizia militare».

Scuro come la notte, pesante come un macigno, la pervase il terrore.

L’eventualità di tornare preda di quei bastardi non la sconvolgeva più, si vide in Francesco  addossato al muro vicino alla fontanella. Le tornò alla mente la preghiera della nonna: «Gesù, Giuseppe, Maria assistetemi nell’ultima agonia».

Le gambe legnose le impedivano di tenere il passo della partigiana. A fatica le tornò accanto.

«Mi permetterà di recitare un Ave Maria?» chiese fioca.

Non ebbe risposta.

Nell’atrio venne loro incontro un ufficiale che parlava italiano.

«Togliti il soprabito» ordinò Norma perché quello vedesse la divisa.

«Le consegno come prigioniera di guerra questa ausiliaria fascista».

«Oh Norma». S’udì come un soffio.

Si stupì non poco il figlio della «perfida Albione».

«Strano che la consegni nelle nostre mani. Di solito queste faccende se le sbrigano fra Italiani. Anyway, venite con me».

Quel visetto gli ricordava forse un suo familiare, oppure lui, soldato nell’anima, solidarizzava con la soldatina sulla quale pensava incombesse la malvagità di quel donnone armato e bardato alla maniera dei cobelligeranti italiani coi quali, a ogni ora, scambiava generose quanto false attestazioni di stima?

Con britannica  pignoleria  e bellica circospezione  le interrogò a lungo insieme. Successivamente ascoltò la giovane da sola per decidere se poteva essere riconosciuta come prigioniera di guerra.

Infine chiamò una soldatessa, faccia cavallina, spruzzata di efelidi affidandole la prigioniera.

«Prima di tutto lei ha bisogno di un bagno» sentenziò  la vergine cimmeria, storcendo il naso.

«Voglio parlare con chi mi ha consegnato» implorò Gaia.

«Sorry, se n’è andata». Concluse l’ufficiale.

Questa  storia,  me l’ha raccontata  una signora  vicina  agli ottanta, bella coi suoi capelli d’argento tagliati a zazzeretta, con un filo di perle e la camicetta di seta sul golfino azzurro. Sguardo guizzante di chi padroneggia ancora la propria esistenza, molto sa e molto ha compreso.

Nell’accomiatarsi  mi disse, gentile:  «Mia figlia l’accompagnerà alla stazione. Si chiama Norma, la mia figliola».

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