La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

15 Ottobre 2006 ... Anno XXXVI

Roberto Longo

Sono trascorsi trentasei anni, quasi metà della cosiddetta aspettativa media di vita. E sono passati troppo velocemente. Quand’ero ragazzino non vedevo l’ora di diventare “grande” ed il tempo sembrava non passasse mai. Eppure, l’ora è sempre stata, ed è, di 60 minuti ed il giorno di 24 ore. Deve essere colpa della percezione.

Per tutto il mese di luglio ci hanno detto: “Signori, domani la massima sarà di 30 gradi ma non illudetevi perché la percezione di caldo sarà di 40 gradi a causa della forte umidità”.

Quindi: “Signori, è vero che gli anni sono sempre di 365 giorni e, ogni tre, il quarto è di 366,  ma la percezione del tempo, alla nostra età, fa sì che un anno sembri un mesetto e la causa è la cosiddetta  terza età che è un modo simpatico per dire vecchiaia”.

In trentasei anni sono successe tante cose. Innanzi tutto familiari ed amici, un tempo tutti nel raggio di un paio di chilometri, sono oggi raggiungibili solo in treno, in auto di grossa cilindrata se non addirittura in aereo. Praticamente l’unico legame è il telefono che di anno in anno squilla sempre meno.

Ho anche imparato a guidare nella nebbia, ho adottato alla neve le esperienze fatte viaggiando sulla sabbia. Mi sono trovato nelle bolgie delle arene condominiali e sono stato costretto a studiare Leggi, usi e norme che regolano la proprietà in comune per essere in grado di sedare risse o provocarle. Ho vissuto nei cosiddetti “anni di piombo” chiedendomi se non fossi per caso passato dalla classica padella all’altrettanto classica brace. Ho dovuto versare al fisco oltre metà del mio lavoro senza aver avuto mai alcun ritorno in decorosi servizi sociali.

Nel 1973, a causa della crisi petrolifera causata dalla guerra “ del Kippur ”, ho iniziato a saltare da un’auto a targa pari ad una a targa dispari e, di recente, stipulare un mutuo per ogni “pieno” di benzina.

Mi sono abituato ai pesci d’allevamento, alle mucche più o meno pazze, alle bistecche che, messe in padella lunghe un palmo, iniziano subito a rimpicciolirsi costringendomi a mangiarle semicrude prima che scompaiano del tutto e, mangiando bendato, non sono più in grado di distinguere il pollo dal coniglio, l’agnello dal capretto. Ho scoperto che le uova non hanno il guscio bianco perché costituito da calcio ma un vago colore di caffellatte formato da incerti materiali. So affrontare gli inverni rigidi e se il mare non è inquinato a puntino, ritengo  non valga la pena fare il bagno. Ho scoperto com’è difficile fare amicizie e come sono diversi i nuovi amici da quelli che avevo trentasei anni fa. Ho imparato purtroppo ad essere poco solidale con il prossimo e a ricorrere al nazionalismo e all’esaltazione della Patria solo quando undici connazionali diventano Campioni del mondo tirando calci ad un pallone. Mi sono abituato a portare in tavola melanzane, peperoni e pomodori anche a dicembre ed a sbucciare arance sotto l’ombrellone. Sapore buono? Sapore cattivo? E dov’è il problema se il sapore non c’è? Certo che per quanto riguarda il gusto, i sapori di trentasei anni fa erano molto diversi.

Ma in questi ultimi trentasei anni ho anche potuto, e non è poco, apprezzare il piacere della libertà. Libertà di pensiero, di parola, di movimento e, acquistando una casa o avviando un’attività, ho avuto la certezza che nessuno avrebbe potuto portarmele via. Inoltre, in barba al galoppante inquinamento, viaggiando da un paese all’altro, ho visto verde, verde e verde anziché terreni brulli e sabbiosi. Svago, divertimento, utilizzo del tempo libero, qualità della vita sono nettamente superiori a quelli della … vita precedente. Ritengo inoltre di aver vissuto e di vivere in un Paese meraviglioso, il più bello del mondo. E questo non è amor patrio ma il semplice giudizio di milioni e milioni di visitatori stranieri. E dove non ha provveduto Madre Natura, ci ha pensato il genio a dotare l’Italia del 60%, se non di più, delle opere d’arte mondiali.

È anche successo che la batuffolina venuta al mondo nel 1971, mi abbia elevato al rango di nonno per due volte mentre il ragazzino arrivato in Italia a sei anni, ha portato a tre le gioie di casa nostra.

Il 15 Ottobre del 1970, era una giornata splendida ed io, quella giornata tanto particolare, l’ho vista nascere. Mia moglie e i bambini erano in Italia già dal mese precedente. Ero pertanto a casa da solo e la preoccupazione di non svegliarmi all’orario previsto, mi ha fatto passare praticamente la notte in bianco. Avevo appuntamento con Said, un vecchio amico e collega che si era offerto di accompagnarmi all’aeroporto nonostante la situazione e le circostanze avrebbero potuto arrecargli qualche problema. Tentai di dissuaderlo ma fu inflessibile e ironicamente mi disse: “Non rischio niente perché ritengo di fare il mio dovere: sto cacciando un  fascista come te fuori dalla Libia!”. Rideva, probabilmente per mascherare imbarazzo e commozione. Eravamo troppo amici.

Aveva posto una sola condizione: alle 6 in punto perché, dopo avermi accompagnato, doveva andare a lavorare. Pur sapendo che gli appuntamenti in Libia generalmente si prendevano per il solo scopo di non rispettarli, ero preoccupato di risultare io, colui che confermasse tale regola.

Erano da poco passate le 4 e 30 quando, stufo di svegliarmi per poi riprendere un breve sonno, mi alzai, mi preparai ed uscii. Fu così che vidi nascere il giorno. Il tramonto, lo avrei visto a Roma.

Per strada non c’era alcuno. All’improvviso comparve il primo biancore dell’alba e dopo alcuni minuti il cielo cominciò a colorarsi di un arancione intenso. Repentino il passaggio dall’alba all’aurora, ma un vero spettacolo. Avevo visto una sola volta, nel deserto, una simile meraviglia. Ma in città mai. Ho sempre fatto fatica a tirarmi su dal letto la mattina ed i miei ritardi in ufficio erano proverbiali. Il deserto, che spettacolo! Pensai che l’unico rimpianto, se mai ne avessi avuto uno, sarebbe stato proprio quello di aver visto il deserto una sola volta. Quella grande distesa dove il silenzio è rotto soltanto dal rumore del vento che sposta lentamente le dune come pedine su una scacchiera. Ricordo che, per il mio carattere forse troppo decisionale, alcuni mi chiamavano scherzosamente shekh el gafila (capo-carovana). Mi venne in mente che avevamo incrociato, durante quel viaggio in deserto, una carovana di una trentina di dromedari tutti in perfetta fila indiana. Visti dall’alto dovevano sembrare vertebre di una strana spina dorsale. I dromedari ci passarono a pochi metri, impassibili, e nell’incedere lento e dinoccolante, masticavano continuamente. Neanche avessero avuto in bocca un chilo di chewing-gum. I carovanieri si limitarono ad alzare i loro bastoni in cenno di saluto e proseguirono senza fermarsi. Scomparvero all’orizzonte silenziosamente così come erano improvvisamente apparsi.

Anche quella mattina c’era un silenzio tombale e feci un balzo quando da un vicino minareto l’altoparlante lanciò l’invito ai fedeli per la preghiera del fager. L’altoparlante, questo aggeggio anonimo, aveva da diversi anni, sostituito i muezzinun. Ricordo che per migliorare la voce, i muezzinun, si tappavano con una mano un orecchio ed usavano l’altra per trasformare la bocca in megafono. Normalmente erano o molto anziani o non vedenti.  Se giovani e dalla vista acuta, dall’alto dei minareti, avrebbero potuto sbirciare nei sottostanti cortili interni delle case arabe dove le donne accedevano liberamente, convinte di essere al riparo da sguardi indiscreti. Avrebbero, così, non solo violato la privacy delle donne, ma potuto essere distolti dal pio compito di chiamare i fedeli alla preghiera.

Nella Libia monarchica c’era un grande rispetto per tutte le religioni. Le campane venivano tranquillamente suonate, nessuno disturbava l’accesso alle chiese, le processioni erano permesse, nelle scuole italiane c’erano i simboli della cristianità. Dopo un paio di decenni, in Italia, non avrei mai pensato di dover leggere che in alcuni Comuni, al parroco, era vietato suonare le campane “perché disturbavano la quiete pubblica” e, di recente, la rimozione del crocefisso dalle aule.

La religione era materia di studio. L’ultimo anno abbiamo avuto, come professore, Padre Marini, valente ed illuminato oratore. L’ora di religione era sempre la prima o l’ultima per facilitare l’entrata o l’uscita dei non cattolici. Un giorno Italo Nemni, di religione ebraica, si attardò nel recuperare i suoi libri dallo scrittoio e quindi ascoltò, involontariamente, l’inizio della lezione. Non mi viene in mente l’argomento oggetto della lezione, ma ricordo che Italo chiese ed ottenne di rimanere. Alla fine si intrattenne a parlare con un compiaciuto Padre Marini.

Mentre davanti ai miei occhi scorrevano questi ricordi, il muezzin-elettrico aveva raggiunto il suo scopo e la città cominciava ad animarsi. Smentendomi, Said arrivò addirittura in anticipo. Era troppo presto e dovevo “fare” almeno le sette perché a quell’ora avevo appuntamento col mio padrone di casa per la consegna delle chiavi e per il pagamento dei quindici giorni d’affitto. Said volle accontentarmi e mi invitò a salire, valigia al seguito. Percorremmo tutta la Via Michelangelo quindi Corso Sicilia. Il semaforo rosso al bivio di Sciara Errashid mi permise di abbracciare con lo sguardo l’artistico palazzo noto come “il Colosseo”. Sotto le sue arcate c’era uno dei più noti caffè arabi ed i negozi dei fratelli Darrat. Avevo lavorato un paio d’anni nella loro azienda imparando un sacco di cose nonostante i Darrat avessero un modesto grado di istruzione. Impossibile non ricordare, poi, il folcloristico Mercato Rionale, il Mercato del pesce (Suk el-hut) e gli abilissimi sinfaz (maghi delle burik, delle sfinez e dei mah-ruh). Mi sembrò addirittura sentire l’odore pungente dell’olio in eterno sfrigolio. Ho frequentato le Scuole Medie e i primi due anni di Ragioneria all’Istituto Tecnico di Sciara El Maamun. Era un vero supplizio passare tutte le mattine davanti ai sinfaz quelle volte che purtroppo dovevo tirare dritto, perché la paghetta era finita o ero in ritardo. Quando potevo fermarmi, grande doveva essere l’attenzione per non entrare in classe oliato per benino.

Proseguendo e quasi al termine di Corso Sicilia, sempre sulla sinistra, il Palazzo del Governo, nello stile semplice ma armonioso dell’architetto Di Fausto ma, pare, su schizzi del Maresciallo Balbo. Quindi Piazza Italia con la meravigliosa Fontana dei Cavalli Marini, copia di quella omonima a Villa Borghese in Roma e Piazza Castello con la statua di Settimio che, quella mattina, mi sembrò più “Severo” del solito. Ma appena voltammo a destra sul Lungomare, chiesi di scendere dando appuntamento al mio accompagnatore alla Fontana della Gazzella. Probabilmente Said si era pentito di essersi offerto di accompagnarmi all’aeroporto, ma, con estrema pazienza e cortesia, mi disse: Tfaddel. Camminai lentamente come se avessi avuto incarico di contare di quanti passi fosse il Lungomare. Con lo sguardo accarezzai ogni singola palma, ogni singolo lampione e tutti i bei palazzi che si affacciavano su quella strada meravigliosa compiacendomi che quanto vedevo era tutta opera degli italiani. Avevo abitato in una gran bella città e me ne rendevo conto soltanto quella mattina che la stavo per lasciare, forse definitivamente. È proprio vero che artisti, opere e cose si apprezzano solo quando non ci sono più. Avrei rivisto volentieri il Circolo Italia nel cui teatro ho potuto praticare a lungo il mio secondo hobby essendo sempre stato, il primo, partita doppia e bilanci. Ma il Circolo era stato già espulso il tardo pomeriggio del 5 Giugno 1967, il primo “della guerra dei sei giorni”.

Stavo accarezzando la gazzella, quando Said suonò il clacson uscendo poi, dal finestrino, il braccio a polso piegato per mostrami l’orologio.

Il proprietario di casa mia, era un maltese. Gli dissi che avevo lasciato dentro i mobili ma che non erano di pregio: tutta roba acquistata di “seconda mano” sette anni prima, in occasione del mio matrimonio. Avrebbe potuto pertanto affittare l’appartamento ammobiliato recuperando i soldi delle sue continue richieste di aumento, controbilanciate dalle mie continue richieste di diminuzione. 

Fece un mezzo sorriso, mi diede qualche colpetto sulla spalla e, dopo qualche frase di saluto ed augurio, non disse altro. Forse per la presenza di Said. Ma l’espressione del suo viso era molto eloquente.

Dovevamo passare a prendere mia madre e mio fratello prima di proseguire per l’aeroporto. Chiesi a Said di passare da Piazza Cattedrale e percorrere il Corso Vittorio Emanuele. La notte trascorsa praticamente in bianco mi stava giocando brutti scherzi: avevo allucinazioni. Mi sembrò vedere Gigi Russo in arte Girus, girare a fatica in quel bugigattolo di Latteria che per noi era famosa quanto l’Harry’s Bar di Venezia. Il marciapiedi di fronte, pieno di volti arcinoti: amici che incontravo tutte le sere.

Se non avesse ingranato la marcia con troppa … animosità, facendomi capire che non ne poteva più, avrei chiesto al mio accompagnatore di lasciarmi all’altezza della Galleria De Bono. L’avrei attraversata, avrei percorso a piedi un tratto di Via Costanzo Ciano, girato nella via dove c’era il cinema Metropol per dare uno sguardo, prima agli uffici dove avevo lavorato dal 1° Febbraio 1964 fino al giorno precedente e poi a quanto rimaneva della mia pescheria preferita. Era di un ebreo ed anch’essa già espulsa il 5 giugno del 1967. Sarei arrivato in via Lazio, uno sguardo a sinistra verso l’Istituto Tecnico ed uno a destra al mitico Ristorante Tureia. Sarei partito più soddisfatto.

Ma se Said mi avesse chiesto perché non avessi fatto quel “giro turistico” qualche giorno prima, non sarei stato in grado di rispondere.  E tale domanda non troverebbe risposta neanche oggi, dopo trentasei anni.

Chiesi a Said di lasciarci ad un centinaio di metri dall’aeroporto; era opportuno anche per lui. Lo ringraziai, mi chiese se avevo bisogno di qualche altra cosa, quindi ci salutò, dispiaciuto e commosso. Non l’ho più sentito, né rivisto.

Nessun problema al controllo bagagli contrariamente a quanto mi avevano detto e quindi, con leggero ritardo sull’orario previsto, partimmo per Roma. A decollo avvenuto, quel grande applauso che normalmente si tributa ai piloti all’atterraggio: qualche volta per la professionalità dimostrata, e, sempre, per tirare il classico sospiro di sollievo: “finalmente siamo a terra”. Invece eravamo in volo.

Per quanto mi riguardava, si stava attuando un piano predisposto già da alcuni anni e fortemente caldeggiato da mia moglie: il rimpatrio. Da tempo avevamo pensato di lasciare la Libia ma liberamente e certamente non a seguito di espulsione e soprattutto non così in malo modo!

La Libia indipendente aveva iniziato, a mio avviso giustamente, la libicizzazione del Territorio. Una Legge vietava ai non libici gli acquisti di terreni e fabbricati. Nessuno scandalo: nella civilissima Svizzera esiste una Legge simile. Un’altra Legge imponeva alle società ed a tutte le attività commerciali e industriali, la presenza di libici per almeno il 51% del capitale sociale, ma non obbligava quelle già esistenti ad adeguarsi. Tutte le società e le imprese di una certa rilevanza dovevano tenere la contabilità in lingua araba. Non mi risulta che in Italia, i conti, vengano tenuti in lingua turca o in cirillico. Negli appalti e nei lavori erano favoriti i libici. Per gli stranieri era necessario il benestare dell’Ufficio Lavoro per poter essere assunti dalle Compagnie petrolifere e pertanto esse erano precluse a coloro che non potevano dimostrare qualità tecniche di un certo livello.

Allora, come adesso, a distanza di quasi cinquant’anni dalla loro promulgazione, non riesco a trovare alcunché di strano o scandaloso. Le ritenei e le ritengo, Leggi e disposizioni più che logiche se non addirittura necessarie. Assurdo invece e contrario ad ogni elementare norma di diritto la confisca dei beni degli Italiani decisa dal Governo Rivoluzionario. Ingiusta e discutibile l’espulsione decretata perché stranieri indesiderati in quanto discendenti degli invasori.

Forse non ce ne era bisogno. Le Leggi della progressiva libicizzazione, gli incidenti gravi accaduti nel 1945, nel 1948 e nel giugno del 1967, il timore di sicuri notevoli cambiamenti alla morte dell’anziano e magnanimo Monarca, avevano convinto e costretto un numero sempre crescente di italiani a lasciare la Libia spontaneamente.

L’esproprio dei beni, in ogni caso, sarebbe dovuto avvenire dietro congruo corrispettivo perché tutti i beni fino all’ultimo centesimo, all’ultima pianticella e all’ultimo chiodo erano frutto di lavoro serio, sodo e soprattutto onestissimo. L’opera, poi, di tutti coloro che hanno trasformato in terra rigogliosa terreni desertici e sabbiosi, è più vicina all’abnegazione che al profitto.

Il nostro Governo non solo non fu in grado di tutelare gli interessi dei suoi cittadini ma non tentò neanche il ricorso alle Sedi della Giustizia Internazionale, probabilmente per interessi economici e sicuramente per quelli relativi all’oro nero. Una certa stampa, alcuni cari connazionali e qualche pseudo-storico fecero il resto.

Nel 1964 nacque Maurizio, il nostro primo figlio, e, da quel momento, mia moglie iniziò a dirmi, prima con cadenza mensile, poi con petulanza giornaliera: “Noi potremmo anche continuare a vivere in Libia dove ci troviamo molto bene ma, per l’avvenire dei figli, dobbiamo necessariamente rientrare in Italia. Il futuro dei nostri figli non è qui”.

Le sue insistenze e le motivazioni addotte, mi avevano convinto, per cui, con la prospettiva del rimpatrio volontario, conducemmo una vita senza eccessi, senza acquisti impegnativi, senza investire i nostri risparmi in attività produttive nonostante le allettanti tentazioni sollecitate dal boom petrolifero. Fu così che, per pura fortuna e non certo per doti di preveggenza, quando arrivò il decreto di confisca, gli unici beni che avevo in Libia erano la mia famiglia e tanti amici: italiani e libici. Anche la liquidazione di “fine rapporto”, anch’essa sequestrabile e quindi confiscata, mi fu rimborsata qualche anno dopo, per cui non ho più dato seguito all’iniziale istanza presentata alle Sedi preposte.

A coloro meno fortunati va la mia sincera solidarietà e comprensione perché, nonostante la storia avesse offerto suggerimenti per quanto successo in Egitto, Tunisia, Marocco e Algeria, nessuno poteva prevedere quanto purtroppo accaduto e nessuno aveva creduto a Silvio Peluffo, da me già soprannominato “novella Cassandra” in un numero precedente de l’oasi.

 

*****

Oggi è il 15 Ottobre 2006, sono trascorsi trentasei anni … sono passati molto velocemente ma sono pur sempre trentasei anni! Un sacco di tempo! Ed il tempo è un potente farmaco: lenisce afflizioni, favorisce l’oblio, attenua i risentimenti e piano piano annulla la nostalgia. Speravo che il tempo risparmiasse la dignità. Invece, purtroppo, per essa, ha usato quasi subito la spugna.

P.S. Inviai a Lino Boccia questo mio articolo pregandolo di inserire nel testo una sua poesia.

“Ce le hai già nel libro di poesie che ti ho mandato. Prendi Addio Terra mia e Bogliasco” – mi disse. Così ho fatto.

Roberto Longo

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ADDIO, TERRA MIA

Scrissi una volta:

“Terra mia,

vorrei tornar da te

solo una volta ancora

così, come la rondine,

ritorna al proprio nido”.

 

Quanto l’ho sperato,

quanto ho desiderato

rivedere la mia Terra.

 

Quante volte ho sognato

d’essere disteso

su una duna,

gli occhi rivolti

a un cielo di cobalto

mentre la sabbia,

calda e silenziosa,

scorreva

tra le dita delle mani,

o, quando,

disteso sulla spiaggia,

gli occhi si perdevano

in un oceano

di tremule stelle,

mentre la risacca

portava il profumo del mare.

 

Qualcuno, ha

chiuso la porta

della mia Terra.

 

Addio, Terra mia,

ormai canuto e stanco

ho perso ogni speranza.

Continuerò ad amarti,

continuerò a sognarti …

fino al lumicino.

Addio, Terra mia,

Libia dei miei sogni!

Lino Boccia

 

BOGLIASCO

Bogliasco,

graziosa, tranquilla cittadina,

da sempre sposa

della grande Genova,

tu mi accogliesti, profugo,

tanti anni fa,

quando lasciai la Terra

dove sono nato,

dove ho lasciato

gran parte del mio cuore.

 

Grazie Bogliasco,

il tuo mare

mi ricorda il mio

e, a sera,

le tue strade silenziose

mi riportano alla mente

la Sciara di casa mia.

 

Bogliasco,

ancora grazie,

ché tu sei stata, e sei,

l’altra metà della mia vita.

Solo una cosa mi addolora:

il non avere accanto

la mia Mamma,

rimasta in quella Terra

che mai potrò scordare.

Lino Boccia.

 

 Pubblicato sul notiziario “l’Oasi”nel Numero 3/2006 – Settembre - Dicembre 2006