La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Il ristorante in galleria

di   Roberto Longo

 

Da qualche anno la mia memoria è andata in pensione. L’unica cosa che fa, anche se svogliatamente, è quella di ricordare, per mia fortuna, fatti e avvenimenti che riguardano la mia persona. Purtroppo quando chiedo di farmi rivedere mentalmente vie, piazze, villaggi e città, rifiuta energicamente di compiere quello che dovrebbe essere il suo dovere.

Ai miei ordini inizialmente perentori ma che diventano semplici insistenze per finire in umili suppliche, risponde con un secco staliniano“niet”! E quando le chiedo di fare qualche piccolo sforzo e non certamente gli straordinari, minaccia il ricorso ai sindacati e mi costringe a desistere.

Desiderando “buttare giù” qualcosa sulla Galleria dove c’era il Ristorante Romagna, oggetto del presente articolo, ho fatto ricorso alla citata memoria in pensione che stranamente mi ha dato molte indicazioni. Non mi sono fidato di tanta bontà e ho chiesto conferma nonché ulteriori informazioni ad amici la cui memoria, evidentemente, anziché andare in pensione ha chiesto all’Inps il famoso “bonus” che permette la prosecuzione al lavoro oltre l’età “pensionabile”. Comunque ho avuto solo conferme, qualche precisazione e nessuna smentita per cui ho sbagliato a dubitare della mia cara “pensionata”.

Devo ammettere però che, all’iniziale domanda: “ti ricordi della Galleria De Bono”? Tutti hanno risposto: “Eccome no!”, meravigliati dalla mia domanda (cioè nel senso ma come fai a dubitarne). Ma alla successiva richiesta di descriverla nonché di menzionare negozi, uffici e bar che si affacciavano sul famoso ottagono, la maggioranza ha risposto: … Beh … sì … ma … veramente … mi sembra che …

Non mi sono meravigliato. Ho sempre pensato che la Galleria sebbene imponente e bella, non fosse apprezzata molto dai tripolini e forse in un certo senso anche snobbata.

Ha tante stranezze la Galleria De Bono di Tripoli. Innanzi tutto non è una galleria essendo a cielo aperto, nell’ottagono centrale. Mi è stato detto, però, che in passato, un’intelaiatura in acciaio supportava una serie di cristalli che la coprivano dandogli la forma di una “bomboniera” nomignolo che poi le sarebbe rimasto. Sembrerebbe che tali cristalli creassero un effetto specchio che, nelle ore di sole, metteva in pericolo gli ammaraggi dell’idrovolante di Italo Balbo. Altri dicono che nelle ore di sole la “bomboniera” si trasformava in forno, altri che la struttura era molto delicata e rischiava di crollare al minimo movimento tellurico, altri che la pulizia di detti vetri era praticamente impossibile. Probabilmente la causa del suo smantellamento è la prima supposizione e che le altre siano state addotte, a suo tempo, per giustificare l’ordine di Italo Balbo, mettendo così a tacere tutti i mugugni. Altra stranezza: non ha mai cambiato nome. Le strade principali che collega sono passate rispettivamente: da Via Costanzo Ciano a Via 24 Dicembre per diventare 1° Settembre e da Corso Vittorio Emanuele a Sciara Istiklal per l’attuale Sciara El Mgherief.

Altra constatazione: non è mai stata considerata il “salotto buono di Tripoli” né punto d’incontro, mancando il classico. Bar Caffè “di grido e alla moda” capace di essere un punto di riferimento. Nessuno dava appuntamenti “in galleria” come si è soliti fare nelle città che possono fregiarsi di una simile bellezza. Il rendez-vous degli uomini d’affari e dei “tarabish” (1) era nell’elegante Caffè Commercio mentre gli sfaccendati come me preferivano la Latteria Girus sul Corso Vittorio Emanuele.

In Galleria De Bono si entrava per accedere ai negozi, agli uffici, agli appartamenti dei fortunati che vi abitavano o semplicemente per passare da una via all’altra. Fra i negozi ricordo l’armeria De Gennis, due bar, l’ottico Bileci e negli anni sessanta la società Cifla.

A forma ottagonale, la nostra Galleria, ha due ingressi imponenti: uno dall’attuale Sciara 1° Settembre e l’altro dalla rinominata Sciara El Mgherief. Gli altri due, quelli che collegano le vie secondarie sono meno importanti. Tutti e quattro formano altrettante piccole vere gallerie ornate da colonne e capitelli di pregio. Attraversate queste piccole quattro gallerie, si accede allo slargo, purtroppo a cielo aperto, come su spiegato, ma ci si trova su di una bella pavimentazione in marmo bianco con venature grigie. Le facciate degli edifici prospicienti sull’ottagono centrale sono ornate da nicchie a forma di conchiglia, teste di leone ed altre decorazioni di pregio. Nel complesso è una bella “galleria”. A me personalmente piaceva molto.

Entrando da Sciara 24 Dicembre, sulla destra, c’era il Ristorante Romagna di Arnaldo Gabrini, romagnolo doc. Mio padre lo aveva conosciuto a Ghariàn quale gestore del locale hotel, una succursale del Grand Hotel di Tripoli. Quando ebbe bisogno di un cassiere che curasse anche un po’ la contabilità, Gabrini, si ricordò di mio padre. Era l’estate del 1954 e mio padre, impiegato amministrativo del  “Corriere di Tripoli”, era disponibile soltanto dalle ore 15.00 in poi. Mi chiese di rinunciare parzialmente alle vacanze estive onde sostituirlo nelle ore durante le quali era appunto impegnato. Fu il mio primo impiego: ero cassiere dalle ore 12.00 alle 15.00 e pagai il “noviziato” con una serie di errori. Il Sig. Gabrini mi squadrò poco fiducioso ma alla fine accettò invitandomi a presentarmi alle 11.20 per poter pranzare con i camerieri e prendere quindi servizio dalle 12.00 da quando cioè iniziavano a passare davanti alla cassa piatti fumanti ed invitanti che mi avrebbero distratto se non fossi stato ben satollo. Per non presentarmi proprio all’ora di pranzo, andavo al “Romagna” sin dalle 10.00 e, nell’ora e mezza a disposizione, ho sempre cercato di rendermi utile. All’inizio, aiutando i camerieri nella preparazione dei tavoli ma, al terzo bicchiere rotto, fui allontano da qualsiasi cosa fragile esistesse nel raggio di dieci metri.

Ho sempre avuto una grande passione per la cucina ma non potendo neanche entrare nel “regno” dell’irascibile cuoco, mi accontentavo di preparare le insalate miste. Addossato ad una parete c’era un grande bancone dove venivano appoggiati grandi vassoi ed insalatiere con le varie verdure già tagliate. Non esisteva allora il self-service ed era il cameriere che esaudiva la richiesta del cliente mischiando le varie insalate ed ortaggi. La prima volta Gabrini mi disse: “Che cosa fai con quel coltello?”. - “Taglio i peperoni dolci, poi affetterò i ravanelli, i finocchi e tutto il resto”. “Stai attento e taglia tutto molto sottilmente”. “Ma certo Sig. Gabrini”, risposi facendogli capire che me ne intendevo, “più sono sottili più sono buone”. “No, no.  Se le tagli finemente ne vengono di più”. - fu la secca replica.

Ricordo che i clienti erano in maggioranza “abbonati”. Alcuni pagavano a fine mese e con 25 piastre avevano diritto ad un primo, un secondo con contorno. Un piccolo extra per un quartino “della casa”. Se sceglievano la specialità del giorno, venivano loro addebitate altre 4 piastre. Molto di più se desideravano altro tipo di vino. Ma il quartino “di serie” era dell’ottimo Ruber Afer. Fra i numerosi “abbonati” molti erano “importati”: i famosi tecnici, insegnanti, operai specializzati che venivano dall’Italia con contratto temporaneo di lavoro ma che finivano per rimanere anche diversi anni. Costoro elogiavano in maniera perfino imbarazzante la bontà delle verdure e degli ortaggi di produzione locale. Ne ero molto contento come se quelle verdure ed ortaggi li avessi seminati io, innaffiati, curati e quindi portati dall’orto direttamente al “Romagna” mentre mi limitavo semplicemente a tagliarli cercando di tirare in tempo indietro le dita della mano sinistra.

Poi iniziai anche a “battere” a macchina il menù cercando di interpretare l’orribile calligrafia dell’irascibile cuoco. Ne servivano sei copie. La prima volta misi la carta carbone all’incontrario e senza accorgermene infilai i singoli menù nelle relative custodie in pelle. Dovetti poi rifare, in tutta fretta, il tutto a mano perché la mia scienza dattilografica si limitava al solo indice destro e avrei impiegato mezz’ora a ribattere il menù. Di recente, in un ristorante di “grido” mi hanno presentato un menù scritto a mano: faceva molto “chic” ma fece molto “choc” quando, allora, Gabrini si accorse del menù scritto alla rovescia. Me ne disse tante ma tante. Ma in romagnolo, e posso dire che non è poi una grave mancanza non capire i dialetti.

Altro pasticcio qualche settimana dopo. Il menù, tra i vari contorni, prevedeva “fagiolini all’agro” e subito al rigo successivo “piccole bietole saltate in olio ed aglio”. Per errore invertii i due modi di condimento: “fagiolini saltati in olio ed aglio” e le “piccole bietole” divennero “all’agro”. Il menu variava ogni giorno ma si ripeteva ogni settimana per cui i camerieri avevano un loro linguaggio nel passare le ordinazioni alla cucina per cui “una Milano” corrispondeva  nel menù alla cotoletta alla milanese, “una inglese macchiata” era il riso all’inglese con al centro poco sugo di pomodoro, “una Bologna” erano le tagliatelle alla bolognese e così via. Ogni singola portata del menù aveva un nomignolo usato da camerieri e cuoco ed i piatti venivano ordinati “alle grida”. Si trovarono, così, spiazzati, non avendo ancora creato il nomignolo adatto ed, inizialmente, passavano l’ordinazione così com’era sul menù. I clienti, a loro volta, quasi tutti abituali avevano ritenuto una novità i “fagiolini saltati” e quindi era il contorno più gettonato. Ma alla terza ordinazione ed alla scoperta dell’autore dell’errore, l’irascibile cuoco si fece sentire non solo da me ma da tutti gli abitanti della Galleria. Altro invito a stare più attento da parte di Gabrini sempre ringhiando ma sempre in romagnolo, dialetto a me incomprensibile. Mi stavo dimenticando del primo giorno da “cassiere”. Nel piattino che mi fu presentato dal cameriere c’era il conto e una sterlina libica. Il conto si aggirava sulle 48 – 49 piastre. Nel dare il resto non usai spiccioli più una mezza sterlina di carta, così com’era logico, ma tutti spicci: 52 o 51 piastre tutte in monete. Gabrini credendo fosse una esplicita richiesta del cameriere onde ottenere più mancia, se la prese con il cameriere. Alcuni minuti e tutti e due se la presero con me. Ci fu così una miscela di dialetti.

Ma fu l’ultima “ramanzina”. Involontariamente (si fa per dire) avevo sentito un discorso tra Gabrini e un’altra persona. C’era un piccolo problema che poteva essere risolto facilmente da un altro signore che, menzionato, risultò essere il padre di un mio grande amico. Di mia iniziativa, parlai del problemino con il mio amico che ne parlò a suo padre e tutto si risolse nel migliore dei modi. Gabrini lo seppe ma non mi ringraziò mai ma da quel momento potei iniziare a capire il romagnolo perché gli erroracci venivano quasi sempre perdonati.

Un giorno tra i clienti, ci fu un quartetto di “senza fondo”. Avevano mangiato una quantità incredibile di cibo. Ne era nata una discussione che sfociò in una scommessa: i quattro “mangioni” decisero di sfidarsi in una gara … “all’ultimo piatto”. Il vincente sarebbe stato, nel pagamento del conto, ospite dei tre perdenti. La sfida era fissata per la sera successiva a chiusura locale: ore 22.00 circa. Volevo essere presente e Gabrini me lo concesse. Non me ne vogliano gli interessati o i parenti se menziono i nomi. Non credo ci sia alcunché di sconveniente.

Puntualmente, alle 22.00, si accomodarono i Signori: Ascione, Bardi, Baroni e  Sbolgi. All’allibito cameriere in attesa dell’ordinazione, dissero di non preoccuparsi e di portare tutte le portate previste sul menù. Per la cronaca, 4 antipasti, 4 primi, 4 secondi, 4 contorni, frutta di stagione, zuppa inglese, caffè. Quando il cameriere servì i rigatoni al ragù, si accese una grande discussione perché secondo Baroni le quantità non erano uguali come avrebbero dovuto essere secondo gli accordi della gara. Intervenne Gabrini ricordando al cameriere che si trattava di una gara nella quale vincitore sarebbe stato chi avrebbe mangiato più “portate” e quindi le quantità dovevano essere uguali per non favorire uno a scapito degli altri. Gabrini allibì quando si rese conto che Baroni non protestava perché nel suo piatto c’era più “pasta” che nei piatti dei suoi “avversari” ma, al contrario, si lamentava perché nel piatto di Bardi c’erano 4 rigatoni in più del suo e lo riteneva un’ingiustizia!

Stava portando la frutta il cameriere, quando Bardi lo fermò con un cenno della mano dicendo: “Scusa, ma non potrei avere una frittatina di dodici uova?”.

Gabrini non poté trattenersi e cominciò ad inveire in romagnolo. Quella volta ho capito tutto ma non posso trascriverlo!

 

(1) Tarabish, in arabo, è il plurale di tarbush il classico copricapo alla turca chiamato altrimenti fez. Alle riunioni ufficiali, le persone importanti si presentavano tutti in doppio petto con il tarbush in testa. Il popolino ha così coniato il termine “i tarabish” per indicare il nostro “i pezzi grossi”.

Roberto Longo

Pubblicato sul notiziario “l’Oasi” nel Numero 2/2006 – Maggio - Agosto 2006