La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

A ... ma'... arcord

di   Roberto Longo

Fellini era un  genio. Ma era anche buono. Confidando in questa sua virtù, mi sono permesso di usare il titolo di un suo capolavoro per rinverdire alcuni ricordi di gioventù. Ma siccome anche la decenza ha i suoi limiti, non ho osato riportare esattamente il titolo del suo film. Ne ho cambiato un po’ la trascrizione.

Tutta colpa di un disco: un vecchio 45 giri che, nella sua leggera custodia di carta, stava in fondo ad un cartone dove c’era un po’ di tutto, in perfetto disordine. È strano come un motivetto, una canzone, riescano a farmi tornare, con la mente, al passato, più di quanto possano fare una vecchia fotografia, un filmino, un incontro con vecchi amici. E la stranezza va ricercata nel fatto che io sia completamente sprovvisto di “orecchio musicale”. Una delle professioni a cui non avrei mai potuto ambire, è proprio quella del musicista seguita, per analogia, da quella del ballerino. Ricordo che dopo molti “corsi” ero riuscito ad imparare “i passi” e le “figure”di alcuni balli. Ma, in sala, per me, il difficile, era capire se si trattava di fox-trot, di valzer, di cha-cha-cha  o altro. Speravo sempre che il pianista, prima di iniziare “un pezzo” declamasse: ... “ed ora un valzer ... una mazurca ecc. ecc.”. Ed allora, conoscendo passi e figure, partivo “in quarta”. Mantenere il tempo, però, era un’opzione. L’ultimo mio insegnante di ballo, al quale avevo chiesto: “Maestro, questo che tempo è?”, fra i denti mi rispose: “È tempo perso”. Chiunque avrebbe appeso le scarpe col tacco tattico al classico “chiodo“. Ma io sono tenace e, sopratutto, dotato di discreta “faccia tosta”.

Negli anni cinquanta-primissimi anni sessanta, il Circolo Italia, con i suoi matinée (18,00-21,00 tutte le domeniche), con i veglioni di carnevale e di capodanno, deteneva l’esclusiva, per continuità, degli intrattenimenti danzanti. Tavoli e sedie, addossati alle pareti della grande sala-teatro, ospitavano genitori e figlie. I ragazzi gironzolavano per la sala e, al primo stacco musicale, piombavano come avvoltoi ad invitare le ragazze. Il cenno favorevole del padre, dava l’avvio alla danza. Ma doveva essere “una tantum” perché il bis destava sospetti per cui la dama era costretta a rispondere che era ... stanca. I giorni successivi alla domenica servivano alle dame per recuperare l’uso del  braccio destro reso  dolorante dall’anchilosi causata dalla posizione ad angolo acuto per tenere a bada il “cavaliere” durante il ballo. Ai “cavalieri”, dopo qualche giorno, spariva il livido che il gomito della dama causava all’altezza del cuore. Andava meglio ai fidanzati, ma solo se fidanzati “ufficialmente” quando cioè il fidanzato era stato accettato dai genitori della ragazza e dopo che c’era stato lo scambio di anello di fidanzamento: primo anello di una catena che, a quei tempi ed in quei luoghi, molto raramente si sarebbe poi spezzata. Allora il “braccio ingessato” cadeva, le danze erano più “ravvicinate” ma nulla più. Ai fidanzati era anche concessa la passeggiata domenicale per il Lungomare ma alle condizioni e regole ironizzate poi, da Carosone, che, attento ai costumi, avrebbe contribuito al successo della canzone di Modugno e Pazzaglia:  “Io, mammata e tu”.

Nei periodi estivi, in alternativa, ma sempre secondo le regole su citate, la “Sirenetta”. Un simpatico locale sullo splendido lungomare al disotto della balaustra, dei lampioni e delle palme, in riva al mare. Non era certo la “rotonda sul mare” di Fred Bongusto, ma c’era sempre “un’orchestrina che suonava”. Nella pausa che l’orchestra si concedeva, uno spettacolino a base di quiz a premi, arricchiva la serata.

Mentre il “Circolo Italia” garantiva la continuità, sporadicamente venivano organizzate serate danzanti dai club degli scooteristi, dal Malta House, dai gestori delle spiagge. Ore indimenticabili durante le quali, spesso, veniva eletta la “Miss” della serata. Altre serate a tema, oltre ai vari veglioni, ottenevano successo e consensi tanto che se ne riparlava nei giorni successivi. A movimentare le danze, anche “la cartolinata”. Era un modo di eleggere la “Miss”, la più bella della serata. È superfluo ricordarne le modalità. Comunque i baldi cavalieri dovevano acquistare delle cartoline. Consegnando una di queste alla dama prescelta,  ottenevano in cambio un ballo ma, nel corso di detto ballo, se un altro cavaliere interveniva con un’altra cartolina, la dama passava di mano a meno che, il precedente, non donava immediatamente un’altra cartolina alla sua bella. Ovvio che, al termine stabilito, la dama che aveva ottenuto più cartoline otteneva premi e titolo di reginetta. Altre volte, ma per un numero limitato di coppie: “il ballo della scopa”. Anche questo gioco molto popolare. Tutti accoppiati i partecipanti, tranne uno che per dama aveva una scopa. Iniziavano le danze, i cavalieri ballavano con le loro dame, un jolly con la sua scopa. Ma immediatamente, il jolly passava la scopa ad un cavaliere rilevandone la dama. Questi, a sua volta, faceva altrettanto con altro cavaliere, ma mai con il jolly, e così via. Di colpo, però, la musica si fermava ed il cavaliere che in quel momento aveva la scopa, veniva eliminato insieme alla sua incolpevole dama iniziale. Si riformavano le coppie dell’inizio gara, un jolly prendeva la scopa e la gara continuava finché non rimaneva una sola coppia che si aggiudicava il trofeo in palio. Altro gioco, di cui rivendico la paternità: il “Disco-out”. Le coppie, che desideravano partecipare, dovevano acquistare un  disco di cartone con su scritto il titolo di una canzone. In un’urna venivano inseriti tutti i titoli corrispondenti ai dischi consegnati. Veniva estratto dal presentatore un titolo dall’urna e veniva consegnato al capo orchestra, in tutta segretezza. L’orchestra eseguiva il “pezzo” che veniva ballato da tutti i partecipanti. Ma al termine, la coppia che aveva il disco di cartone riportante il “pezzo” eseguito, veniva eliminata. Quindi altra estrazione e così via fino all’eliminazione di tutti i concorrenti, tranne uno, che si aggiudicava la gara.

Eravamo tutti entusiasti della musica americana o che comunque arrivava dall’America via Radio del Wheelus Field. Sopratutto le ragazze. C’era una trasmissione musicale con dediche. La sigla era “Dedicado” ed appena iniziava il programma, molte ragazze, mento sulle mani intrecciate, gomiti sul tavolo, occhi sognanti, fissavano la radio, canticchiando il motivo che veniva trasmesso. Noi, cercavamo di imitare gli americani. Nell’abbigliamento, con “jeans” attillati prima, a zampa di elefante poi, e capelli a spazzola. Poi la camicia a maniche corte con i bordi rivoltati all’insù. Il colletto rialzato sul retro. In Lambretta, il piedino sinistro, appena sul bordo della predella, con la punta rivolta verso il basso.

Complice determinante, la scoperta e l’inizio dell’estrazione del petrolio, gli anni sessanta furono “favolosi” anche per noi. L’apertura di nuovi locali, di nuovi ristoranti, di alcuni night club, e sopratutto la nuova gestione dell’Uaddan, resero più “dolce la vita“ (ed anche in questo caso approfitto della bontà di Fellini).

Tripoli  anni '60 - Casino Municipale Uaddan

Il gruppo Ngà, aveva trasformato un locale ormai “in discesa libera” in un complesso comprendente un albergo di lusso, un ottimo ristorante, dove spesso la cena era allietata da spettacoli con vedettes internazionali, una sala da gioco, che offriva tutte le attività proprie di un casinò di prim’ordine, un cine-teatro, una piscina. Anche in Italia, non credo esista un locale come l’Uaddan ovviamente inteso non come solo albergo, ma nel suo complesso.

È in quegli anni, che abbiamo iniziato ad apprezzare i cantanti italiani sopratutto perché, i nuovi, avevano abbandonato il genere melenso per quello brioso, brillante, “urlato”.

Senza nulla togliere agli altri locali, dell’Uaddan conservo un bel ricordo ed un grande rimpianto. Tranne per la sala da gioco, “visitata” soltanto quattro volte, perché dopo, mentre lavoravo, mentre mangiavo, mentre cercavo di dormire, mi sembrava di vedere continuamente la “pallina” che girava sui numeri rossi neri. (Capii che dovevo pensare ad altro). Nel cine-teatro, su comode poltrone, abbiamo visto anche  film di  prima visione nonché  l’esibizione di alcune Compagnie di teatro italiane tra le quali quella dialettale di Nino Taranto. Nel ristorante, completamente rinnovato, grandi tavolate con familiari ed amici. Quasi un appuntamento fisso, per supplire alla rinuncia al casinò, la partecipazione al bingo che metteva in palio premi interessanti. Purtroppo ho sempre applaudito altri. Spesso la Direzione presentava la serata con cena-spettacolo. Vennero i “Brutos”, l’incomparabile Mina, Peppino di Capri, Rita Pavone, il grande Modugno e tanti altri. Piacevolissimi anche i veglioni. Indimenticabile quel Martedì Grasso quando, a scegliere la maschera più bella ed originale, fu chiamata una giuria di eccezione presieduta da John Wayne  con la partecipazione di tutto il cast del film “Timbuctu”. Già, perché in quegli anni, se ricordo bene, furono girati in Libia tre film. Quello ricordato, poi la “Tenda rossa” e “Birra ghiacciata ad Alessandria”. Quest’ultimo con finale in Piazza Cattedrale sotto le arcate del Palazzo INPS. Il protagonista (era un film di guerra), si godeva finalmente la tanto desiderata birra ghiacciata (nello stesso bar dove spesso con i miei amici gustavo “la spina” con le “chips” prodotte dall’Indolibia).  

Venne anche Claudio Villa, ma al Teatro Miramare. Nonostante il suo genere musicale fosse, a torto, non apprezzato da noi giovani, ebbe un grandissimo successo. Ci furono sfilate di alta moda. Al cinema-teatro Alhambra, venne anche la Rai presentando il Festival di Primavera, uno spettacolo completo, con la partecipazione dei “grandi” del momento. Un nome su tutti: Mike Bongiorno. Compagnie di prosa con Boselli, Quattrini ed altre attrici ed attori famosi, si esibirono anche sul palcoscenico del citato Circolo Italia. Sempre grande successo di pubblico. Tuttavia, mi viene in mente un aneddoto. Eravamo abituati a show dove, oltre alle esibizioni di cantanti, venivano presentati sketch, brani musicali, spettacoli di varietà ecc. Una volta, invece, si esibì, sempre al  teatro Alhambra, un solo cantante accompagnato da una mini-orchestra. Un “concerto” come quelli che, attualmente, riempiono addirittura gli stadi. Ma allora i gusti erano diversi. La fama del cantante aveva fatto riempire la grande sala del teatro. La mancanza però di “numeri” alternativi, aveva fatto scivolare la “performance” in monotonia tanto che, dopo le prime canzoni, un terzo degli spettatori aveva abbandonato alla chetichella la sala. E, ad ogni altra canzone, il pubblico, deluso dalla mancanza di sketch o altri “numeri”, si assottigliava sempre più. Io resistetti per una mezz’ora, poi, annaspando al buio tra le pesanti e voluminose tende rosse che coprivano le porte, fortunatamente “uscii a riveder le stelle”.  Pare … che l’ultimo spettatore, d’accordo con il gestore del teatro, si fosse avvicinato al proscenio ed avesse sussurrato al cantante: “Guardi, noi ce ne andiamo, qui ci sono le chiavi del teatro ... Lei vada pure avanti ... quando finisce ... chiuda per bene e metta la chiave sotto lo zerbino!!!

Non mancavano gli avvenimenti sportivi, talvolta con partecipazione di squadre europee. Calcio, (venne il Catania, il Palermo, il Kapfenberg), pallacanestro, pugilato, nuoto, atletica, tiro al piattello, nonché la scherma, per pochi cultori. “Speed-way” sulla carbonella del Molo Sottoflutto e gare di regolarità degli scooteristi, negli anni cinquanta. Da non dimenticare il ciclismo. Si svolgevano regolari campionati sia su pista che su strada nonché il “Giro della Tripolitania”. Volutamente, per timore di dimenticarne qualcuno, non ho citato gli atleti ed i tecnici più famosi. Ma parlando di ciclismo non posso non citare Guido Costa il Tripolino che si fece tanto onore diventando C.T. dell’Italia. Caccia, pesca d’altura e pesca subacquea erano attività (non ritengo possano chiamarsi sport) che vantavano molti proseliti. Per tutti, poi, gli stabilimenti balneari: Lido nuovo, Lido vecchio, Bagni sulfurei, Beach club, Underwater club, Giorgimpopoli, Gargaresh. Per i più esigenti: il settimo, il quattordicesimo, il ventunesimo. Tutti riferimenti al chilometro stradale dove si trovavano spiagge esclusive. Ma ce n’erano per tutti: la Libia dispone di duemila chilometri di spiagge. Vicino Tagiura, una spiaggetta con palme alle spalle: sembrava essere alle Hawaii. E poi, c’era l’appuntamento annuale con la Fiera e con la nave da crociera jugoslava: la “Jedinsvo”. Nelle due/tre sere che rimaneva a banchina, si poteva cenare nella sala ristorante dei croceristi, assistere ad alcune performance dell’equipaggio e ballare con musica dal vivo. La cena? Molto meglio al “Cigno”, alle “Lanterne”, al “Romagna”, ma era bella, la novità. 

Tornando agli anni cinquanta, noi ragazzi non “sognavamo California” come i “Dik Dik” ma due erano i “pallini”: La Lambretta o Vespa e la ragazza. Lo scooter nuovo o di seconda mano era abbastanza raggiungibile. Qualche leggera difficoltà in più per l’altro desiderio.    

C’erano, ovviamente ed in perfetta clandestinità, i “filarini” soprattutto fra studenti. La scuola era forse il solo luogo, insieme alla spiaggia, che facilitava gli incontri. Ma le ragazze aspiravano ai “grandi” delle ultime classi e noi sedicenni non potevamo certo “abbordare” le ragazzine delle elementari! Quando poi durante le festività, tornavano dall’Italia gli “universitari”, non c’era più concorrenza, ma regime di stretto monopolio.

Si diceva: “Vedi quella la?”. “Ha il “pollo”. Non ho mai capito se l’epiteto offensivo nascondesse pura invidia verso “il pollo” o fosse una citazione pietosa, tenendo conto che, prima o poi, detti pennuti sarebbero finiti in padella.

Qualche anno dopo, una grande ondata di modernità. Forse con la complicità del benessere petrolifero, tutto cambiò repentinamente. Molte più libertà erano permesse dai nuovi costumi. Alcune feste da ballo venivano organizzate in case private, benevolmente concesse da mamme progressiste, ma non tanto. L’iniziativa era di pochi volenterosi: uno era un certo Gaspare (niente cognome per il rispetto della privacy). Erano destinate al “giro” studentesco. La pila di libri accatastata in un angolo, era la prova delle bugie: stranamente quel pomeriggio a tutte le studentesse presenti, era venuta la voglia di fare i compiti a casa di Maria, di Giulia, di Marisa  ecc. ecc. Con dieci piastre, Gaspare metteva a disposizione un panino con la mortadella ed una bibita. Spesso saltava fuori anche qualche bottiglia di whisky. Ognuno portava qualche disco per arricchire la collezione dell’ospitante. Ma c’era poca varietà ed a me non serviva indovinare “il tempo”: erano tutti super lenti. Ognuno si sceglieva la mattonella privata e ci ballava su per tutto il pomeriggio, col rischio di logorarla. Per evitare sovraccarichi e rischi di black-out, qualcuno pensava di ... risparmiare energia elettrica, ma la “progressista” interveniva con un perentorio: “Diego ... ’aa ... luci!!...”

Per la precisione, tutto quanto su citato riguardava il ceto medio-basso al quale appartenevo ed appartengo. Io non frequentavo l’High Society. Ritengo facessero di meglio perché le uniche due manifestazioni cui ho partecipato, in veste di spettatore, mi avevano entusiasmato. La prima, un defilè di moda sul Lungomare. Sfavillanti automobili salivano su una larga pedana in legno sopraelevata. Una graziosa “valletta”, apriva lo sportello lato passeggero. Una ragazza tanto bella quanto elegante faceva il giro intorno all’auto, quindi risaliva tra gli applausi. L’auto ripartiva per cedere il posto a quella che seguiva. Una bella manifestazione. La seconda, una kermesse organizzata nel salone del Circolo Italia, dove il “bel mondo”si alternava alle bancarelle vendendo, a scopo benefico, degli oggettini di una certa raffinatezza. 

A proposito di moda, ricordo che quella di allora, prevedeva, per le ragazze, gonne a campana tanto ampie che, la confezione, richiedeva un’intera “pezza”. A gettare sul lastrico i negozianti di tessuti, ci pensò Mary Quant: con un metro, altezza 120, se ne facevano tre.

Un rebus, mai risolto era quello delle domeniche mattina. La mia Chiesa era la Madonna della Guardia in Corso Sicilia, ma la domenica preferivo la Cattedrale nella piazza omonima. Alla fine della Messa, la maggioranza degli uomini di media età, tutti rigorosamente in abito scuro e cravatta, provvedevano all’acquisto di due cose: una guantiera di paste ed il giornale. Per quanto riguarda le paste, il loro acquisto non doveva ritenersi un’offesa fatta alle rispettive pasticcere-consorti, ma una cortesia perché non faticassero anche la domenica. E la cosa era comprensibile. Ma il motivo dell’acquisto del “Corriere di Tripoli” solo la domenica era, per me, un rebus. Il “Corriere” era un quotidiano e non riportava, la domenica, il riassunto delle “puntate precedenti”. Evidentemente, costoro, ritenevano che durante la settimana non succedeva niente e che soltanto il sabato si scatenavano gli avvenimenti. Felici, tornavano a casa. Nella mano sinistra il fiocchetto che teneva sospesa la confezione delle paste, il giornale sottobraccio destro. Agli inizi dei “cinquanta”, un altro appuntamento fisso era, per me, il film-matiné, al Cinema Alhambra, la domenica. Anche in questo caso, preferivo i film americani. Non essendo critico d’arte, ma solo sprovveduto spettatore, ero stufo di vedere  film di produzione italiana dove la miseria era sempre protagonista insieme al solito bambino sul vasetto nonché la solita “sedotta e abbandonata” oppure la moglie ritenuta fedigrafa a torto e quindi, riabilitata tra le lacrime, per il lieto fine. Tuttavia qualche volta, insieme ad un gruppetto poco raccomandabile, andavo di proposito ad assistere a tali film. Prendevamo posto nell’ultima fila, pronti a repentina fuga, e sacrificando l’intera paghetta settimanale: la sera il biglietto era molto più caro. Quando i fazzoletti cominciavano ad inumidirsi, quando sentivamo i nasi che “tiravano su”, quando le vecchiette indirizzavano tra i denti ingiurie al cattivo ... “disgraziato ... maledetto” oppure suggerimenti “guarda che non è vero ... lei è innocente!” e dolci parole alla “ingiustamente ritenuta fedigrafa”: ... “poverina, coraggio ... ma diglielo che non è vero!”. Quando la storia era al culmine del pathos ed il silenzio in sala era rotto da disperati singhiozzi, da quell’ultima fila partiva una irriguardosa, fragorosa risata. Ci divertivamo con poco. Del resto, tornando con la mente all’immediato dopoguerra, i nostri giocattoli erano di una modestia estrema. Un vecchio cerchione di bicicletta privo di raggi ed un pezzo di legno per governarlo, erano sufficienti per appassionanti gare. Poi si giocava a … baseball: un pezzo di legno di dieci/dodici centimetri veniva appuntito alle due estremità e veniva collocato a terra sul “campo di gara”. Con un altro legno si colpiva una prima volta una delle due parti appuntite e quando il legnetto  balzava in alto, con lo stesso legno lo si colpiva una seconda volta con veemenza. Una specie di “baseball”. Poi c’era lo scambio di figurine. Siccome passavano di mano in mano con velocità, e siccome le manine non erano proprio candide, le “contrattazioni” venivano presto sospese perché dopo molti passaggi, le figurine, sembravano tutte uguali.

La guerra aveva lasciato tante carcasse e da queste, mani esperte, avevano estratto cuscinetti a sfere di diverse dimensioni. Essi erano il materiale indispensabile per la costruzione di carretti in legno, per gare di alta velocità. Una tavoletta di circa cm. 40x60, un asse in legno inchiodato sotto, nel retro, alle cui estremità venivano montati due cuscinetti a sfere. Il manubrio sempre in legno, sotto, nella parte anteriore e, al cui centro, veniva montato, con un piccolo lavoro di ingegnosa falegnameria, un unico cuscinetto tassativamente più grande dei due montati sul retro. Con più o meno la stessa tecnica, il monopattino, per i più fortunati, perché la costruzione richiedeva anche  supporti e staffe in ferro non facilmente reperibili. Come gioco “sedentario” c’erano le boccette. Erano in terracotta rossastra e le chiamavamo “picce”. Uno di noi era specialista in costruzione di piste. Quindi gare a non finire fin quando non arrivava l’ordine di rientrare per “fare i compiti”. Qualsiasi terreno, poteva trasformarsi in pochi minuti in campo di calcio. Giubbotti e scarpe (giocavamo scalzi) servivano per delineare “i pali” mentre per la “traversa” in caso di “palloni” alti,  il tutto era lasciato ad accese discussioni. Un ciclista riusciva a fabbricare delle palle incollando, col mastice, quattro spicchi di gomma ricavati da camere d’aria di camion. Non so come facesse ad immettervi l’aria, ma so che duravano a male pena una partita. Dal buco creato dai calcioni, inserivamo degli stracci a pezzetti. Si otteneva una palla molto dura da calciare al punto che se, per errore, si prendeva una pietra, non si notava tanto la differenza. E si giocava scalzi perché le scarpe erano uniche, per tutte le stagioni e, risuolate, sarebbero passate ai fratelli più piccoli. Poi c’era il “gioco d’azzardo“. Si lanciava una moneta contro un muro con lo scopo di farla “atterrare” sulla moneta dell’avversario. In caso di successo la moneta avversaria era appannaggio del lanciatore. In caso contrario, era l’avversario che la lanciava e così via. Poiché le monete erano molto scarse nelle nostre tasche, per vincere un Mal (la lira aveva lasciato il posto a questa moneta) bisognava conseguire almeno dieci lanci utili.

Infine c’era la mitica “zarbuta”. Un trottolino di legno colorato sul quale veniva avvolto uno spago. Si prendeva l’estremità dello spago e si lanciava la zarbuta con violenza. Quindi, mentre roteava, bisognava prenderla sul palmo della mano e, prima che esaurisse la sua roteazione, bisognava colpire quella avversaria fino a farle oltrepassare una riga tracciata sul terreno. Alla zarbuta perdente venivano inferti, con il chiodo-perno, su cui essa roteava, tanti colpi, quanti se ne erano stabiliti. Con più sconfitte, la zarbuta veniva spaccata in due. Al “chiuso”, giocavamo ad una specie di calcio da tavolo. Gli undici giocatori erano altrettanti tappi a corona. La palla veniva “passata” a colpi di  dito medio e le regole erano quelle del vero gioco. Il mio undici era formato da tappi di Kitty Cola. Le ragazze (le femmine secondo noi), saltavano su una corda fatta roteare da altre due, intonando cantilene. Altre, rigavano il terreno con un sasso appuntito ricavando una grossa croce divisa in quadrati. Poi lanciavano su questi una pietra e saltellavano … brontolando qualcosa. Dicevano di giocare a “carrè”. La maggioranza, però, giocava “alle signore”. Alcune avevano bambole che dovevano sembrare bambini. Altre, avevano degli stracci che dovevano sembrare bambole che dovevano sembrare bambini. Appena ci avvicinavamo smettevano di parlare, ma qualche volta, furtivamente, ho captato qualcosa. Erano sempre le stesse frasi. Innanzi tutto si atteggiavano a mamme tutte compite, tutte serie poi “Signora, anche la sua è cattiva?” “Signora, non me ne parli! La mia è capricciosa, certe volte insopportabile, guardi ha già iniziato a piangere!” Poi  passavano a “Signora, lo prende un tè?” Il tutto poi, siccome non c’erano né tè, né tazzine, veniva mimato con estrema cura.

Alla fine degli anni cinquanta, arrivarono i calcio balilla ed i flipper. Credo che l’unica utilità di quest’ultimi sia stato il coniare il termine “tilt” che nel linguaggio comune significa perdere momentaneamente coscienza in seguito a scombussolamenti. Arrivarono i jukebox ed arrivò il 27 dicembre del 1959 che, per me, era il conseguimento dei famosi ventuno anni tanto attesi. Era la maggiore età, allora. Sembrava non arrivassero mai. Chissà che cosa pensavo di fare! Invece non ho fatto niente di eccezionale e da allora il tempo è passato troppo velocemente lasciando il rimpianto per le cose che avrei potuto fare e che non ho fatto. Negli anni dell’immediato dopoguerra ed i “cinquanta”, avevamo molto poco, quasi niente. Ma eravamo contenti lo stesso. Perché avevamo quel bene che si può godere una sola volta cioè la gioventù o perché, forse, il mondo, a guerra e dittature finite, era migliore. O tutte e due le cose.

Ripensando a quei tempi andati, continuavo a girare e rigirare, tra le mani, il vecchio 45 giri. Poi ho avviato l’altrettanto vecchio giradischi.

Era “Cherry Pink and Apple Blossom White” il “Ciliegi rosa” di Perez Prado, il re del Mambo.

Roberto Longo

 (Pubblicato sulla rivista “l’oasi” nel Numero1/2005 - Gennaio – Aprile 2005)