La stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Il piccolo Hakim

di   Roberto Longo

La distanza non era eccessiva. Tuttavia, per percorrere quella novantina di chilometri, erano necessarie almeno due ore. A queste bisognava aggiungere anche il tempo per la sosta ad El-Azizìya, ufficialmente ... per “far raffreddare il motore”. Se poi Said incontrava il suo compaesano berbero, allora la sosta si prolungava oltre l’ora perché il motore diventava, improvvisamente, “molto, molto caldo”. Said guidava, devo dire abbastanza bene, un autocarro di fabbricazione inglese che aveva senz’altro conosciuto tempi migliori ed era l’autista del Commissariato. Siccome mio padre lavorava anch’egli nel medesimo Commissariato, avevo facoltà di ottenere “il passaggio” ogni volta se ne presentasse l’occasione. A Ghariàn, dove abitavamo dopo due anni trascorsi a Nalùt (1946 - 1948), non c’erano le scuole medie per cui, per il periodo scolastico, mi trasferivo a Tripoli, ospite dei miei zii. Quando Said riceveva disposizioni di recarsi a Tripoli, passava da casa e mi comunicava ora e giorno previsti per il suo viaggio di ritorno: se i due giorni successivi coincidevano con festività scolastiche o c’erano interrogazioni da evitare, approfittavo del passaggio per andare a trovare i miei genitori. Circostanza che si verificò anche nel febbraio del 1951.

Lasciata Tripoli alle spalle (nel vero senso della parola perché la direzione era proprio verso Sud), dopo una quarantina di chilometri si arrivava ad El-Azizìya. Quindi la strada  affrontava la Gefàra, anticamera del deserto, e si biforcava: a destra per Giado, Tigi e Nalùt; a sinistra, per Ghariàn.

Ghariàn

Avevo fatto troppe volte quel percorso perché il paesaggio potesse interessarmi, ma quando la strada iniziava a salire per il “ciglione” (così chiamavamo la serie di tornanti che bisognava affrontare per raggiungere gli 800 metri d’altezza nel Gebèl Nefùsa), mi affacciavo dal finestrino. Non per paura del modo con cui l’amico Said affrontava le curve ma perché sentivo l’aria di casa: di lì a poco avrei rivisto i miei familiari e tutti gli amici. Il paesaggio alternava tratti brulli a piccoli avvallamenti pieni di ulivi. Ulivi secolari con  tronchi enormi che avevano grandi buchi. Alcune piante avevano  forme contorte. Di notte, con un po’ di fantasia, potevano sembrare degli orchi, dei giganti. Ricordo che, la prima volta che mi dissero che alcuni di essi potevano avere più di mille anni, pensai che mi prendessero in giro. Ma quando vidi crescere di solo mezzo centimetro in un anno l’ulivo che avevo piantato nel giardinetto di casa mia, decisi che, quegli ulivi, di anni, ne dovevano avere almeno duemila.

Sapevo già, a quel punto, che i miei amici mi sarebbero venuti a cercare con la remota speranza di ritirare quanto ordinatomi in occasione dell’ultima partenza per Tripoli. Ovviamente si trattava di piccole cose del valore di pochi M.A.L. Il mal era la moneta di allora. Credo che fosse l’abbreviazione di Military Administration of Libya o di Military Administration Lires.

Fac-simile dei biglietti da 1 e 2  MAL

Per i Libici, però, lire italiane o mal erano comunque sempre “frank”. I mal rimasero in circolazione fino all’indipendenza della Libia (24-12-1951) quando vennero sostituiti dalla Jinì Ellibi, (Sterlina Libica) divisa in 100 ghersh (piastre) e 1000 millìm (millesimi). Ricordo che anche in quell’occasione l’arrotondamento fu causa di una catena di aumenti: un po’ come è accaduto di recente con l’Euro. L’Historia sarà anche magistra vitae, ma, come insegnante,  ha sempre lasciato alquanto a desiderare.

Gli amici sarebbero quindi venuti e la loro delusione si sarebbe subito trasformata in manifestazioni di scherno: mi avrebbero ironicamente chiesto se durante il viaggio di andata c’era stato … molto vento … rinfacciandomi che mi ero comportato come Jihé, personaggio protagonista di tante storielle comiche. Un tipo ritenuto stolto da tutti i suoi compaesani ma, in realtà, molto furbo. Sapevo già che, giustificazioni del tipo: ... “il viaggio non era programmato” ... “sarei dovuto venire per le vacanze di Pasqua”... ecc. ecc., non sarebbero servite a nulla. Già! mi ero comportato come Jihé.

Si racconta infatti che, una volta, essendosi sparsa la voce che Jihé stava per recarsi in città, tutti gli amici andassero a trovarlo a casa pregandolo di acquistare loro, oggetti non reperibili in paese. Jihè ascoltò tutti con attenzione quindi prese dei foglietti sui quali, per ciascuno di essi, scrisse nome ed oggetto che ogni amico desiderava. Quindi sul primo scrisse ... Alì, un falcetto; su altri foglietti ... Salah, un paio di sandali ... Khalifa, 10 metri di corda … Husein, un frustino … Omar invece gli disse: “Jihé comprami un bel gilet” e, nel finire la frase, gli mise in mano dei soldi che, all’epoca, erano costituiti da monete in metallo pesante. Quando Jihè tornò, tutti i suoi amici andarono a trovarlo per ritirare quanto ordinato. Jihé aveva portato soltanto il gilet ad Omar e niente agli altri. Tutti si sentirono offesi e dissero all’unisono: “Hai portato il gilet ad Omar perché ti aveva pagato in anticipo ma credevi forse che noi non avremmo fatto altrettanto alla consegna dei nostri articoli?”.

“Perché dovete sempre pensare  male!” rispose loro Jihé. “Mi sono semplicemente dimenticato!”.

“Ma che vai dicendo bugiardo ... hai annotato tutto sui foglietti!”.

“È vero ma voi non sapete come sono andati i fatti! A metà strada, ho deciso di fare una sosta perché ero stanco. Ho fatto accovacciare il dromedario e, non sapendo che cosa fare e desiderando ricordarmi di voi, cari amici, ho tirato fuori i bigliettini mettendoli in cerchio davanti a me. Alì vuole un falcetto, Salah, un paio di sandali, Khalifa una corda, Husein un frustino ed infine Omar un gilet. Ovviamente per ricordarmi chi aveva pagato e chi no, sul foglietto di Omar ho messo i suoi soldi. Mentre guardavo i foglietti davanti a me e mi venivano in mente i vostri cari volti, un’improvvisa folata di vento, portò via tutti i fogliettini. Tutti, tranne quello di Omar, trattenuto dalle monete. Soltanto per questo motivo, credetemi, che, arrivato in città, non mi sono più ricordato di voi ma soltanto di Omar il cui foglio mi era rimasto!”.

Il ricordo della storiella mi faceva sorridere mentre involontariamente me ne veniva in mente una simile: Solito Jihé e solita partenza per la città. Tutti gli amici intorno a chiedere tutta una serie di oggetti. Uno di essi, però, gli chiese di acquistargli uno zufolo e, nel finire la frase, gli diede i soldi. Jihé li prese e, davanti a tutti, gli disse “Enta tadker zammar min tawua” (più o meno: tu puoi già iniziare a suonare!).

Certo che avrei dovuto acquistare quelle piccole cose ai miei amici! Perché le famiglie di alcuni di essi, erano proprietarie di piccole hawazat (aziende agricole) con piante di fichi, mandorle e gelsi. Avevo libero accesso: potevo mangiare quanti frutti volessi senza, ovviamente, danneggiare le piante. I gelsi, bianchi e neri, non li voleva nessuno. Quindi, con la sola compagnia di piccoli uccelli che chiamavamo beccagelsi, facevo delle grandi scorpacciate. I fichi erano eccezionali. Le mandorle, invece, le mangiavo quando erano ancora verdi e pertanto non necessitavo di schiaccianoci. Una volta, purtroppo, persi l’equilibrio su una delle piante più belle. Per fortuna riuscii ad  agguantare un grosso ramo. La mossa mi evitò escoriazioni e forse fratture. Ma il ramo si ruppe e quindi  il libero accesso fu revocato con inevitabile  reazione a catena. Acquistando le piccole cose richieste, forse il divieto sarebbe stato rimosso.

C’era però un’ultima possibilità. Conoscevo un certo Hàsen, una frana come corridore ciclista ma imbattibile, purtroppo, con la zarbùta (un gioco con piccole trottole di legno: a chi perdeva veniva praticamente spaccata la trottola; credo di averne comprate una ventina).

Zarbùta

Il giocatore che riusciva a buttare la trottola dell’avversario oltre una linea tracciata sul terreno, aveva diritto ad infliggere una serie di colpi alla trottola perdente, spesso, riuscendo a spaccarla. Tale Hàsen mi aveva promesso che, in occasione del mio ritorno a Ghariàn, avrebbe chiesto a suo padre di dimenticare l’episodio del ramo in cambio dell’uso della mia bici in occasione della ormai tradizionale corsa ritenendo, i suoi insuccessi, causati dal suo mezzo meccanico. Mentre pensavo a questa ottima opportunità, mi accorsi che stavamo affrontando l’ultima salitella, che portava al centro della cittadina di Ghariàn. Quasi a metà di detta salita, sulla destra, vi era quella famosa ex-caserma dove un militare americano, Clifford Saber, aveva dipinto su di un muro la celebre Lady Garian. Per noi minorenni era il massimo soprattutto perché l’accesso ci era vietato. Non tanto per la famosa “Lady” quanto per altre due “vignette” dipinte sulle due pareti a lato. Per noi ragazzini erano quanto di più peccaminoso potesse esistere. Oggi le stesse farebbero ridere anche i più piccini. L’ingresso era incustodito, ma erano guai se le nostre visite clandestine arrivavano all’orecchio dei nostri genitori! Altri tempi!.

Lady Garian

Il militare, autore della famosa “Lady Garian”, aveva visto nel profilo geografico della Libia, il sinuoso corpo di una donna e, l’aver vinto, insieme ai suoi commilitoni la battaglia, gli aveva senz’altro dato l’orgoglio di aver conquistato quella bella donna, la quale aveva un’espressione felice nonostante tutti quei carri armati sul suo corpo.

Subito dopo la salita, sulla sinistra, il deposito del Monopolio Tabacchi. È qui che i coltivatori di Tigrinna dovevano obbligatoriamente  consegnare le foglie di tabacco già essiccate. Ricordo le contadine, sempre rigorosamente vestite di nero, che, davanti all’aia, infilzavano le foglie larghe e verdi con un ago lungo e piatto una specie di tagliatellina in acciaio alla cui cruna c’era uno spago robusto. Formavano lunghe strisce che mettevano ad essiccare al sole. Gli uomini che le avevano coltivate, le portavano appunto al Monopolio ricevendo un compenso che, secondo quanto dicevano, non sempre li ripagava delle fatiche.

La strada quindi attraversava tutta la cittadina. In fondo, un’ampia curva a sinistra portava ad una grande piazza in leggera pendenza. Alla sommità: la Chiesa, verso il fondo i giardini pubblici dove si fronteggiavano l’albergo ed il Commissariato. Abitavamo quasi di fronte alla Chiesa. La strada quindi riprendeva a salire per raggiungere Tigrinna e quindi Rumìa, Jefren nonché Giado e Nalùt. Su questa strada, sulla sinistra, a 200 metri da casa mia, abitavano i Signori Schifano. Il figlio che aveva un paio d’anni più di me, dipingeva. Non so se fosse lo stesso grande pittore recentemente scomparso a Roma. Se lo fosse, sarei felice di essere stato per quasi 4 anni compaesano di un così grande artista.

Per la verità, dietro la Chiesa abitava una mia coetanea che già allora aveva “struttura” e voce da soprano. Tempo fa ho letto di un soprano che porta lo stesso nome e cognome. Ovviamente lungi da me l’idea di fare apparire Ghariàn come cittadina di artisti! Probabilmente sono casi di omonimia.

Tornando agli amici, come al solito, non avevo acquistato nulla di quanto richiestomi e non perché avevo voluto fare il furbo come Jihé ma semplicemente perché, anche se si trattava di articoli da pochi mal, non avevo mai avuto che pochi spiccioli a disposizione. Tuttavia mi dispiaceva non aver accontentato il piccolo Hakìm.

Hakìm era un bambino di otto/nove anni esile, sempre triste, schivo, molto timido. Però era un bel bambino con degli occhioni neri tipici della razza mediterranea. Noi ci riunivamo, giocavamo a pallone o con la zarbùta ed Hakìm sempre in disparte con gli occhi bassi. Ogni volta che gli rivolgevo la parola, non rispondeva ed abbassava lo sguardo. Allora mi giravo verso gli altri e sentivo sempre la solita frase “Marid miskin, Hakìm marid” (È ammalato, poverino, Hakìm è ammalato”). L’ultima volta che lo avevo visto e tutti, come al solito, mi avevano chiesto di comprare in città una svariata gamma di oggetti, mi ero rivolto a lui: “Hakìm, tu non vuoi niente?”. Solito chinare della testolina e solito coro alle mie spalle: “Marid, meskìn, marid”. (è ammalato, poverino, è ammalato)

Ricordo che avevo fatto non più di una decina di passi verso casa, quando mi sentii tirare i pantaloni ed  una vocina alle spalle: “Rumi ... rumi” (Rumi sta per romano. Era un termine vagamente e blandamente canzonatorio per chiamare gli italiani. Io non me la “prendevo” affatto anche perché a mia volta … ) “Rumi”, Hakìm mi chiamava così. Ma gli altri storpiavano o il nome o il cognome: Lunco, Lungo, ’Mbertu, Rubertu, ecc- ecc.)

“Oh, Hakìm! Che c’é, che cosa vuoi?”.

“Voglio un fischietto, un fischietto come quello di ammi Abdalla”.

Avevo capito. Quello che Hakìm chiamava ammi Abdalla era un poliziotto. Durante i giorni di mercato o quando c’erano assembramenti, fischiava come un forsennato gesticolando con altrettanta veemenza. Riusciva, però, a stabilire l’ordine ed a farsi ubbidire. Il fischietto era trattenuto da un cordoncino che proveniva da sotto una spallina.

“Va bene Hakìm, la prossima volta che vengo te lo porto”. Era la prima volta che lo vedevo felice anche se la sua tunichetta, troppo larga per lui ed un po’ troppo logora, non possedeva spalline ed il fischietto non avrebbe potuto portarlo come il famoso “ammi Abdalla”

Adesso che ero ritornato, dovevo evitare di incontrarlo, non volevo dargli una delusione perché ovviamente, il fischietto non lo avevo acquistato.

Purtroppo il giorno dopo, incontrai il solito gruppo di amici e, sempre in disparte, sempre triste ed ammutolito Hakìm. Appena mi vide e sopratutto quando vide le mie mani vuote, sorprendendo tutti, mi chiese:

“Rumi mi hai portato il fischietto?”.

“Hakìm, mi dispiace ma ... sai, quando Said venne con la macchina, nel salutare i miei zii, devo aver appoggiato sul tavolo il tuo fischietto e, nella fretta, lo devo aver dimenticato”.  Si era rasserenato e mi chiese:

“Di che colore é?”.

“Verde, é bellissimo! é verde, non ti piace?”.

“Sì ma ti avevo detto come quello di ammi Abdalla … rosso!”.

“Meno male che l’ho dimenticato. È ancora incartato così come me lo ha dato il negoziante: non mi potrà dire che l’ho usato e sarà facile cambiarlo con uno rosso”.

“E … suona forte?”. 

“Suona forte? Prima che lo incartasse, l’ho provato. Bene: se ci “darai dentro” ti sentiranno fino a Tigrinna! Purtroppo tornerò fra quattro mesi ... quando finisce la scuola”.

Aveva assunto per la prima volta un’espressione soddisfatta. Si vedeva già con il fischietto e cordoncino addosso. Per lui, così timido e docile forse era un riscatto. Si sentiva già importante come ammi Abdalla, ritenendo fosse il fischietto a dare autorità e potere.

Era troppo felice, faceva tenerezza, non avrei potuto deluderlo. Decisi che, ad ogni costo, la volta successiva gli avrei portato il fischietto. La prima domenica tripolina, pensai, niente matinée al Cinema Alhambra. Niente “film di banditi” (come chiamavamo i films Western la cui fine ci dava la soddisfazione di udire gli squilli del trombettiere che annunciavano l’arrivo della cavalleria e quindi  a mettere in fuga “gli Indiani cattivi” oppure dove le pistolettate o cazzottate finali davano al “Giusto” “al Buono” il trionfo sul/sui “cattivi” ed a tutti noi, l’illusione che sarebbe stato così anche nella realtà di tutti i giorni). Avrei comprato subito il fischietto e lo avrei messo immediatamente in valigia.

Con questi propositi, salutai tutti e ritornai a casa. Dopo circa un’ora, un  bussare delicatamente alla porta. Fu un caso che udimmo quei tocchi. Andai ad aprire e subito Hakìm mi mise in mano un cartoccio. Incuriosito l’aprii e vidi che c’era una manciatina di datteri ma-agiun.

“Sono per te e tante grazie”.

“Hakìm, ma guarda che il fischietto è un regalo per te!”.

“Anche questi tamar ma-agiun sono un regalo ... non ti piacciono?”.

“I datteri pressati sono i miei preferiti”. Bugia colossale! Se le bugie avessero il naso lungo io sarei diventato un super Pinocchio.  I datteri raccolti poco prima della completa maturazione venivano pressati in grandi ceste del diametro di circa 80 cm. essiccati un po’ al sole. Stranamente non inacidivano, duravano a lungo, mantenevano tutte le proprietà del frutto ma purtroppo erano pieni di sabbia: praticamente  immangiabili). Non bisognava essere degli indovini per capire che quella manciata costituiva la cena del piccolo Hakìm. Ma se li avessi rifiutati con qualsiasi pretesto, lo avrei ferito moralmente e gli avrei fatto senz’altro più danno del lasciarlo a digiuno.

“E ... dimmi Rumi ... il cordoncino, com’é il cordoncino?”.

“Senti Hakìm, prima c’erano tutti gli altri e non ho potuto dirti tutto! Tu dovrai usare il tuo fischietto quando non c’é ammi Abdalla perché in caso contrario si vergognerà di averne uno inferiore al tuo!”.

Hakìm si sarebbe intrattenuto tutta la notte a parlare del fischietto ma l’indomani dovevo rientrare a Tripoli di buon’ora e quindi gli dissi:

“Adesso vai a casa che forse ti stanno cercando e ... ti raccomando ... allenati! Ti devono sentire tutti ...”.

 “Fino a Tigrinna?”.

 “Fino a Mizda Hakìm ... fino a Mizda”.

Se ne andò felicissimo.

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Arrivò la fine dell’anno scolastico e dell’ultimo viaggio “pendolare” per Ghariàn. L’anno successivo anche mio fratello avrebbe iniziato le Medie e dai miei zii non c’era posto per due. Ci saremmo trasferiti definitivamente a Tripoli. Avevo con me il famoso fischietto rosso con cordoncino.

Forse non possedeva tutte le virtù che avrebbero estasiato il piccolo Hakìm ma era un bel fischietto. Lo tenevo in tasca per osservare la sua espressione nel vedermi le mani vuote e quella  successiva quando dalla mia tasca sarebbe uscito il “suo sogno”. Di corsa andai nella piazzetta dove alla solita ora si radunava la comitiva. Ma stranamente Hakìm non c’era.

“E Hakìm dov’é? ... Dov’é Hakìm?”.

“Come non l’hai saputo? Hakìm era malato .... molto malato ... é morto ... miskin ... circa quindici giorni fa ... Sai Rumi .... ogni giorno chiedeva: “Rumi, é arrivato? Quando arriva Rumi?”. “

"Ma è vero che adesso vai a Tripoli e non torni più?”.

Non risposi. Non voglio atteggiarmi a “duro” anche se devo confessare che non mi commuovo tanto facilmente, ma quella volta ... mah! forse era il rimorso ... il rimorso di aver ritardato ... forse con pochi mal ... su quella tunichetta larga, sdrucita ... il fischietto rosso ...

Il fischietto rosso 

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Non ebbi più occasione di tornare a Ghariàn. Quanto al fischietto rosso, l’ultima volta che “è ricomparso” è stato in occasione dell’ultimo trasloco (settembre 1980). Era arrugginito, il cordoncino  era macchiato. Deve essere da qualche parte. Appena avrò un po’ di tempo, lo cercherò.

No, forse no.

                                      Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “L’Oasi” n° 3/2002 - Settembre -Dicembre 2002)