Ls stanza di Roberto Longo

Roberto Longo

Al mare ... passando da Tureia

di   Roberto Longo

Saranno pochi i Tripolini d.o.c. che, leggendo il titolo, imiteranno Don Abbondio chiedendosi: “Tureia? Chi era costui!”. Perché Tureia, usando la terminologia dei giovani d’oggi, era “un mito”. Insieme alla Gelateria Bascetta, alla Pasticceria Campi, alla Pizzeria del Mago Rosario, alla Latteria Triestina e alla Salumeria Corbisiero, era responsabile nel farci commettere troppo spesso, il quinto peccato capitale. Non erano i soli, ovviamente. La latteria Girus per esempio! Inevitabile entrarci prima di iniziare le passeggiate sul Corso o le interminabili discussioni sportive sul marciapiede dirimpetto.

Una menzione a parte merita quella piccola rosticceria che faceva angolo con la via di accesso al Cinema “Corso”. In un piccolo locale, una coppia di siciliani preparava ottimi arancini, zeppole salate, pizzette, focacce ed alcuni tipi di “scacci”: insuperabili quelli alla cipolla. Gli “scacci” sono praticamente delle pizze, moderatamente sottili, coperte da un altra sfoglia di pasta da pane. E chi non ricorda “Dido”? Da lui, oltre ad altre specialità della cucina ebraica, Haraimi (Pesce in sugo piccante), Kraen bilfasulia (Zampetti di vitello con fagioli), e quindi, per concludere la cena in bellezza, una inevitabile buona dose di “Alka-Seltzer” per dessert!

C’erano poi i sinfaz. Per un certo periodo ho frequentato le scuole di Via Marconi, quelle vicino alla Manifattura Tabacchi e, per arrivarci, dovevo passare davanti alle botteghe di questi benefattori del palato.

L’olio friggeva in una grande ciotola di coccio murata in un grande cubo.

 Il sinfaz stava accovacciato sopra questa caratteristica struttura. Il sinfaz è colui che fa le sfinez.

Sfinez

Niente di eccezionale: solo farina, acqua, lievito e sale. Impasto molto morbido, molto lievitato. Ne prendeva un pugnetto, lo modellava velocemente con la punta delle dita ottenendone un disco di un certo spessore all’esterno ma sottile al centro e, facendolo roteare, lo tuffava nell’olio bollente. Quindi, con una specie di uncino, lo estraeva e, prima di farlo scivolare su un piano inclinato, con un cenno del capo interrogava: Melah ulla sukkar (Sale o zucchero?). Una squisitezza! La ricetta è semplicissima ma che nessuno ci provi: impossibile sfiorare un buon risultato ed alquanto difficile ottenerne uno mediocre. Per gustare le eccellenti burik (brik in Tunisia)

Burik

bisognava aspettare il mese di Ramadan ed il colpo di cannone che annunciava l’interruzione del digiuno.

Il sinfaz a partire da qualche ora dopo e fino all’alba, prendeva un disco di sfoglia sottilissima, lo riempiva con un impasto di patate lesse e passate, prezzemolo, aglio, sale e pepe nero e, dopo averlo chiuso a triangolo, l’adagiava nell’olio bollente solo per qualche secondo. Deliziose! Alcuni le farcivano con tonno, altri con carne macinata o uova, ma il “top”era con le patate. Ma sto uscendo fuori tema.

Tureia era un ristorante arabo in Sciara Mizran (sulla sinistra di chi, da questa via, accedeva alla ex Piazza Italia).

Non vorrei sbagliarmi, ma credo fosse l’unico o comunque uno dei pochi, per ovvie ragioni: in Libia il dovere dell’ospitalità è sacro. Nessuno porterebbe al ristorante un parente o un amico giunto da altra città in visita, come nessuno si sognerebbe di invitare amici o congiunti al ristorante. Sarebbe un’offesa abbastanza grave perché l’ospite va portato a casa: Wageb Eddiàfa (Dovere dell’ospitalità).  

Quindi i clienti libici di Tureia erano quei pochi che, arrivando a Tripoli, non avevano né un lontano parente né un conoscente. I giovani preferivano le pizze al trancio del Mago Rosario.

Non che, di Tureia, fossi un gran cliente, ma ci andavo spesso e mi tornava comodo quando, d’estate, mi “rifornivo” prima da lui e poi andavo al mare con la mia bella gasa-a piena di kus-ksì. La gasa-a è una zuppiera, una grande ciotola normalmente di terracotta con un coperchio di paglia intrecciata che ricorda il copricapo dei cinesi. È necessaria per tale pietanza, perché, essendo poco profonda, permette ai condimenti di raggiungere tutta la semola. Cosa impossibile se si usasse una pentola: la parte di semola a contatto con il fondo non potrebbe essere raggiunta dalla tabikha (condimento, sugo).

Entrando nel ristorante si notava subito, su una grande tavola, la semola precotta sistemata a piramide, o meglio, a cono rovesciato. Sul banco che seguiva, tutte le varie teglie con i vari condimenti: bamia in umido, sugo di agnellone, carne e zucchine, le prelibate patate ripiene di carne (mafrum o mbattan), sugo di carne e verdure varie ed infine la teglia con la teklìa (cipollata). Quest’ultima è fatta stufando cipolle affettate e ceci ed arricchendo il tutto con sugo di agnello e verdure.

Della cucina libica o, meglio, di tutte quelle Nord-africane, il “piatto” più conosciuto è il kus-ksì. Ma, identificare la gastronomia di quei Paesi, soltanto con questa famosa e squisita preparazione, sarebbe come giudicare la cucina italiana basandosi, solo, sull’altrettanto famosa pizza.

Non si sa con esattezza quando ed a chi il kus-ksì debba le sue origini,

Kus-ksì

 ma pare che, i nomadi, nei loro continui spostamenti, avessero trovato nel semolone bagnato con acqua, “lavorato” con il palmo delle mani, precotto e successivamente essiccato al sole, la soluzione alle loro necessità alimentari. Avevano infatti un prodotto pronto ad essere ricotto a vapore e condito con carne con o senza verdure, solo con verdure o solo con il semen (burro ottenuto da latte di pecora). Il kus-ksì infatti può essere paragonato alla nostra pasta che, cotta in acqua salata, è già pronta a ricevere dal più modesto condimento a base di aglio, olio e peperoncino al più elaborato dei ragù. Pertanto non è considerato, come qui da noi, “piatto unico”, ma piatto forte a cui far seguire un secondo piatto, frutta e l’immancabile tè.

Non vorrei essere di parte, ma considero il kus-ksì della cucina libica, e più precisamente di quella Tripolitana, il migliore. Esso si distingue dagli altri per l’uso rigoroso della carne di agnellone, della “cipollata” su spiegata ed anche per il mezzo uovo sodo con il tuorlo arrossato con un po’ di harisa.

Harissa

Tureia prendeva la mia gasa-a la riempiva di semola e, dopo averne livellato la superficie, con un piccolo mestolo, iniziava a condirla con grande maestria. Faceva scorrere il mestolo a pelo sulle varie teglie prelevando l’olio che galleggiava in superficie, quindi affondava il mestolo nei vari condimenti liquidi ed inumidiva la semola senza mai girarla. Ma compiva questi movimenti con gesti rituali, con grande concentrazione, senza dar retta a chi osava parlargli durante questo rito gastronomico. Metteva poi, sul tutto, la cipollata e quindi carni e verdure prendendole dalle varie teglie.

Una volta, avendo dimenticato a casa la gasa-a, gli chiesi se ne avesse una da prestarmi. Mi rispose affermativamente, purché, disse, non le facevo fare la fine della tanjerat Jihé! (pentola di Giufà).

Jihé o Jò-ha (in Sicilia Giufà) è lo stolto del villaggio ma anche il finto tonto, il giullare furbastro. Conoscevo diverse storielle su Jihé ma questa della pentola non la ricordavo, per cui, chiesi spiegazioni.

“Un giorno”, mi raccontò Tureia,Jihé si recò dal vicino per chiedergli in prestito una pentola. Aspettava ospiti e non aveva abbastanza pentole. Il vicino conoscendo la stoltezza di Jihé non avrebbe voluto dargliela ma si trattava pur sempre di un vicino di casa, nonché amico e dovette esaudire la sua richiesta. Quando Jihé se ne andò, la moglie iniziò a rimproverare il marito dicendogli che, conoscendo l’elemento, non era proprio stato un lampo di genio l’avergli prestato quella pentola che, seppur vecchia ed ammaccata, era ancora adatta all’uso. I giorni passavano ma la pentola non ritornava al legittimo proprietario. Quando ormai si erano rassegnati, i vicini sentirono una bella mattina bussare alla porta. Con loro grande sorpresa videro Jihé con la pentola in mano e con un piccolo pentolino nuovo e lucente. Stupiti e perplessi restarono sulla soglia ammutoliti finché Jihé non disse loro:

“Vi restituisco con ringraziamenti la vostra pentola ed anche questo piccolo pentolino che la pentola ha partorito mentre era da me: ovvio che essendo vostra la pentola, vostro è anche il pentolino.”

I vicini fecero grande fatica a trattenere le risa e quando Jihé se ne andò risero a crepapelle avendo conferma ancora una volta della stoltezza di Jihé. Non passò una settimana che Jihé ritornò chiedendo un’altra pentola “possibilmente più grande della precedente” disse, “perché gli ospiti, quella volta, erano davvero tanti”. Il vicino prese una pentola che aveva appena acquistato bella e grande e gliela diede di buon grado. Anzi aggiunse anche il coperchio, dando occhiate d’intesa alla moglie ben felice anch’ella di prestare pentole a Jihé. Il vicino raccomandò: “Jihé, trattala con delicatezza perché anche questa è ... incinta!”.

Passarono settimane e mesi senza notizie di Jihé. Un giorno il vicino spazientito andò a bussare a casa di Jihé e gli chiese la restituzione della pentola.

“Oh! quanto mi dispiace ... sai, la tua pentola è morta ... è morta di parto!”

“Ma che vai dicendo scemo! Le pentole non muoiono! Sono delle cose, non sono certo esseri viventi!”.

“Ma quando la prima pentola aveva partorito non mi avevi detto questo! L’altra ha partorito, questa è morta!”

Il vicino se ne andò frenando la rabbia e Jihé dimostrò di essere più furbo che stolto.

Ovvio che dopo aver ascoltato la storiella, la gasa-a che ebbi in prestito, ritornò al proprietario quella sera stessa!

Anche in Sicilia il kus-ksì fa parte della gastronomia locale. Sopratutto nel Trapanese e nelle isole a sud: cioè Lampedusa e Pantelleria. Soltanto che, in questi luoghi, viene condito principalmente con sugo di pesce. Raramente accompagnato da verdure. Confesso che a me non piace. Una volta, tuttavia, passando per il porto di Lampedusa, dove eravamo in vacanza, un cartello, fuori da un ristorante, attirò più la nostra curiosità che l’attenzione: “Giovedì cuscus anche da asporto”. Così il giovedì a mezzogiorno ci recammo con la nostra ciotolona per farci dare due porzioni di cuscus. Io rimasi in macchina, scese mia moglie e dopo una decina di minuti ritornò, ridendo, con il cuscus condito con il sugo di pesce e senza verdure come spiegato sopra. Mi raccontò che la signora che l’aveva servita le aveva detto:

Signora, qui noi lo facciamo col pesce, ma io, lo scorso anno, ne ho mangiato uno buonissimo! Era fatto con il sugo d’agnello e molte verdure: era una bontà! Perché vede, lo scorso anno io e mio marito siamo stati per sei mesi a Tripoli per lavoro”:

“Sì”, le rispose Rosetta, “lo so che lo fanno con l’agnello ed anche che è molto buono”.

“Ah sì, e come mai?… anche lei è stata in Libia?”.

“Veramente ci sono nata e ci ho vissuto per 30 anni!”.

A quel punto la signora del ristorante avrebbe voluto indietro il suo modesto cuscus sostituendolo, e forse faceva bene, con una ugual dose di spaghetti al pesto siciliano o penne con la bottarga o alla Norma o con le sarde o, al limite, ca-a muddìca!

Spesso, per la nostra famiglia o per gli amici che abbiamo “iniziato” al culto del kus-ksì, prepariamo questo particolare piatto e, qualche volta, anche con prodotti originali. Alcuni amici libici, in visita, ci portano semola lavorata in casa e spesso anche il famoso Kharuf watni (Agnello nostrano, libico). Ma devo ammettere che, vuoi per la varietà dei condimenti che solo un ristorante può avere a disposizione così numerosi, vuoi per il “mestiere”, il kus-ksì di Tureia era forse più buono!

E parafrasando un vecchio “spot” pubblicitario …:

“Buono? Ottimo direi ... è kus-ksì di Tureiiii!”.

Roberto Longo

(Pubblicato sulla rivista “L’oasi”  n° 2/2002 - Maggio - Agosto 2002) 

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