INTRODUZIONE
Dopo
quarantanni anni
i ricordi s'annebbiano, ma non
quelli
dolorosi degli
italiani espulsi
dalla Libia nel
Luglio 1970.
Accusati di
colonialismo, dopo
l'esproprio dei beni
dovettero attendere,
sotto un torrido
sole nel piazzale
del quartiere
fieristico, quel «certificato
di nullatenenza»,
condizione per il
visto d'uscita dal
Paese, per andar via
senza ulteriori guai.A quest'umiliazione
seguì quella di
essere considerati
un corpo estraneo
anche in
Italia, dove gli
avvenimenti
suscitarono più
stupore che sdegno:
"la stragrande
maggioranza
degli italiani non
era neppure al
corrente che in
Libia esistesse una
comunità di così
grandi proporzioni e
di interessi
economici così
rilevanti".(1)
I
profughi libici
divennero oggetto
nella contesa
politica italiana:
difesi solo dalla
Destra nazionalista
che cercava così di
far proseliti, ma
avversati da gran
parte
della Sinistra che
li considerava una
fastidiosa spina
dell'epoca coloniale,
il
retaggio di un
periodo da
dimenticare, una
pagina di storia da
strappare.
Anche le concessioni
legislative per la
loro integrazione
furono oggetto di
pregiudizi e di
risentimento (2). I loro nonni e
bisnonni, che erano
andati in Libia
come "colonizzatori",
in realtà erano
migranti che
preferivano
traghettare il
Mediterraneo, più
che l'Atlantico per
le lontane Americhe.
I loro figli
nacquero su
quella "sponda" e
così i nipoti e la
consideravano la
loro terra, la
patria, al-watan.
Cacciati,
dopo
più
di quarant'anni
non
se
ne
danno
ancora
pace.
Hanno fissato, come
su una lastra
fotografica,
l'immagine di quei
paesaggi, di quei
volti picchiati dal
sole, di quei colori
violenti. In ogni
angolo di mondo
vadano, cercano i
sapori, gli odori
pungenti di cumino e
zafferano che
esalavano dai sūq,
ed il calore che la
sabbia del deserto,
soffice come una
cipria e calda come
una guancia
febbricitante,
trasmetteva ai loro
corpi di bambini,
che si rotolavano
per gioco giù dalle
dune.
Hanno ancora negli
occhi il colore
smeraldo dell'acqua
delle bianche
spiagge, dove si
curvavano le palme
sotto il peso dei
datteri e gli
schiaffi del
ghibli
(3),
e il bacio tra cielo
e mare dei tramonti,
quando un sole
immenso si svenava
all'orizzonte.
La terza generazione
d'italiani di Libia
conosceva la storia
del colonialismo
solo dai libri
scolastici, editi
dal Governo del Re
Idris I il Senusso,
al-Malik Idris al-Awal
al-Sinūssi,
, che aveva
combattuto
eroicamente prima il
colonialismo
francese in Tunisia
e poi quello
italiano in Libia,
ma che durante il
suo regno li
considerava fratelli,
perché
accomunati dagli
eventi della Storia,
a ragione o a torto,
a nascere e vivere
insieme
nello stesso Paese
per ricostruirlo.
Nicola Labanca
scrive: "Del nostro
passato coloniale ci
è rimasto ben poco:
qualche ricordo
toponomastico delle
nostre imprese
coloniali, un corso
Tripoli,
una via Mogadiscio,
una piazza Adua, il
riflesso di alcuni
polemici dibattiti
giornalistici
sull'uso del gas
nella conquista
dell'Etiopia, della
restituzione dell'
obelisco di Axum,
della deportazione
giolittiana delle
popolazioni libiche,
la
segregazione dei
nomadi cirenaici e
le forche fasciste
per i patrioti
libici" (4).
La storia coloniale
italiana in Libia
durò poco più di
trent'anni, molto
meno di quella
britannica o
francese e forse per
anni ci siamo illusi
che fosse stata meno
brutale ed
oppressiva.
Nelle contraddizioni
della nostra memoria
si fa fatica ad
accettare che questo
periodo sia denso
anche di pagine
vergognose.
Per anni siamo stati
convinti che gli
italiani fossero "brava
gente", che fossero
andati "a pigliare
l'Africa per far
tutta
una famiglia"
(5),
che si fossero
recati in Libia per
costruire case,
scuole, scavare
pozzi e canali e
trasformare il
deserto nello
storico granaio di
Roma, che il nostro
fosse un
colonialismo dal "volto
umano", diverso da
quello repressivo
inglese o
francese e quindi
che fosse ingiusto
quell'amaro epilogo.
Il tratto
autobiografico di
questa ricerca,
inusuale per una
Tesi, trae origine
dallo
scopo di questo mio
Corso di Laurea.
Nell'ambivalenza di
nipote di "colonialista"
e di "esiliato",
privato del calore
affettivo di luoghi
e di persone, che
fatico a ritrovare
nella penombra dei
miei ricordi è sorto
il desiderio di
rivisitare le
ragioni che
tracciarono il solco
della
storia d'oltremare.
Note
(1)
A.Del
Boca,
Gheddafi, una sfida
dal deserto,
Roma-Bari, Laterza,
2001, p. 49
(2)
Consistevano in
punteggi
preferenziali nei
concorsi della
pubblica
amministrazione,
nell'assegnazione di
licenze
commerciali, nelle
graduatorie delle
case popolari e nel
riconoscimento dei
contributi
previdenziali e
pensionistici
versati
dai lavoratori in
Libia,
nell'equiparazione
con i diritti di
altre "categorie
protette
(3)
Il
vento caldo ed
impetuoso del
deserto
(4)
N. Labanca,
Oltremare. Storia
dell'espansione
coloniale italiana,
Bologna, Il Mulino,
2002., p. 7
(5)
Motto popolare
dell'epoca: "Qui se
l'Africa si piglia,
si fa tutta una
famiglia"
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