La stanza  di Italo Gagliano

Italo Gagliano
 

BIOGRAFIA

Una biografia, quando viene chiesta al diretto interessato, è un’autobiografia, e soffre di tutti i difetti delle autobiografie. Perciò perdonatemi.

Sono nato a Tripoli, di maggio, nel 1934, a pochi passi da un grande mare e alle soglie di un grande deserto. Venire al mondo in primavera e in grandi spazi mi ha dato una vocazione alla libertà che non mi ha mai abbandonato in seguito. Un regime negatore dei diritti più elementari, del suo come degli altri popoli, ha reso anzitempo me e mia sorella, tre e due anni, gli orfani di un eroe, e mia madre una vedova di guerra. Avrei preferito che mio padre non fosse un eroe, e che da antieroe rimanesse con noi.

Mia madre,a quell’epoca, aveva 23 anni; mio padre, 28. Erede di una famiglia agiata della provincia di Catania, per dissidi con i familiari aveva lasciato la Sicilia per arruolarsi in Libia. Una volta congedato, aveva messo su una piccola ditta di trasporti. In quell’estate del 1937 era partito per andare a realizzare opere pubbliche nell’appena conquistata Etiopia, o Abissinia, come si diceva allora. Bastarono meno di 100 chilometri in territorio etiopico per incorrere in un’imboscata, da cui si salvarono in meno della metà.

Per un anno, in una colonia elioterapica di Tripoli, mia sorella ed io attendemmo il ritorno di nostra madre, che era andata in Cirenaica a cercare lavoro. Per tutta la vita, mia madre è stata un’impiegata avventizia, oggi si direbbe precaria, dello Stato italiano.  

Dopo una serie di peregrinazioni a Bengasi, Derna, Tobruk, ci stabilimmo a Porto Bardia, al confine con l’Egitto, non lontano da El Alamein. La guerra stava per arrivare. Mia madre si portava mia sorella, quattro anni, in ufficio. Non poteva portare anche me. Perciò, visto che non c’era l’asilo infantile, mi misero come uditore in prima elementare. Alla fine furono costretti a promuovermi in seconda, dandomi anche un premio.

Il superiore di mia madre era un giovane capitano dell’esercito, Salvatore Castagna. Era il sindaco del paese. Quando era un militare, il sindaco veniva chiamato residente, quando era civile podestà. Salvatore Castagna era un grande, che qualche anno dopo sarebbe divenuto celebre come il colonnello della Sagra di Giarabub: “Colonnello non voglio l’acqua, dammi il fuoco distruggitore, con il sangue di questo cuore la mia sete si spegnerà. Colonnello, non voglio il cambio, sono morto per la mia terra, ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub”.

Salvatore Castagna

Mica tanto azzeccata, la profezia dei corifei del regime. Puntando sulla battaglia del grano, sull’oro alla patria, su otto milioni di baionette, intossicavano le tenere coscienze di noi bambini con orrori come questo, pubblicato dal Corriere dei Piccoli:  Per paura della guerra, re Giorgetto d’Inghilterra chiede aiuto e protezione al ministro Ciurcillone”. Nel giro di pochi mesi, i pavidi Giorgetto e Ciurcillone ridussero a colabrodo la marina, il parco carri armati, gli aerei globetrotter del regime e, con i deretani degli stessi denigratori, la loro reputazione ed attendibilità. Ma intanto essi ci costringevano a cantare Giovinezza, Sole che sorgi, Roma rivendica l’impero e a stendere il braccio nel saluto romano.

A sei anni, io cominciavo a manifestare la mia vocazione di giramondo. Tra navi e pullman, avevo già  accumulato seimila chilometri di viaggi.

L’arrivo della guerra ci costrinse a trasferirci a Misurata, la seconda provincia della Tripolitania. “Cosa andiamo a misurare?” chiedevo a mia madre. Questo alone di disincanto, tra il surreale, il romanzesco e l’onirico, a volte anche il tragico, mi ha circondato per tutto il resto della vita.

In seconda elementare, a Misurata, una mia compagna di classe, seienne come me, si chiamava Rossana Podestà. Divenuta poi una delle principali attrici italiane della sua stagione.

Rossana Podestà

Gli inglesi venivano a bombardare tutti i giorni. Quando un aereo inglese veniva abbattuto, con la seta dei paracadute i nostri genitori facevano biancheria intima per noi bambini. Ogni tanto, un lampo d’umanità squarciava l’orrore della guerra. Ricordo il funerale nella piazza della Cattedrale di un pilota inglese ucciso dalla contraerea. Una Cicogna britannica si avvicinò di soppiatto, e anzichè le bombe, sganciò sul feretro una corona di fiori.

Nel 1941, ogni volta che suonavano le sirene, mia madre lasciava l’ufficio e correva disperatamente verso casa, alla ricerca di noi due, che allora avevamo sette e sei anni. Finchè non decise di mandarci in Italia, possibilmente dai familiari di mio padre. Mi cucì un po’ di soldi nella tasca della giacca, e ci affidò a una signora che andava a trovare dei parenti a Roma. Il primo aereo della mia vita fu un trasporto militare, con i sedili di tela appesi alle pareti e la mitraglietta sulla cupola.

Dovevamo andare da Tripoli a Castelvetrano, in Sicilia, evitando Malta, ultrapresidiata dagli inglesi. Perciò puntammo sulla Tunisia. Sarebbe dovuta bastare una mattinata, ci vollero tre giorni. L’aereo, per una avaria al motore, fece un atterraggio di emergenza all’isola di Gerba. Erano i giorni del ghibli.  La sera, dormimmo sulla pancia dell’aereo. L’indomani, per pranzo, ci fecero un ottimo minestrone. Peccato tutta quella sabbia nel piatto e fra i denti.

La sera dormimmo tutti in un albergo dell’isola un po’ demodé, tipo Montparnasse. L’indomani, alla partenza dell’aereo, si presentò un altissimo ufficiale con i baffoni, e con due sacchetti di caramelle per i due cuccioli della comitiva.

I  nostri parenti non ne vollero sapere di noi. Dopo averci tenuti 15 giorni in casa dei suoi parenti a Roma, la signora che ci accompagnava andò alla GIL, la Gioventù italiana del Littorio, a chiedere cosa farne di questi due bambini. Ci mandarono a Gubbio, a 40 chilometri da Perugia, splendido centro tutto salite e discese affacciato con il suo Palazzo dei Consoli su una magnifica valle. Per chi non lo avesse riconosciuto, il Palazzo dei Consoli è il castello che ha ospitato la caserma dei carabinieri nella fiction televisiva di Don Matteo. In costante rivalità con tutta Italia, e soprattutto con Viterbo, per la corona di più bel borgo medioevale della penisola, Gubbio ha un’altra caratteristica. D’estate è una fornace, d’inverno un  congelatore.

Ogni anno, il 15 maggio, i rappresentanti dei tre quartieri cittadini si cimentano nella corsa dei ceri, tre colonne variopinte con in cima le statue di Sant’Ubaldo, un vescovo di nove secoli fa, patrono di Gubbio, San Giorgio e Sant’Antonio. Ogni colonna è poggiata su una barella orizzontale, più o meno come la macchina di Santa Rosa a Viterbo.

La giornata comincia da piazza San Francesco, con una serie di giretti a fondo valle, con le famose “birate”, i giri del cero su se stesso, inframmezzati da generose libagioni. Poi si sale al Duomo, per arrampicarsi a passo sempre più veloce verso il Santuario che ospita la tomba del patrono. Sant’Ubaldo, per tradizione, parte per primo, e sbarra agli altri l’ingresso al Santuario. Ma tutti devono impegnarsi a fondo, altrimenti rischiano di essere botte. I contradaioli, compresi mamme, bambini, venditori di palloncini e di gadget, vestono gli stessi colori dei tre santi e dei facchini dei ceri.

Gubbio: Il Palazzo dei Consoli Gubbio: la festa dei ceri

A questa tradizione, di recente, se  ne è aggiunta una seconda: il più grande albero di Natale del mondo, una coreografia luminosa che si arrampica sulla montagna, dalla valle al Santuario del Monte Sant’Ubaldo.

La colonia della GIL era un edificio scolastico poco fuori dei portici della grande piazza San Francesco. A me sembrava immenso. Ci vivevamo in 400: 300 ragazze fino ai 18 anni, 100 maschi fra i 6 e gli 11. Provenivano tutti da vari villaggi rurali: Garibaldi, Mazzini, Tazzoli, Michele Bianchi e così via. Mia sorella ed io eravamo gli unici cittadini ed eravamo i figli dell’eroe. Quindi, ci spettava un trattamento diverso dagli altri. Finite le elementari, le ragazze restavano per frequentare le secondarie, i maschi venivano trasferiti alla colonia di Collestrada, vicino Perugia, dove imparavano a zappare la terra. Destino non ipotizzabile per me, che ero pure bravo a scuola. Pensò la fine della guerra, nel giorno del mio undicesimo compleanno, l’8 maggio 1945, a risolvere il dilemma.

Subito dopo l’arrivo, per me, salutare rapatura a zero antipidocchi (no, il ciuffo no!), cresima e prima comunione per tutti e due. I nostri genitori si erano mostrati leggermente patriottici, chiamandoci Italo e Italia. Mia moglie Teresa ha sempre detto che un terzo figlio i miei lo avrebbero chiamato Patria mia.

I figli dell’eroe meritavano di avere per padrino e madrina il federale del fascio di Perugia, un gentile e mite oculista a nome Camillo Giannantoni, e la fiduciaria del fascio di Gubbio, Luce Danzetta. La cosa comportava per noi dei privilegi. Per tutti gli anni successivi, nonostante che vestissimo stracci e calpestassimo la neve, portando scarpe con la suola di autarchico cartone, ad ogni Pasqua e Natale eravamo ospiti dei responsabili locali del fascio, incontravamo ragazzi della nostra età, mangiavamo bene, e i nostri letti, la sera, erano resi confortevoli dal famoso scaldino di allora, chiamato prete. Rivivevamo insomma l’atmosfera  familiare.

Il pane del sapere ce lo spezzavano insegnanti in genere bravissimi. Le mie maestre della scuola elementare, le signore Cordovani e Costantini, erano superlative. Quest’ultima sacrificò a me la sua merenda, il giorno che per scommessa, in quarta elementare, a un ispettore venuto dal Ministero, seppi coniugare il passato remoto del verbo cuocere.

I giocattoli scarseggiavano. Ci ingegnavamo. Per giocare a dama, coloravamo con il verde delle foglie un quadratino si e uno no del marciapiede, nel cortile dell’istituto. Nel resto della giornata, ci accudivano le vigilatrici, odiatissime, soprattutto dalle ragazze. E si sentivano cantare ritornelli come questi: “Rapaglià, Rapaglià, chettepossinammazzà!” “Sempre patate, sempre fagioli, questa è la vita che ci fan far, buttate via ‘sta porcheria, che non è roba da mangiar!” “Macchinista, macchinista di Perugia, metti l’olio negli stantuffi, che di Gubbio siamo stuffi, e a casa nostra vogliam tornar!”

Intanto la guerra proseguiva, con nostra madre da una parte del fronte, noi dall’altra. Attraverso la Croce Rossa Internazionale, riuscivamo a scambiarci una lettera ogni sei mesi. I bombardamenti, le cannonate, l’uccisione dei 40 martiri di Gubbio per una rappresaglia tedesca. Poi, una mattina dell’estate ‘44 i tedeschi in fuga e una colonna di persone rifugiatesi in montagna, che scendevano a valle sventolando fazzoletti bianchi.

Crollato il regime fascista, la colonia era nel caos. Amministatori disonesti avevano depredato il depredabile. Noi, per mangiare, dissotterravamo dai campi le patate e le consumavamo crude, con tutta la buccia e la terra. Generose famiglie contadine della frazione Padule si offrirono per ospitare, ognuna per un mese, un ragazzo o una ragazza della colonia. A me capitò la famiglia Minelli. Avevano una bambina di dieci mesi di nome Ombretta e gestivano un piccolo spaccio di alimentari. Avevo dieci anni. Un bicchiere di vino di prima mattina e la prima solenne sbronza della mia vita.

Il soggiorno non era male. Dal letto si raggiungeva senza difficoltà il davanzale e da lì l’albero di ciliegio. Vi facevo colazione ogni mattina. Ma gli stenti e la scarsa igiene alimentare mi avevano massacrato i reni. Ero in anticipo di un anno sulla scuola e avrei dovuto frequentare la prima media, ma per tutto il primo quadrimestre rimasi ricoverato nell’infermeria della colonia con la nefrite, oltretutto contagiosa.

Un altro che si sottraeva al destino dello zappatore era Francesco Canale, figlio di un’altra maestra della colonia e mio compagno di banco in quinta elementare. Lo sarebbe stato anche alla prima media, naturalmente nel secondo quadrimestre. La madre gli aveva comprato i libri, e quando si era trattato della matematica,  ne aveva preso uno anche per me. Fu l’unica mia lettura di quel periodo, e alla fine ne sapevo più dell’autore. Le conseguenze furono sorprendenti.

Frequentai la scuola nell’ultima settimana del quadrimestre, e alla fine mi classificarono, in modo un po’ incerto e direi discontinuo. Italiano cinque cinque, latino cinque cinque, storia cinque, geografia cinque, disegno due, matematica otto.

Alla fine dell’anno, avevo recuperato pienamente. Nonostante che fossi il più piccolo, mi avevano fatto capoclasse. Il mio professore di lettere, il formidabile professor Nuti, poi sindaco di Gubbio e deputato, quando usciva per chiacchierare con un collega o per fumarsi una sigaretta, mi affidava la masnada. E io tenevo lezione.

L’8 maggio, il giorno del mio compleanno (compleanno anche di Roberto Rossellini, con Luchino Visconti e Vittorio De Sica uno dei grandi cantori del neorealismo italiano), la grande notizia: la guerra è finita. Corro alla scuola: “Datemi la pagella, che parto!” Due mesi di peregrinazioni per la gamba e il tacco della penisola, poi l’imbarco per Tripoli. Mia madre era ad attenderci in piazza, a Misurata. Aveva conservato nei cassetti le mie magliette di quattro anni prima. Mi stavano larghe.

Se dico che facevamo la fame, il termine è realistico. A Misurata non c’era la scuola media. Mi preparai agli esami della seconda media, da privatista. Un avvocato mi  insegnava italiano e latino, un funzionario statale storia e geografia, due impiegati di banca inglese e francese, il direttore didattico la matematica. Per la musica, c’era l’organista della cattedrale, fra’ Norberto.

L’esame andò bene. Ci trasferimmo a Tripoli, dove affrontai la terza media, e poi il ginnasio-liceo Dante Alighieri.

Tripoli - Liceo   Dante Alighieri

Un anno all’associazione cattolica della cattedrale tenuta dai francescani, e servizi di chiesa connessi, poi l’approdo all’associazione dei Frères, dove era appena arrivato fratel Arnaldo.

Il giorno che mia madre portò in casa per la prima volta una radio, dalla scatola magica uscirono prima la voce di Alberto Sordi, poi quella di Nando Martellini.

Alberto Sordi Nando Martellini

Decisi che quello sarebbe stato il mio destino. E tutto sommato, credo che anche questa volta mi sia andata bene. Intanto, nell’associazione cattolica dei Frères, dilagavo. Ero un fuoco di artificio di idee. Credo che per me, secondo quel che ho potuto ricostruire dalle testimonianze, fratel Arnaldo abbia nutrito la stessa ammirazione che io ho sempre nutrito per lui. In effetti, la sua figura giganteggia nella mia vita e nella mia formazione. Da lui ho imparato la lealtà e il rigore, ma anche un approccio allegro alla vita.

Fratel Arnaldo

Per alcuni mesi, a tredici anni, insieme con un coetaneo dell’INCIS, Attilio Mainardi, ho tenuto ogni domenica a Radio Tripoli una rubrica di cinque minuti sulle cose che potevano interessare i tredicenni. A quindici anni, mi hanno offerto  la responsabilità della pagina sportiva del Corriere di Tripoli, che ho conservato per tre anni, cedendola poi a un altro lasalliano, Vincenzo Rovecchio. Avevo un ruolo istituzionale, ed ero invitato alle manifestazioni ufficiali. Il console italiano a Tripoli era Roberto Gaja, poi segretario generale della Farnesina, ambasciatore a Washington, prestigioso editorialista.

Vincenzo Rovecchio Roberto Gaja

La frequentazione del consolato mi ha consentito di coltivare una ormai sessantennale amicizia con Giorgio Gaja, più giovane di me di cinque anni, oggi uno dei più importanti giuristi italiani, l’unico presente in una corte internazionale di giustizia.

Mi sono dilungato sul periodo dell’infanzia e dell’adolescenza perché il più intriso di tripolinità (in fondo anche a Gubbio ero circondato da italo-libici), quello in cui più che in qualsiasi altro si sono formati il mio sistema di valori e il mio bagaglio umano, culturale e professionale.

Valori che non esito a definire collettivi, perché sento di condividerli con chiunque abbia vissuto negli stessi ambienti e respirato le stesse atmosfere, indipendentemente dal fatto che il tutto sia avvenuto in Libia o in Italia o altrove. Avverto con tutti loro un comune sentire, quello di chi percepisce di aver vissuto non nello stesso luogo ma in uno stesso mondo dai confini straordinariamente allargati.

Un cittadino globale, insomma, pieno di calore umano e privo dell’asetticità pseudotecnologica e della mancanza di solidarismo (o di solidarietà), che il termine globale inevitabilmente trascina con sé. 

Alle case INCIS, nel palazzo a sinistra del mio, viveva il futuro fondatore del Manifesto, Valentino Parlato, figlio del capoufficio di mia madre all’ufficio tasse di Tripoli. Nel palazzo di destra, viveva l’allora sua fidanzata, Clara Valenziano, divenuta anch’essa una celebre giornalista di Repubblica.

Valentino Parlato

Innumerevoli sono i tripolini legati al mondo della comunicazione. Ne cito alcuni. Ignoravo fino a qualche giorno fa che Paolo Mieli fosse un tripolino anche lui. Suo padre, Renato Mieli, ha diretto il Corriere di Tripoli, per cui io stesso ho lavorato. Clemente Mimun, negli anni direttore del TG2, del TG1, poi del TG5, è figlio di tripolini. E’ tripolino Eugenio De Paoli, figlio di un imprenditore e attuale direttore di Raisport, che in seconde nozze ha sposato la figlia di un famoso diplomatico tripolino, Vittorio Surdo, già ambasciatore a Mosca e tuttora residente nella capitale russa.

Paolo Mieli Clemente Mimun
Eugenio De Paoli Vittorio Surdo

E’ tripolino David Zard, organizzatore delle performances di Madonna, Cocciante e tanti altri.Madonna, Cocciante e tanti altri.

David Zard

E’ tripolino  Mario Platero, responsabile del Sole 24 Ore per il continente americano. E’ tripolino Ugo Porcelli, braccio destro di Renzo Arbore. E’ tripolino Andrea Zappia, amministratore delegato di Sky Tv Italia.

Mario Platero Ugo Porcelli Andrea Zappia

 E infiniti altri: psicoanalisti di grido, avvocati, medici, commercianti, manager, ristoratori, docenti universitari, ricercatori e cacciatori di teste, artisti a non finire. Uno per tutti, uno sportivo: Guido Costa, il fabbricatore del leggendario campione di velocità su pista Antonio Maspes, era compagno di banco di mio zio Giovanni Campailla alle scuole medie di Tripoli.

Antonio Maspes in azione

Non sapevo che fosse tripolino, quando lo conobbi, Vittorio Veltroni, padre di Walter e Valerio, vissuto in Libia per 17 anni. Ma lui sapeva che io lo ero.

Nel 1950, con mia madre, venimmo a Roma per l’Anno Santo. In pantaloni corti, mi presentai a Vittorio Veltroni nella sede della radio (la televisione non c’era ancora), in Via Oslavia a Roma. Veltroni, a 32 anni, era il capo di tutti i radiocronisti, figure leggendarie come Nicolò Carosio, Mario Ferretti, Amerigo Gomez, Aldo Salvo, Pia Moretti, Lello Bersani, Luca di Schiena, Nanni Saba, Gigi Marsico, Nino Vascon, Mario Pogliotti, Piero Angela, Samy Fayad, Aldo Scimè, Domenico Giordano Zir e via dicendo, chiedendo scusa ai non citati.

Gli dissi che aspiravo a fare il radiocronista. “Torna quando finisci il liceo”. Lo presi in parola. Il giorno dopo la maturità, presi la nave per l’Italia. Era l’ottobre 1952. Veltroni era in casa sua, in via Savoia a Roma, con una gamba appesa al soffitto, frutto di una spericolata manovra dell’avvocato Gianni Agnelli a bordo di una Maserati. Diede  incarico a due celebri radiocronisti, Nando Martellini e Antonello Marescalchi, di sottopormi a un provino. Diedero parere positivo.

Io già studiavo Legge alla Sapienza. Per alcuni mesi, implorai qualsiasi radiocronista che uscisse per un servizio, a bordo del mitico furgone attrezzato detto “Giuseppone”, dal nome del suo primo autista, di portarmi con sé. Se necessario, davo anche una mano al montaggio.

Finchè non venne il giorno del mio primo servizio in proprio. Dovevo intervistare Giulio Girola, attore piemontese di grande scuola e di fisico minuto, tanto da essere chiamato ad interpretare diverse volte, negli sceneggiati televisivi Re sciaboletta, Vittorio Emanuele III. Aveva una grande esperienza ma era terrorizzato dall’intervista. Al punto che a me il terrore passò. In fin dei conti, non avevo ancora 19 anni, ma avevo già sei anni di giornalismo alle spalle.

All’impegno con le radiocronache si aggiunsero presto quelli con il Gazzettino di Roma, la mattina, e con la Redazione Sportiva, il resto della giornata. Qui, oltre a scrivere testi e a realizzare servizi, battevo a macchina i testi degli altri, perché non avevamo una segretaria e i computer erano di là da venire.

Intanto Vittorio Veltroni era stato chiamato a Milano, per mettere in piedi il primo telegiornale. Vi sarebbe rimasto tre anni, prima della prematura scomparsa, nel 1956.

Lavoravo 365 giorni l’anno, 366 i bisestili. Chi era in pianta stabile godeva di un giorno di riposo a settimana. Io no. Di settimana corta non si parlava ancora. La mia attività si allargava, al punto che, quello stesso 1956, la RAI fu costretta ad assumermi, come praticante. L’anno dopo sarei divenuto il più giovane giornalista professionista italiano.

La miopia di un’azienda intenta a turare i buchi di organico più che ad agevolare il contesto familiare e culturale di un suo dipendente mi sradicò ad Ancona, lontano dal mio lavoro precedente, dai miei affetti, dai miei amici, dai miei studi. Ero lontano anni luce da qualsiasi facoltà universitaria. La mia laurea in legge abortì a metà strada. Ogni due settimane cumulavo due giorni di riposo, per venire a Roma e sollecitare il ritorno a casa. Se avessi avuto santi in paradiso, il mio cammino sarebbe stato diverso. Allora andava così. Anche adesso.

Al termine della prima settimana trascorsa ad Ancona, tornai a Roma. Vittorio Veltroni, uno dei miei maestri e il più grande radiocronista italiano della storia, era morto qualche giorno prima, fulminato da una leucemia. La sua morte passò in sordina, oscurata dal clamore per l’affondamento dell’Andrea Doria nell’oceano atlantico.

Con un collega, andammo a trovare Ivanka a Rocca Di Papa. Coccolammo Walter che aveva un anno. In casa Veltroni ho conosciuto quella che nel ’61 sarebbe diventata mia moglie, mia figlia Lelia è stata tenuta a battesimo da Ivanka Veltroni, mio figlio Roberto ha per secondo nome Vittorio. Ivanka ci ha lasciato il 31 marzo 1992, il giorno dopo la morte di mia madre.

Vittorio Veltroni Walter Veltroni

Tornai a Roma all’inizio dell’anno 1960, sei mesi prima delle olimpiadi romane. Tutto il calcio minuto per minuto era stato appena inventato da Guglielmo Moretti, che di lì a poco sarebbe divenuto il capo della redazione sportiva della radio. Io sono stato il suo vice per dieci anni. Ero a fianco di Paolo Valenti nella cabina dello stadio olimpico quando Livio Berruti vinse i 200 metri delle Olimpiadi, uguagliando per due volte in un pomeriggio il record mondiale, e di Nando Martellini all’arco di Costantino quando Abebe Bikila vinse la maratona.

Livio Berruti Abebe Bikila

Con tutto il Gotha dello Sport alla radio, sono stato radiocronista in dieci giri d’Italia, in quattro Olimpiadi (in due, responsabile della redazione di supporto romana, che copriva le trasmissioni dell’intera giornata, altre Olimpiadi le ho seguite per la televisione), in innumerevoli campionati di calcio, nuoto, tennis, atletica, pugilato, con nomi come Benvenuti, Mazzinghi, Monzon, Griffith, Cassius Clay poi Mohamed Alì, Foreman, Duilio Loi, Burruni, Arcari e via dicendo.

Una volta ho riincontrato Fratel Arnaldo, per qualche minuto, in un giro d’Italia, a un incrocio nei pressi di Montebelluna. Mi indicava ai suoi allievi e trasudava orgoglio da ogni capello. Non so se si rendesse conto che se ero lì in quella veste, nella mia tutina azzurra, era anche merito suo.

Un anno, era il '65, mi capitò di ritornare a Gubbio, proprio il giorno della festa dei ceri. Era un sabato, e la seconda tappa del giro portava da San Marino a Perugia. Avevo esaurito il lavoro dei notiziari, prima della diretta dell’arrivo, quindi raggiunsi rapidamente Gubbio, gremita di contradaioli in festa. Mi feci portare all’edificio scolastico della mia infanzia e chiesi all’autista di tornare a riprendermi dopo mezz’ora. La mezz’ora più atipica della mia vita, mista di tenerezza e di rimpianto, di pace e di dolore. Tra quelle mura diventate improvvisamente così piccole, si era consumata una parte importante della mia vita. Ero cresciuto anzitempo. E quel giorno ripensavo alla mia azienda, che ho amato e odiato, che mi aveva strappato alla  famiglia e agli studi, che mi aveva reso difficili destino individuale e cammino professionale, e che pure mi pagava per un lavoro per cui avrei pagato io.

Una sensazione che mi ha accompagnato spesso, nella carriera professionale: tra i grattacieli di New York, tra gli aquiloni della marina di San Francisco o i roseti di Lombard Street,  nelle avenidas di Buenos Aires o nei ristoranti cinesi della baia di Hong Kong, tra i pinnacoli dei razzi spaziali di Capo Canaveral ogni tanto mi sono sorpreso a domandarmi perché per coprire quel particolare avvenimento avessero scelto proprio me. Sempre meglio che lavorare. La frase originale è di Luigi Barzini jr, copiata all’infinito.

Con amici a New York 01 Con amici a New York 02 Folla  a new York

Una volta lasciate, come princIpale attività, le cronache sportive il mio interesse si è allargato ad altri campi, in primis la politica estera, ma anche l’astronautica, le elezioni dei Papi, le guerre, la grandi cronache internazionali.

Vent’anni di spola con l’America. Una vita vissuta alla luce dei riflettori, in ogni parte del mondo. Quando ancora esisteva l’Unione Sovietica avevo visitato tutti gli stati d’Europa, tranne l’Albania. Alcuni, diverse diecine di volte. E anche il resto del mondo, l’ho bazzicato di continuo. Continuando a lavorare in Rai, mi sono concesso un regalo che l’ottusità di qualche burocrate mi aveva negato trent’anni prima: una laurea in psicologia, alla soglia dei 60 anni.  Mi è stata molto utile, anche nei pochi anni successivi di permanenza in Rai.

E visto che parliamo di psicologia, rimango fra le corde a me più  congeniali. Una frase che difficilmente dimenticherò me la disse nel 1991 un reduce nel 50° anniversario del bombardamento giapponese di Pearl Harbor, il porto militare di Honolulu. Un mausoleo è stato costruito nel punto in cui la corazzata Arizona colò a picco, con 900 marinai tra le lamiere. Ancora oggi, a oltre 70 anni di distanza, ogni 10 secondi, dai serbatoi dell’Arizona, una goccia d’olio sale in superficie, a ricordare quell’ormai lontano episodio. Ogni nave che passa davanti al mausoleo schiera sul ponte, nel saluto, l’intero equipaggio. “Se loro sono lì sotto da cinquant’anni, mi disse il reduce scampato ventenne al proditorio attacco, è giusto che oggi io passi accanto a loro qualche diecina di minuti”.

E se devo citare il servizio che mi ha dato più soddisfazione, esula da tutti quelli che ho già riferito. Un servizio atipico, realizzato nel 1992 in Giappone, al seguito di un gruppo di ragazzi down che in Italia praticavano il judo, assistiti dai compagni di palestra. Il mio operatore Danilo Marabotto camminava per le strade di Tokyo reggendo con una mano la telecamera, dando l’altra mano a uno di questi ragazzi.

Nella palestra del grande Jigoro Kano, il fondatore del judo, i campioni del mondo si lasciavano schienare da queste persone, forse sfavorite dalla natura, ma in possesso di un pensiero logico certamente semplice, ma anche limpido, pragmatico, essenziale, senza infingimenti o contorsioni.

Io sono fatto così. Il down non mi delude mai, perché sento che si impegna sempre nella direzione giusta. La nazionale di calcio, invece, qualche volta mi delude. Per non parlare di certi politici, in genere di sporadiche e non eccelse letture.

                                                                                                                         I.G.

  

 
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