BIOGRAFIA
Una biografia, quando viene chiesta al diretto interessato, è
un’autobiografia, e soffre di tutti i difetti delle autobiografie.
Perciò perdonatemi.
Sono nato a
Tripoli, di maggio, nel 1934, a pochi passi da un grande mare
e alle soglie di un grande deserto. Venire al mondo in primavera e in
grandi spazi mi ha dato una vocazione alla libertà che non mi ha mai
abbandonato in seguito. Un regime negatore dei diritti più elementari,
del suo come degli altri popoli, ha reso anzitempo me e mia sorella,
tre e due anni, gli orfani di un eroe, e mia madre una vedova di
guerra. Avrei preferito che mio padre non fosse un eroe, e che da
antieroe rimanesse con noi.
Mia madre,a quell’epoca, aveva 23 anni; mio padre, 28. Erede di una
famiglia agiata della provincia di Catania, per dissidi con i familiari
aveva lasciato la Sicilia per arruolarsi in Libia. Una volta congedato,
aveva messo su una piccola ditta di trasporti. In quell’estate del 1937
era partito per andare a realizzare opere pubbliche nell’appena
conquistata
Etiopia, o Abissinia, come si diceva allora. Bastarono meno
di 100 chilometri in territorio etiopico per incorrere in un’imboscata,
da cui si salvarono in meno della metà.
Per un anno, in una colonia
elioterapica di Tripoli, mia sorella ed io attendemmo il
ritorno di nostra madre, che era andata in Cirenaica
a cercare lavoro. Per tutta la vita, mia madre è stata un’impiegata
avventizia, oggi si direbbe precaria, dello Stato italiano.
Dopo una serie di peregrinazioni a Bengasi,
Derna,
Tobruk, ci stabilimmo a Porto Bardia,
al confine con l’Egitto, non lontano da El Alamein.
La guerra stava per arrivare. Mia madre si portava mia sorella, quattro
anni, in ufficio. Non poteva portare anche me. Perciò, visto che non
c’era l’asilo infantile, mi misero come uditore in prima elementare.
Alla fine furono costretti a promuovermi in seconda, dandomi anche un
premio.
Il superiore di mia madre era un giovane capitano dell’esercito,
Salvatore Castagna. Era il sindaco del paese. Quando era un
militare, il sindaco veniva chiamato residente, quando era civile
podestà. Salvatore Castagna era un grande, che qualche anno dopo
sarebbe divenuto celebre come il colonnello della
Sagra di Giarabub: “Colonnello non voglio l’acqua,
dammi il fuoco distruggitore, con il sangue di questo cuore la mia sete
si spegnerà. Colonnello, non voglio il cambio, sono morto per la mia
terra, ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub”.
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Salvatore Castagna |
Mica tanto azzeccata, la profezia dei corifei del regime. Puntando
sulla battaglia del grano, sull’oro alla patria, su otto milioni di
baionette, intossicavano le tenere coscienze di noi bambini con orrori
come questo, pubblicato dal Corriere dei Piccoli:
“Per paura della guerra, re
Giorgetto d’Inghilterra chiede aiuto e protezione al ministro
Ciurcillone”. Nel giro di pochi mesi, i pavidi Giorgetto e
Ciurcillone ridussero a colabrodo la marina, il parco carri armati, gli
aerei globetrotter del regime e, con i deretani degli stessi
denigratori, la loro reputazione ed attendibilità. Ma intanto essi ci
costringevano a cantare Giovinezza, Sole che sorgi, Roma
rivendica l’impero e a stendere il braccio nel saluto romano.
A sei anni, io cominciavo a manifestare la mia vocazione di giramondo.
Tra navi e pullman, avevo già accumulato
seimila chilometri di viaggi.
L’arrivo della guerra ci costrinse a trasferirci a Misurata, la seconda
provincia della Tripolitania. “Cosa andiamo a misurare?”
chiedevo a mia madre. Questo alone di disincanto, tra il surreale, il
romanzesco e l’onirico, a volte anche il tragico, mi ha circondato per
tutto il resto della vita.
In seconda elementare, a Misurata,
una mia compagna di classe, seienne come me, si chiamava
Rossana Podestà. Divenuta poi una delle principali attrici
italiane della sua stagione.
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Rossana Podestà |
Gli inglesi venivano a bombardare tutti i giorni. Quando un aereo
inglese veniva abbattuto, con la seta dei paracadute i nostri genitori
facevano biancheria intima per noi bambini. Ogni tanto, un lampo
d’umanità squarciava l’orrore della guerra. Ricordo il funerale nella
piazza della Cattedrale di un pilota inglese ucciso dalla contraerea.
Una Cicogna britannica si avvicinò di soppiatto, e anzichè le bombe,
sganciò sul feretro una corona di fiori.
Nel 1941, ogni volta che suonavano le sirene, mia madre lasciava
l’ufficio e correva disperatamente verso casa, alla ricerca di noi due,
che allora avevamo sette e sei anni. Finchè non decise di mandarci in
Italia, possibilmente dai familiari di mio padre. Mi cucì un po’ di
soldi nella tasca della giacca, e ci affidò a una signora che andava a
trovare dei parenti a Roma. Il primo aereo della mia vita fu un
trasporto militare, con i sedili di tela appesi alle pareti e la
mitraglietta sulla cupola.
Dovevamo andare da Tripoli a
Castelvetrano, in Sicilia, evitando Malta,
ultrapresidiata dagli inglesi. Perciò puntammo sulla Tunisia.
Sarebbe dovuta bastare una mattinata, ci vollero tre giorni. L’aereo,
per una avaria al motore, fece un atterraggio di emergenza all’isola di
Gerba. Erano i giorni del ghibli.
La sera, dormimmo sulla pancia
dell’aereo. L’indomani, per pranzo, ci fecero un ottimo minestrone.
Peccato tutta quella sabbia nel piatto e fra i denti.
La sera dormimmo tutti in un albergo dell’isola un po’ demodé,
tipo Montparnasse. L’indomani, alla partenza dell’aereo, si presentò un
altissimo ufficiale con i baffoni, e con due sacchetti di caramelle per
i due cuccioli della comitiva.
I nostri parenti
non ne vollero sapere di noi. Dopo averci tenuti 15 giorni in casa dei
suoi parenti a Roma, la signora che ci accompagnava andò alla
GIL, la Gioventù italiana del Littorio, a chiedere cosa farne
di questi due bambini. Ci mandarono a Gubbio, a 40 chilometri da
Perugia, splendido centro tutto salite e discese affacciato con il suo
Palazzo dei Consoli su una magnifica valle. Per chi non lo avesse
riconosciuto, il Palazzo dei Consoli è il castello che ha ospitato la
caserma dei carabinieri nella fiction televisiva di Don Matteo. In
costante rivalità con tutta Italia, e soprattutto con Viterbo, per la
corona di più bel borgo medioevale della penisola, Gubbio ha un’altra
caratteristica. D’estate è una fornace, d’inverno un
congelatore.
Ogni anno, il 15 maggio, i rappresentanti dei tre quartieri cittadini
si cimentano nella corsa dei ceri, tre colonne variopinte con in cima
le statue di Sant’Ubaldo, un vescovo di nove secoli fa, patrono di
Gubbio, San Giorgio e Sant’Antonio. Ogni colonna è poggiata su una
barella orizzontale, più o meno come la macchina di Santa Rosa a
Viterbo.
La giornata comincia da piazza San Francesco, con una serie di giretti
a fondo valle, con le famose “birate”, i giri del cero su se stesso,
inframmezzati da generose libagioni. Poi si sale al Duomo, per
arrampicarsi a passo sempre più veloce verso il Santuario che ospita la
tomba del patrono. Sant’Ubaldo, per tradizione, parte per primo, e
sbarra agli altri l’ingresso al Santuario. Ma tutti devono impegnarsi a
fondo, altrimenti rischiano di essere botte. I contradaioli, compresi
mamme, bambini, venditori di palloncini e di gadget, vestono gli stessi
colori dei tre santi e dei facchini dei ceri.
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Gubbio: Il Palazzo dei Consoli |
Gubbio: la festa dei ceri |
A questa tradizione, di recente, se
ne è aggiunta una seconda: il più grande
albero di Natale del mondo, una coreografia luminosa che si arrampica
sulla montagna, dalla valle al Santuario del Monte Sant’Ubaldo.
La colonia della GIL era un edificio scolastico poco fuori dei portici
della grande piazza San Francesco. A me sembrava immenso. Ci vivevamo
in 400: 300 ragazze fino ai 18 anni, 100 maschi fra i 6 e gli 11.
Provenivano tutti da vari villaggi
rurali: Garibaldi, Mazzini, Tazzoli, Michele Bianchi e così
via. Mia sorella ed io eravamo gli unici cittadini ed eravamo i figli
dell’eroe. Quindi, ci spettava un trattamento diverso dagli altri.
Finite le elementari, le ragazze restavano per frequentare le
secondarie, i maschi venivano trasferiti alla colonia di Collestrada,
vicino Perugia, dove imparavano a zappare la terra. Destino non
ipotizzabile per me, che ero pure bravo a scuola. Pensò la fine della
guerra, nel giorno del mio undicesimo compleanno, l’8 maggio 1945, a
risolvere il dilemma.
Subito dopo l’arrivo, per me, salutare rapatura a zero antipidocchi
(no, il ciuffo no!), cresima e prima comunione per tutti e due. I
nostri genitori si erano mostrati leggermente patriottici, chiamandoci
Italo e Italia. Mia moglie Teresa ha sempre detto che un terzo figlio i
miei lo avrebbero chiamato Patria mia.
I figli dell’eroe meritavano di avere per padrino e madrina il federale
del fascio di Perugia, un gentile e mite oculista a nome Camillo
Giannantoni, e la fiduciaria del fascio di Gubbio, Luce Danzetta. La
cosa comportava per noi dei privilegi. Per tutti gli anni successivi,
nonostante che vestissimo stracci e calpestassimo la neve, portando
scarpe con la suola di autarchico cartone, ad ogni Pasqua e Natale
eravamo ospiti dei responsabili locali del fascio, incontravamo ragazzi
della nostra età, mangiavamo bene, e i nostri letti, la sera, erano
resi confortevoli dal famoso scaldino di allora, chiamato prete.
Rivivevamo insomma l’atmosfera familiare.
Il pane del sapere ce lo spezzavano insegnanti in genere bravissimi. Le
mie maestre della scuola elementare, le signore Cordovani e Costantini,
erano superlative. Quest’ultima sacrificò a me la sua merenda, il
giorno che per scommessa, in quarta elementare, a un ispettore venuto
dal Ministero, seppi coniugare il passato remoto del verbo cuocere.
I giocattoli scarseggiavano. Ci ingegnavamo. Per giocare a dama,
coloravamo con il verde delle foglie un quadratino si e uno no del
marciapiede, nel cortile dell’istituto. Nel resto della giornata, ci
accudivano le vigilatrici, odiatissime, soprattutto dalle ragazze. E si
sentivano cantare ritornelli come questi: “Rapaglià,
Rapaglià, chettepossinammazzà!”
“Sempre
patate, sempre fagioli, questa è la vita che ci fan far, buttate via
‘sta porcheria, che non è roba da mangiar!”
“Macchinista,
macchinista di Perugia, metti l’olio negli stantuffi, che di Gubbio
siamo stuffi, e a casa nostra vogliam tornar!”
Intanto la guerra proseguiva, con nostra madre da una parte del fronte,
noi dall’altra. Attraverso la Croce Rossa Internazionale, riuscivamo a
scambiarci una lettera ogni sei mesi. I bombardamenti, le cannonate,
l’uccisione dei 40 martiri di Gubbio per una rappresaglia tedesca. Poi,
una mattina dell’estate ‘44 i tedeschi in fuga e una colonna di persone
rifugiatesi in montagna, che scendevano a valle sventolando fazzoletti
bianchi.
Crollato il regime fascista, la colonia era nel caos. Amministatori
disonesti avevano depredato il depredabile. Noi, per mangiare,
dissotterravamo dai campi le patate e le consumavamo crude, con tutta
la buccia e la terra. Generose famiglie contadine della frazione Padule
si offrirono per ospitare, ognuna per un mese, un ragazzo o una ragazza
della colonia. A me capitò la famiglia Minelli. Avevano una bambina di
dieci mesi di nome Ombretta e gestivano un piccolo spaccio di
alimentari. Avevo dieci anni. Un bicchiere di vino di prima mattina e
la prima solenne sbronza della mia vita.
Il soggiorno non era male. Dal letto si raggiungeva senza difficoltà il
davanzale e da lì l’albero di ciliegio. Vi facevo colazione ogni
mattina. Ma gli stenti e la scarsa igiene alimentare mi avevano
massacrato i reni. Ero in anticipo di un anno sulla scuola e avrei
dovuto frequentare la prima media, ma per tutto il primo quadrimestre
rimasi ricoverato nell’infermeria della colonia con la nefrite,
oltretutto contagiosa.
Un altro che si sottraeva al destino dello zappatore era Francesco
Canale, figlio di un’altra maestra della colonia e mio compagno di
banco in quinta elementare. Lo sarebbe stato anche alla prima media,
naturalmente nel secondo quadrimestre. La madre gli aveva comprato i
libri, e quando si era trattato della matematica,
ne aveva preso uno anche per me. Fu
l’unica mia lettura di quel periodo, e alla fine ne sapevo più
dell’autore. Le conseguenze furono sorprendenti.
Frequentai la scuola nell’ultima settimana del quadrimestre, e alla
fine mi classificarono, in modo un po’ incerto e direi discontinuo.
Italiano cinque cinque, latino cinque cinque, storia cinque, geografia
cinque, disegno due, matematica otto.
Alla fine dell’anno, avevo recuperato pienamente. Nonostante che fossi
il più piccolo, mi avevano fatto capoclasse. Il mio professore di
lettere, il formidabile professor Nuti, poi sindaco di Gubbio e
deputato, quando usciva per chiacchierare con un collega o per fumarsi
una sigaretta, mi affidava la masnada. E io tenevo lezione.
L’8 maggio, il giorno del mio compleanno (compleanno anche di Roberto
Rossellini, con
Luchino Visconti e
Vittorio De Sica uno dei grandi cantori del neorealismo
italiano), la grande notizia: la guerra è finita. Corro alla scuola: “Datemi
la pagella, che parto!” Due mesi di peregrinazioni per la
gamba e il tacco della penisola, poi l’imbarco per Tripoli. Mia madre
era ad attenderci in piazza, a Misurata. Aveva conservato nei cassetti
le mie magliette di quattro anni prima. Mi stavano larghe.
Se dico che facevamo la fame, il termine è realistico. A Misurata non
c’era la scuola media. Mi preparai agli esami della seconda media, da
privatista. Un avvocato mi insegnava
italiano e latino, un funzionario statale storia e geografia, due
impiegati di banca inglese e francese, il direttore didattico la
matematica. Per la musica, c’era l’organista della cattedrale, fra’
Norberto.
L’esame andò bene. Ci trasferimmo a Tripoli, dove affrontai la terza
media, e poi il ginnasio-liceo Dante Alighieri.
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Tripoli - Liceo Dante Alighieri |
Un anno all’associazione cattolica della cattedrale tenuta dai
francescani, e servizi di chiesa connessi, poi l’approdo
all’associazione dei Frères, dove era appena arrivato fratel Arnaldo.
Il giorno che mia madre portò in casa per la prima volta una radio,
dalla scatola magica uscirono prima la voce di Alberto
Sordi, poi quella di Nando
Martellini.
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Alberto Sordi |
Nando Martellini |
Decisi che quello sarebbe stato il mio destino. E tutto sommato, credo
che anche questa volta mi sia andata bene. Intanto, nell’associazione
cattolica dei Frères, dilagavo. Ero un fuoco di artificio di idee.
Credo che per me, secondo quel che ho potuto ricostruire dalle
testimonianze, fratel Arnaldo abbia nutrito la stessa ammirazione che
io ho sempre nutrito per lui. In effetti, la sua figura giganteggia
nella mia vita e nella mia formazione. Da lui ho imparato la lealtà e
il rigore, ma anche un approccio allegro alla vita.
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Fratel Arnaldo |
Per alcuni mesi, a tredici anni, insieme con un coetaneo dell’INCIS,
Attilio Mainardi, ho tenuto ogni domenica a Radio Tripoli una rubrica
di cinque minuti sulle cose che potevano interessare i tredicenni. A
quindici anni, mi hanno offerto la
responsabilità della pagina sportiva del Corriere
di Tripoli, che ho conservato per tre anni, cedendola poi a
un altro lasalliano, Vincenzo Rovecchio. Avevo un ruolo istituzionale,
ed ero invitato alle manifestazioni ufficiali. Il console italiano a
Tripoli era Roberto Gaja, poi segretario generale della Farnesina,
ambasciatore a Washington, prestigioso editorialista.
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Vincenzo
Rovecchio |
Roberto Gaja |
La frequentazione del consolato mi ha consentito di coltivare una ormai
sessantennale amicizia con Giorgio Gaja, più giovane di me di cinque
anni, oggi uno dei più importanti giuristi italiani, l’unico presente
in una corte internazionale di giustizia.
Mi sono dilungato sul periodo dell’infanzia e dell’adolescenza perché
il più intriso di tripolinità (in fondo anche a Gubbio ero circondato
da italo-libici), quello in cui più che in qualsiasi altro si sono
formati il mio sistema di valori e il mio bagaglio umano, culturale e
professionale.
Valori che non esito a definire collettivi, perché sento di
condividerli con chiunque abbia vissuto negli stessi ambienti e
respirato le stesse atmosfere, indipendentemente dal fatto che il tutto
sia avvenuto in Libia o in Italia o altrove. Avverto con tutti loro un
comune sentire, quello di chi percepisce di aver vissuto non nello
stesso luogo ma in uno stesso mondo dai confini straordinariamente
allargati.
Un cittadino globale, insomma, pieno di calore umano e privo
dell’asetticità pseudotecnologica e della mancanza di solidarismo (o di
solidarietà), che il termine globale inevitabilmente trascina con sé.
Alle case INCIS, nel palazzo a sinistra del mio, viveva il futuro
fondatore del Manifesto,
Valentino Parlato, figlio del capoufficio di mia madre
all’ufficio tasse di Tripoli. Nel palazzo di destra, viveva l’allora
sua fidanzata, Clara Valenziano, divenuta anch’essa una celebre
giornalista di Repubblica.
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Valentino Parlato |
Innumerevoli sono i tripolini legati al mondo della comunicazione. Ne
cito alcuni. Ignoravo fino a qualche giorno fa che Paolo Mieli
fosse un tripolino anche lui. Suo padre, Renato
Mieli, ha diretto il Corriere di Tripoli, per cui io stesso
ho lavorato.
Clemente Mimun, negli anni direttore del TG2, del TG1, poi
del TG5, è figlio di tripolini. E’ tripolino
Eugenio De Paoli, figlio di un imprenditore e attuale
direttore di Raisport, che in seconde nozze ha sposato la figlia di un
famoso diplomatico tripolino,
Vittorio Surdo, già ambasciatore a Mosca e tuttora residente
nella capitale russa.
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Paolo Mieli |
Clemente Mimun |
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Eugenio De Paoli |
Vittorio Surdo |
E’
tripolino David Zard, organizzatore delle performances di Madonna,
Cocciante e tanti altri.Madonna,
Cocciante e tanti altri.
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David
Zard |
E’ tripolino Mario
Platero, responsabile del Sole 24 Ore per il continente
americano. E’ tripolino Ugo
Porcelli, braccio destro di Renzo Arbore. E’ tripolino Andrea
Zappia, amministratore delegato di Sky Tv Italia.
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Mario Platero |
Ugo Porcelli |
Andrea Zappia |
E infiniti altri: psicoanalisti di grido, avvocati, medici,
commercianti, manager, ristoratori, docenti universitari, ricercatori e
cacciatori di teste, artisti a non finire. Uno per tutti, uno sportivo:
Guido Costa, il fabbricatore del leggendario campione di velocità su
pista Antonio
Maspes, era compagno di banco di mio zio Giovanni Campailla
alle scuole medie di Tripoli.
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Antonio Maspes in azione |
Non sapevo che fosse tripolino, quando lo conobbi, Vittorio Veltroni,
padre di Walter e Valerio, vissuto in Libia per 17 anni. Ma lui sapeva
che io lo ero.
Nel 1950, con mia madre, venimmo a Roma per l’Anno Santo. In pantaloni
corti, mi presentai a Vittorio Veltroni nella sede della radio (la
televisione non c’era ancora), in Via Oslavia a Roma. Veltroni, a 32
anni, era il capo di tutti i radiocronisti, figure leggendarie come
Nicolò Carosio, Mario Ferretti, Amerigo Gomez, Aldo Salvo, Pia Moretti,
Lello Bersani, Luca di Schiena, Nanni Saba, Gigi Marsico, Nino Vascon,
Mario Pogliotti, Piero Angela, Samy Fayad, Aldo Scimè, Domenico
Giordano Zir e via dicendo, chiedendo scusa ai non citati.
Gli dissi che aspiravo a fare il radiocronista. “Torna quando
finisci il liceo”. Lo presi in parola. Il giorno dopo la
maturità, presi la nave per l’Italia. Era l’ottobre 1952. Veltroni era
in casa sua, in via Savoia a Roma, con una gamba appesa al soffitto,
frutto di una spericolata manovra dell’avvocato Gianni Agnelli a bordo
di una Maserati. Diede incarico
a due celebri radiocronisti, Nando Martellini e Antonello Marescalchi,
di sottopormi a un provino. Diedero parere positivo.
Io già studiavo Legge alla Sapienza. Per alcuni mesi, implorai
qualsiasi radiocronista che uscisse per un servizio, a bordo del mitico
furgone attrezzato detto “Giuseppone”, dal nome
del suo primo autista, di portarmi con sé. Se necessario, davo anche
una mano al montaggio.
Finchè non venne il giorno del mio primo servizio in proprio. Dovevo
intervistare Giulio Girola, attore piemontese di grande scuola e di
fisico minuto, tanto da essere chiamato ad interpretare diverse volte,
negli sceneggiati televisivi Re sciaboletta,
Vittorio Emanuele III. Aveva una grande esperienza ma era terrorizzato
dall’intervista. Al punto che a me il terrore passò. In fin dei conti,
non avevo ancora 19 anni, ma avevo già sei anni di giornalismo alle
spalle.
All’impegno con le radiocronache si aggiunsero presto quelli con il
Gazzettino di Roma, la mattina, e con la Redazione Sportiva, il resto
della giornata. Qui, oltre a scrivere testi e a realizzare servizi,
battevo a macchina i testi degli altri, perché non avevamo una
segretaria e i computer erano di là da venire.
Intanto Vittorio Veltroni era stato chiamato a Milano, per mettere in
piedi il primo telegiornale. Vi sarebbe rimasto tre anni, prima della
prematura scomparsa, nel 1956.
Lavoravo 365 giorni l’anno, 366 i bisestili. Chi era in pianta stabile
godeva di un giorno di riposo a settimana. Io no. Di settimana corta
non si parlava ancora. La mia attività si allargava, al punto che,
quello stesso 1956, la RAI fu costretta ad assumermi, come praticante.
L’anno dopo sarei divenuto il più giovane giornalista professionista
italiano.
La miopia di un’azienda intenta a turare i buchi di organico più che ad
agevolare il contesto familiare e culturale di un suo dipendente mi
sradicò ad Ancona, lontano dal mio lavoro precedente, dai miei affetti,
dai miei amici, dai miei studi. Ero lontano anni luce da qualsiasi
facoltà universitaria. La mia laurea in legge abortì a metà strada.
Ogni due settimane cumulavo due giorni di riposo, per venire a Roma e
sollecitare il ritorno a casa. Se avessi avuto santi in paradiso, il
mio cammino sarebbe stato diverso. Allora andava così. Anche adesso.
Al termine della prima settimana trascorsa ad Ancona, tornai a Roma.
Vittorio Veltroni, uno dei miei maestri e il più grande radiocronista
italiano della storia, era morto qualche giorno prima, fulminato da una
leucemia. La sua morte passò in sordina, oscurata dal clamore per
l’affondamento dell’Andrea Doria nell’oceano atlantico.
Con un collega, andammo a trovare Ivanka a Rocca Di Papa. Coccolammo Walter
che aveva un anno. In casa Veltroni ho conosciuto quella che nel ’61
sarebbe diventata mia moglie, mia figlia Lelia è stata tenuta a
battesimo da Ivanka Veltroni, mio figlio Roberto ha per secondo nome
Vittorio. Ivanka ci ha lasciato il 31 marzo 1992, il giorno dopo la
morte di mia madre.
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Vittorio
Veltroni |
Walter
Veltroni |
Tornai a Roma all’inizio dell’anno 1960, sei mesi prima delle olimpiadi
romane. Tutto il calcio minuto per minuto era
stato appena inventato da Guglielmo Moretti, che di lì a poco sarebbe
divenuto il capo della redazione sportiva della radio. Io sono stato il
suo vice per dieci anni. Ero a fianco di Paolo Valenti nella cabina
dello stadio olimpico quando Livio Berruti vinse i 200 metri delle
Olimpiadi, uguagliando per due volte in un pomeriggio il record
mondiale, e di Nando Martellini all’arco di Costantino quando Abebe
Bikila vinse la maratona.
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Livio Berruti |
Abebe Bikila |
Con tutto il Gotha dello Sport alla radio, sono stato radiocronista in
dieci giri d’Italia, in quattro Olimpiadi (in due, responsabile della
redazione di supporto romana, che copriva le trasmissioni dell’intera
giornata, altre Olimpiadi le ho seguite per la televisione), in
innumerevoli campionati di calcio, nuoto, tennis, atletica, pugilato,
con nomi come Benvenuti, Mazzinghi, Monzon, Griffith, Cassius Clay poi
Mohamed Alì, Foreman, Duilio Loi, Burruni, Arcari e via dicendo.
Una volta ho riincontrato Fratel Arnaldo, per qualche minuto, in un
giro d’Italia, a un incrocio nei pressi di Montebelluna. Mi indicava ai
suoi allievi e trasudava orgoglio da ogni capello. Non so se si
rendesse conto che se ero lì in quella veste, nella mia tutina azzurra,
era anche merito suo.
Un anno, era il '65, mi capitò di ritornare a Gubbio, proprio il giorno
della festa dei ceri. Era un sabato, e la seconda tappa del giro
portava da San Marino a Perugia. Avevo esaurito il lavoro dei
notiziari, prima della diretta dell’arrivo, quindi raggiunsi
rapidamente Gubbio, gremita di contradaioli in festa. Mi feci portare
all’edificio scolastico della mia infanzia e chiesi all’autista di
tornare a riprendermi dopo mezz’ora. La mezz’ora più atipica della mia
vita, mista di tenerezza e di rimpianto, di pace e di dolore. Tra
quelle mura diventate improvvisamente così piccole, si era consumata
una parte importante della mia vita. Ero cresciuto anzitempo. E quel
giorno ripensavo alla mia azienda, che ho amato e odiato, che mi aveva
strappato alla famiglia
e agli studi, che mi aveva reso difficili destino individuale e cammino
professionale, e che pure mi pagava per un lavoro per cui avrei pagato
io.
Una sensazione che mi ha accompagnato spesso, nella carriera
professionale: tra i grattacieli di New York, tra gli aquiloni della
marina di San Francisco o i roseti di Lombard Street,
nelle avenidas di Buenos Aires o nei
ristoranti cinesi della baia di Hong Kong, tra i pinnacoli dei razzi
spaziali di Capo Canaveral ogni tanto mi sono sorpreso a domandarmi
perché per coprire quel particolare avvenimento avessero scelto proprio
me. Sempre meglio che lavorare. La frase
originale è di Luigi
Barzini jr, copiata all’infinito.
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Con amici a New York 01 |
Con amici a New York 02 |
Folla a new York |
Una volta lasciate, come princIpale attività, le cronache sportive il
mio interesse si è allargato ad altri campi, in primis la politica
estera, ma anche l’astronautica, le elezioni dei Papi, le guerre, la
grandi cronache internazionali.
Vent’anni di spola con l’America. Una vita vissuta alla luce dei
riflettori, in ogni parte del mondo. Quando ancora esisteva l’Unione
Sovietica avevo visitato tutti gli stati d’Europa, tranne l’Albania.
Alcuni, diverse diecine di volte. E anche il resto del mondo, l’ho
bazzicato di continuo. Continuando a lavorare in Rai, mi sono concesso
un regalo che l’ottusità di qualche burocrate mi aveva negato
trent’anni prima: una laurea in psicologia, alla soglia dei 60 anni. Mi è stata molto utile,
anche nei pochi anni successivi di permanenza in Rai.
E visto che parliamo di psicologia, rimango fra le corde a me più congeniali. Una frase che
difficilmente dimenticherò me la disse nel 1991 un reduce nel 50°
anniversario del bombardamento giapponese di Pearl Harbor, il porto
militare di Honolulu. Un mausoleo è stato costruito nel punto in cui la
corazzata Arizona colò a picco, con 900 marinai tra le lamiere. Ancora
oggi, a oltre 70 anni di distanza, ogni 10 secondi, dai serbatoi dell’Arizona, una goccia
d’olio sale in superficie, a ricordare quell’ormai lontano episodio.
Ogni nave che passa davanti al mausoleo schiera sul ponte, nel saluto,
l’intero equipaggio. “Se loro sono lì sotto da cinquant’anni,
mi disse il reduce scampato ventenne al proditorio attacco, è
giusto che oggi io passi accanto a loro qualche diecina di minuti”.
E se devo citare il servizio che mi ha dato più soddisfazione, esula da
tutti quelli che ho già
riferito. Un servizio atipico, realizzato nel 1992 in Giappone, al
seguito di un gruppo di ragazzi down che in Italia praticavano il judo,
assistiti dai compagni di palestra. Il mio operatore Danilo Marabotto
camminava per le strade di Tokyo reggendo con una mano la telecamera,
dando l’altra mano a uno di questi ragazzi.
Nella palestra del grande Jigoro
Kano, il fondatore del judo, i campioni del mondo si
lasciavano schienare da queste persone, forse sfavorite dalla natura,
ma in possesso di un pensiero logico certamente semplice, ma anche
limpido, pragmatico, essenziale, senza infingimenti o contorsioni.
Io sono fatto così. Il down non mi delude mai, perché sento che si
impegna sempre nella direzione giusta. La nazionale di calcio, invece,
qualche volta mi delude. Per non parlare di certi politici, in genere
di sporadiche e non eccelse letture.
I.G.
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