LA
STANZA di Francesco Caronia |
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Francesco Caronia
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26 ottobre 2017
Ciao Domenico,
l'estate scorsa avevo letto su un giornale che alcuni studiosi avevano
decifrato una lettera scritta da una suora, su dettatura del diavolo.
Ho approfondito l'argomento che mi aveva incuriosito e ho scritto
quattro paginette che ti allego, per un tuo commento. Ti auguro una
buona serata e a risentirci. Franco
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LA
LETTERA DEL DIAVOLO
di
FRANCO CARONIA
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Il Monastero delle
Benedettine di Palma Montechiaro (AG), attiguo alla cattedrale del SS.
Rosario, fu fondato negli anni 1653 – 1659, ad opera del duca Giulio
Tomasi che mise a disposizione il suo palazzo ducale, donandolo alla
Chiesa ed eseguendo a sue spese tutti i lavori di ristrutturazione
necessari per trasformarlo in un convento di clausura.
Un
celebre discendente della famiglia Tomasi è stato lo scrittore
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore del romanzo “Il Gattopardo”, un
classico della letteratura italiana.
Monastero di
clausura Santo Spirito
Soffitto del
Palazzo Ducale
Giulio
Tomasi era fratello gemello di Carlo il quale, colto da una crisi
religiosa, aveva donato tutti i suoi beni al fratello, titolo nobiliare
compreso e si era rifugiato in un collegio, prima a Palermo e poi
a Roma, dove ha trascorso il resto della sua vita dedicandosi allo
studio della teologia.
Giulio
invece, ambizioso e realista, sposò la baronessa di Falconeri
Rosalia Traina, l’ex fidanzata del fratello Carlo, che oltre ad essere
già ricca di suo era anche la prediletta nipote del vescovo di
Girgenti, Francesco Traina, uomo anch’egli molto ricco e famoso per la
sua proverbiale avarizia. Giulio si conquistò in tal modo una posizione
sociale invidiabile nell’ambito dell’alta aristocrazia del tempo.
I
coniugi Tomasi ebbero otto figli, cinque femmine e tre maschi. Le
femmine, per scelta o per costrizione, entrarono tutte nel convento di
clausura di Santo Spirito che il padre aveva fatto costruire. Dei
maschi, il primogenito Giuseppe Maria si era fatto prete, poi divenne
vescovo e nel 1986 fu proclamato santo da Giovanni Paolo II, il
secondo era morto prematuramente ed il terzo, Ferdinando, ereditò
tutto il patrimonio di famiglia, oltre ai titoli nobiliari.
Il
destino toccato alle femmine appartenenti alla nobiltà di quegli anni
era generalmente già segnato alla nascita. Educate con rigore alla vita
religiosa finivano per scegliere la vita monastica per cui la famiglia
risparmiava la dote, mantenendo così integro il patrimonio da
trasmettere ai figli maschi che lo ereditavano.
Isabella,
una delle tre sorelle rinchiuse nel convento di Santo Spirito, era la
secondogenita e in quanto femmina aveva deluso le attese dei genitori i
quali avrebbero preferito un figlio maschio. Nacque il 29 maggio
1645 e venne alla luce avvolta in un velo bianco che parve subito, agli
occhi del duca, una chiara indicazione divina che la bimba fosse
toccata dalla grazia di Dio e che dovesse pertanto farsi monaca.
Dopo
aver trascorso un’infanzia tutta dedita alla preghiera e agli esercizi
spirituali, entrò in convento il 7 ottobre del 1660, all’età di
quindici anni e prese il nome di Suor Maria Crocifissa della
Concezione. In convento si distinse per la sua intensa attività
spirituale e la costante lotta contro il Demonio.
Aveva
spesso delle visioni, in particolare della Madonna, seguiva
scrupolosamente le regole dell’ordine Benedettino e compiva atti di
penitenza, come portare il cilicio e flagellarsi il corpo, fino a
procurarsi lacerazioni nella carne con conseguente perdita di sangue. I
superiori che la seguivano constatavano che nelle sue esternazioni era
particolarmente guidata da Dio.
Un
giorno d’agosto del 1676 veniva trovata per terra svenuta nella sua
cella, il volto sporco di inchiostro nero e in mano teneva una lettera
scritta con caratteri di un alfabeto incomprensibile. La stessa Suor
Crocifissa avrebbe poi riferito alla badessa e alle consorelle che la
lettera le era stata dettata personalmente da Satana, dopo aver
sostenuto un’aspra lotta.
Lettera del
Diavolo
Cattedrale di Palma
Montechiaro
La Lettera del Diavolo, scritta in un
solo foglio, era composta da dodici
righe ben allineate e scritta con caratteri strani, alcuni presi dal
greco antico e altri dall’alfabeto cirillico, dal contenuto comunque
indecifrabile. La lettera originale è conservata nel convento di Palma
Montechiaro mentre una copia è custodita presso l’archivio della
cattedrale di Agrigento.
Molti
studiosi nel tempo hanno tentato di decifrarne il significato ma senza
ottenere alcun risultato.
Solo
recentemente un gruppo di esperti, soprattutto informatici, utilizzando
un algoritmo, sono riusciti a svelare buona parte del mistero. Si
parla in maniera confusa e non del tutto comprensibile della presenza
del Demonio che lotta in tutti i modi per impedire a Dio di liberare
dai peccati i poveri mortali. Una sola parola era scritta in italiano:
“ohimè”.
Suor
Crocifissa aveva scritto tantissime lettere che sono state raccolte in
un volume “lettere spirituali” e pubblicate a Venezia nel 1711. Lo
scrittore Leonardo Sciascia, in un suo libro, ha pubblicato una di
queste lettere, che la suora aveva indirizzato al fratello Giuseppe
Maria. Il futuro vescovo rispondeva in modo severo di non condividere
l’eccessivo misticismo della sorella.
Castello
di Donna
Fugata
Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Gli
esperti che hanno esaminato la Lettera
del Diavolo ritengono che sia
stata suor Crocifissa stessa a scriverla, inventando un nuovo alfabeto
con simboli grafici creati appositamente.
Anche
lo scrittore Andrea Camilleri, trattando l’argomento in un suo libro,
ritiene che quella scrittura fosse inventata e che non aveva alcun
senso l’uso di una lingua sconosciuta, sia che la lettera l’avesse
scritta o dettata il Diavolo, sia che l’avesse scritta la suora, per la
semplice ragione che nessuno avrebbe potuto leggerla e capirne il
significato.
Negli
anni che seguirono, le precarie condizioni di salute di suor Crocifissa
si aggravarono sempre più, fino ad essere colpita da un male
inspiegabile per i medici di allora. Aveva perso l’uso della parola e
non riconosceva più nessuno.
Morì
nel 1690, fu sepolta nello stesso convento di Santo Spirito e circa un
secolo dopo fu proclamata Venerabile della Chiesa cattolica. Anche i
genitori di suor Crocifissa, il duca Giulio e la consorte Rosalia
Traina, in tarda età, a seguito di una crisi mistica, finirono per
rinchiudersi in convento.
Leonardo
Sciascia scrive che il torbido misticismo dei Tomasi era condotto con
caparbia tenacia e le penitenze per flagellarsi il corpo a sangue
riempiono di spavento e di orrore più che le pagine di Sade. Sul fatto
che l’autore del Gattopardo abbia cambiato il nome della beata Maria
Crocifissa in “Corbera”, nome di una nobile famiglia estinta di Santa
Margherita Belice, Sciascia scorge una sottile ironia perché nota la
contrapposizione a una figura mistica, un personaggio in un certo senso
chiacchierato.
Leonardo Sciascia
Andrea Camilleri
Nel
Gattopardo Giuseppe Tomasi scrive: "Abitudini
secolari esigevano che il
giorno seguente all’arrivo la famiglia Salina andasse al monastero di
Santo Spirito a pregare sulla tomba della beata Corbera, antenata del
principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi
era vissuta e santamente vi era morta". Riferendosi ai suoi
antenati e
le loro crisi mistiche, a distanza di due secoli, scorge un susseguirsi
di follie, dalle quali prende le distanze, come per marcare
l’inesorabile trascorrere del tempo e i cambiamenti della società.
Quando Tancredi a casa dello zio scopre un armadio dove sono esposti
fruste e cilizi, ebbe paura e rivolto ad Angelica dice che non c’è
niente di interessante, come per chiudere un capitolo triste e doloroso.
Le
vicende finora raccontate, che fanno riferimento al Convento di
clausura Santo Spirito, non si esauriscono qui; un altro tragico e
allucinante episodio è accaduto all’interno del convento e solo per un
puro caso può essere raccontato, grazie alla tenacia di Andrea
Camilleri e alla sua inesauribile curiosità.
Era
il 1945, in Sicilia la guerra era finita da due anni e gli alleati
avevano conquistato l’intera isola. Iniziava un’altra guerra tra
contadini e grandi proprietari terrieri per la spartizione del
latifondo. Il bandito Salvatore Giuliano era un alto esponente
dell’EVIS, Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana e fu
coinvolto nel disegno criminale del Blocco Agrario, culminato nella
strage di Portella delle Ginestre del 1947, con 11 morti e 56 feriti.
Suor
Enrichetta Fanara, discendente di una nobile famiglia molto nota e
persona di alto sentire e di grande nobiltà d’animo, nel 1945 era la
Badessa del monastero di clausura Santo Spirito di Palma Montechiaro.
Vescovo
di Agrigento era Giovanni Battista Peruzzo, di origini piemontesi,
convinto anticomunista ma nello stesso tempo deciso sostenitore della
lotta che i contadini, bandiere rosse in testa, combattevano occupando
i feudi e le terre incolte dei latifondisti. Si era conquistato la
fiducia e un larghissimo seguito fra i contadini, rappresentando così
un vero e proprio pericolo per i grandi proprietari terrieri del Blocco
Agrario.
Ai
sacerdoti che andavano a chiedergli come dovevano comportarsi con i
comunisti, il vescovo diceva che “certi
atteggiamenti del nostro popolo
debbono ordinariamente essere considerati non come adesione alle teorie
marxiste ma come l’espressione di un animo esacerbato per la miseria in
cui si vive, per la disoccupazione che dilaga, e soprattutto,
desiderio di avere un pezzo di terra ove
lavorare”.
Nel
mese di luglio il vescovo si era recato all’eremo di Santa Rosalia , a
circa mille metri d’altitudine, per trascorrere un periodo di riposo.
Era accompagnato dal sacerdote Graceffa e un mattino avevano deciso di
fare una breve passeggiata all’aperto, per godersi la frescura
del bosco vicino.
Si
erano da poco seduti su delle grosse pietre quando
improvvisamente venivano esplosi due colpi sparati con un
moschetto modello 91, da distanza ravvicinata, che colpivano il
vescovo sessantasettenne al torace, perforandogli un polmone. Don
Graceffa, che era accanto a lui, rimaneva illeso. Il ferito era molto
grave e perdeva tanto sangue per cui Don Graceffa mandava subito
qualcuno in paese per avvertire i Carabinieri e chiedere l’intervento
dell’ambulanza con un medico per le prime cure ed il trasporto in
ospedale.
Il
giorno dopo il vescovo veniva operato dal profissore Raimondo
Borsellino e dopo sei giorni trascorsi fra la vita e la morte i medici
potevano dichiararlo fuori pericolo.
La
notizia dell’attentato fece scalpore nell’opinione pubblica, si avviava
l’indagine per individuare i responsabili e si manifestava la
solidarietà da parte dei contadini che il vescovo aveva sempre difeso.
Carenze investigative, depistaggi, speculazioni politiche non
consentirono di individuare con certezza i responsabili e se le
indagini andarono vicine sul fronte degli esecutori materiali, rimasero
molto distanti dall’individuazione dei mandanti, che sicuramente
dovevano esserci.
Circa
dieci anni dopo, esattamente il 16 agosto del 1956, la Badessa del
convento di Palma Montechiaro, suor Enrichetta Fanara, in una lettera
inviata al vescovo Peruzzo, scrive testualmente: “Non sarebbe il caso
di dirglielo, ma glielo diciamo per fargli ubbidienza. Quando V.E.
ricevette quella fucilata e stava in fin di vita, questa comunità offrì
la vita di dieci monache per salvare la vita del pastore. Il Signore
accettò l’offerta e il cambio: dieci monache, le più giovani,
lasciarono la vita per prolungare quella del loro beneamato pastore.”
Camilleri
scrive che alla lettura di quelle parole fece un salto dalla seggia,
provando sgomento e fa una attenta e arguta analisi del testo per
capire meglio il senso di quelle parole e rispondere ai tanti perché
che inevitabilmente si sarebbe posto chiunque avesse letto quella
lettera.
Camilleri
riflette anche sul perché, dopo che erano trascorsi ben dieci anni,
suor Enrichetta Fanara si decise di rivelare al vescovo che dieci sue
consorelle si erano sacrificate, donando la loro vita, per salvare
quella del loro amato vescovo. Quel gesto non doveva essere noto fuori
delle mura del convento perché ciò avrebbe significato una diminuzione
del valore cristiano del gesto stesso. La morte di dieci suore era da
intendersi come un valore cristiano?
Forse
la Badessa è stata indotta dall’ubbidienza, che significa
sottomissione dei religiosi ai loro superiori e che comprende anche
l’esecuzione di un ordine o l’effettuazione di una penitenza imposta?
Oppure si sarebbe chiesta, perché non aggiungere nella lista dei
meriti del convento, oltre ai miracoli della Beata Corbera, il
sacrificio delle dieci consorelle ?
Il
monastero ha voluto tenere rigorosamente segreti i nomi delle suore che
si sacrificarono nell’erronea convinzione di poter salvare la vita al
proprio vescovo. A
coloro che dovessero chiedersi quale utilità possa avere riesumare e
raccontare i tragici fatti di cui sopra, li inviterei a riflettere
sulle motivazioni che personaggi e istituzioni con responsabilità e
doveri ben maggiori, le stesse notizie tendono a nasconderle oppure a
limitarne il più possibile la diffusione.
Occorre
quindi parlarne affinché quanto accaduto nella Sicilia del ventesimo
secolo, retaggio del lontano medioevo, non abbia più a ripetersi,
perché di un salto indietro nel tempo si è trattato, di uno scambio di
un bene indisponibile, di un sacrilegio e non di sacrificio.
Francesco
Caronia
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