LA STANZA di Francesco Caronia
  


Francesco Caronia
   

RACCONTI


L'eredità

Nel piccolo paese di Almesi, quando una famiglia era colpita da un lutto, era usanza dedicare una settimana, subito dopo il funerale, per ricevere in casa le visite di parenti e amici che volevano partecipare al loro dolore e consolarli per la dolorosa perdita della persona cara.

Era una settimana cosiddetta di “visito”, alla quale corrispondeva l’obbligo, non scritto, da parte di tutti i parenti, amici stretti e vicini di casa a non sottrarsi a quell’incontro, al fine di scongiurare possibili incomprensioni, mancanze di rispetto, se non addirittura offese personali da legarsi al dito.

In una di queste giornate di visito Sarino aveva accompagnato sua mamma dal  vecchio zio arciprete,  don Calogero, morto di vecchiaia a quasi settant’anni nella casa di sua proprietà che abitava assieme alla perpetua, che lo accudiva. In vita il sacerdote, benché ne avesse la disponibilità, in virtù della missione che svolgeva,  non aveva mai avuto un occhio di riguardo nei confronti dei parenti, neanche per quelli che faticavano a sbarcare il lunario a causa della famiglia numerosa  o dei disastri lasciati dalla guerra.

Con la sua morte tutti i parenti, nessuno escluso, erano stati richiamati al suo capezzale, non solo e non tanto dal dolore per la sua scomparsa, peraltro naturale considerando l’età e le sue precarie condizioni di salute, quanto per l’interessante patrimonio che poteva aver cumulato e che avrebbe potuto far comodo a tutti assaggiarne una fetta.

Mentre i presenti passavano in rassegna la vita e le opere dello zio, l’incrollabile fede e le benemerenze nel tempo acquisite, con la supervisione attenta della perpetua che faceva gli onori di casa, bussava alla porta un tale che chiedeva di parlare con un parente del sacerdote morto. Sarino si prestava ad ascoltarlo e usciva fuori.

Iniziò col dire che aveva saputo della morte di don Calogero e che era venuto a porgere le sue condoglianze a tutti i parenti in segno di riconoscenza e gratitudine verso il sant’uomo per i favori e la protezione che aveva ricevuto. Aggiungeva che era un contadino, affittuario di un appezzamento di terreno di proprietà della Chiesa, per il quale pagava le tasse del terraggio che spettavano alla Curia e la decima che, era consuetudine, spettava a don Calogero, così come in passato aveva fatto suo padre. Nel timore che potesse venir meno la protezione divina, che finora gli aveva consentito di non morire di fame,  chiedeva quale parente avesse ereditato il diritto a riscuotere la decima che prima consegnava all’arciprete.

Sarino domandava  spiegazioni sul termine “decima” e il contadino rispondeva che si trattava della decima parte del raccolto di un anno che poteva essere grano, oppure ortaggi, legumi o altro ancora. Non avendo capito con precisione di cosa si trattasse e soprattutto sull’esistenza di questo diritto-dovere, chiedeva il suo indirizzo in paese e si riservava di dargli una risposta dopo aver parlato con gli altri parenti. La sera stessa chiedeva, ad uno dei suoi zii che faceva il contadino, informazioni su questo benedetto balzello.

Suo zio la sapeva lunga sulla decima perché nel mondo contadino era tradizione si tramandassero di generazione in generazione tutte le conoscenze, regole religiose e usanze che avevano una qualche attinenza col lavoro in campagna. Cominciò con la Bibbia, poi all’epoca dei Romani e infine  passò a Garibaldi di cui conservava un buon ricordo.

Nella Bibbia, disse, come in alcune occasioni ci ricordava l’arciprete, la decima è descritta come una tassa che gli agricoltori e gli allevatori di bestiame del tempo dovevano pagare per sostenere i Leviti e i Sacerdoti. Era anche un segno di riconoscenza a Dio dal quale proveniva ogni cosa. Nell’antica Roma la decima era una parte del reddito che l’agricoltore doveva pagare all’erario a titolo di imposta. Garibaldi, invece, sempre per sentito dire, era ricordato perché aveva temporaneamente abolito quella tassa  quando venne a liberare la Sicilia dai Borboni, nel 1860.

Sarino raccontava allo zio della visita del contadino del giorno prima e di comune accordo, consapevoli che più di un diritto si trattava di un abuso della credulità popolare, decidevano di riferire, anche se non rispondeva a verità, che nel testamento il sacerdote aveva disposto che tutti i contadini che versavano la decima erano liberati da questo tributo, compresi anche i futuri eredi e per sempre.

Dopo il funerale, il notaio del paese convocò tutti gli eredi legittimi per la lettura del testamento. La perpetua ebbe ampio riconoscimento per i servigi resi al prelato ed ereditò la fetta più grossa: La casa, tutto il mobilio di pregio e una somma di denaro. Gli altri ebbero un appezzamento di terreno ciascuno, di scarso valore ma tutto sommato ritennero di potersi accontentare perché,  conoscendo l’abilità della perpetua nel raggirarsi l’uomo, temevano il peggio.

Questa era la vita nel piccolo paese di Almesi, dove tutto accadeva alla luce del sole, alcuni erano consapevoli di quello che accadeva ma una  parte faceva finta di non vedere, altri di non sapere e altri ancora di non sentire.

C’era un formale rispetto per i ruoli di ognuno e un modo di comportarsi confacente al proprio stato, come ai tempi di Diocleziano, per cui i figli dei contadini dovevano poi fare i contadini e i figli degli operai avviati ad un’arte o mestiere che consentisse loro di vivere onestamente. Anche il modo di vestire doveva rispettare la classe di appartenenza.

I preti indossavano la tonaca, celebravano le funzioni ecclesiastiche ma all’interno delle mura domestiche, senza essere visti, ritornavano ad essere uomini, come gli altri.

Francesco Caronia

Homepage Ernandes vai su racconti
Indice Caronia