Nel
piccolo paese di Almesi, quando una famiglia era colpita da un lutto,
era
usanza dedicare una settimana, subito dopo il funerale, per ricevere in
casa le
visite di parenti e amici che volevano partecipare al loro dolore e
consolarli
per la dolorosa perdita della persona cara.
Era
una settimana cosiddetta di “visito”, alla quale corrispondeva
l’obbligo, non
scritto, da parte di tutti i parenti, amici stretti e vicini di casa a
non
sottrarsi a quell’incontro, al fine di scongiurare possibili
incomprensioni,
mancanze di rispetto, se non addirittura offese personali da legarsi al
dito.
In
una di queste giornate di visito Sarino aveva accompagnato sua mamma
dal vecchio zio
arciprete, don
Calogero, morto di vecchiaia a quasi
settant’anni nella casa di sua proprietà che abitava assieme alla
perpetua, che
lo accudiva. In vita il sacerdote, benché ne avesse la disponibilità,
in virtù
della missione che svolgeva, non
aveva
mai avuto un occhio di riguardo nei confronti dei parenti, neanche per
quelli
che faticavano a sbarcare il lunario a causa della famiglia numerosa o dei disastri lasciati
dalla guerra.
Con
la sua morte tutti i parenti, nessuno escluso, erano stati richiamati
al suo
capezzale, non solo e non tanto dal dolore per la sua scomparsa,
peraltro naturale
considerando l’età e le sue precarie condizioni di salute, quanto per
l’interessante patrimonio che poteva aver cumulato e che avrebbe potuto
far
comodo a tutti assaggiarne una fetta.
Mentre
i presenti passavano in rassegna la vita e le opere dello zio,
l’incrollabile
fede e le benemerenze nel tempo acquisite, con la supervisione attenta
della
perpetua che faceva gli onori di casa, bussava alla porta un tale che
chiedeva
di parlare con un parente del sacerdote morto. Sarino si prestava ad
ascoltarlo
e usciva fuori.
Iniziò
col dire che aveva saputo della morte di don Calogero e che era venuto
a
porgere le sue condoglianze a tutti i parenti in segno di riconoscenza
e
gratitudine verso il sant’uomo per i favori e la protezione che aveva
ricevuto.
Aggiungeva che era un contadino, affittuario di un appezzamento di
terreno di
proprietà della Chiesa, per il quale pagava le tasse del terraggio che
spettavano alla Curia e la decima che, era consuetudine, spettava a don
Calogero,
così come in passato aveva fatto suo padre. Nel timore che potesse
venir meno
la protezione divina, che finora gli aveva consentito di non morire di
fame, chiedeva
quale parente avesse
ereditato il diritto a riscuotere la decima che prima consegnava
all’arciprete.
Sarino
domandava spiegazioni
sul termine
“decima” e il contadino rispondeva che si trattava della decima parte
del
raccolto di un anno che poteva essere grano, oppure ortaggi, legumi o
altro
ancora. Non avendo capito con precisione di cosa si trattasse e
soprattutto
sull’esistenza di questo diritto-dovere, chiedeva il suo indirizzo in
paese e si
riservava di dargli una risposta dopo aver parlato con gli altri
parenti. La
sera stessa chiedeva, ad uno dei suoi zii che faceva il contadino,
informazioni
su questo benedetto balzello.
Suo
zio la sapeva lunga sulla decima perché nel mondo contadino era
tradizione si tramandassero
di generazione in generazione tutte le conoscenze, regole religiose e
usanze
che avevano una qualche attinenza col lavoro in campagna. Cominciò con
la
Bibbia, poi all’epoca dei Romani e infine
passò a Garibaldi di cui conservava un
buon ricordo.
Nella
Bibbia, disse, come in alcune occasioni ci ricordava l’arciprete, la
decima è
descritta come una tassa che gli agricoltori e gli allevatori di
bestiame del
tempo dovevano pagare per sostenere i Leviti e i Sacerdoti. Era anche
un segno
di riconoscenza a Dio dal quale proveniva ogni cosa. Nell’antica Roma
la decima
era una parte del reddito che l’agricoltore doveva pagare all’erario a
titolo
di imposta. Garibaldi, invece, sempre per sentito dire, era ricordato
perché aveva
temporaneamente abolito quella tassa quando
venne a liberare la Sicilia dai Borboni, nel 1860.
Sarino
raccontava allo zio della visita del contadino del giorno prima e di
comune
accordo, consapevoli che più di un diritto si trattava di un abuso
della
credulità popolare, decidevano di riferire, anche se non rispondeva a
verità,
che nel testamento il sacerdote aveva disposto che tutti i contadini
che versavano
la decima erano liberati da questo tributo, compresi anche i futuri
eredi e per
sempre.
Dopo
il funerale, il notaio del paese convocò tutti gli eredi legittimi per
la
lettura del testamento. La perpetua ebbe ampio riconoscimento per i
servigi
resi al prelato ed ereditò la fetta più grossa: La casa, tutto il
mobilio di
pregio e una somma di denaro. Gli altri ebbero un appezzamento di
terreno
ciascuno, di scarso valore ma tutto sommato ritennero di potersi
accontentare
perché, conoscendo
l’abilità della
perpetua nel raggirarsi l’uomo, temevano il peggio.
Questa
era la vita nel piccolo paese di Almesi, dove tutto accadeva alla luce
del
sole, alcuni erano consapevoli di quello che accadeva ma una parte faceva finta di non
vedere, altri di
non sapere e altri ancora di non sentire.
C’era
un formale rispetto per i ruoli di ognuno e un modo di comportarsi
confacente
al proprio stato, come ai tempi di Diocleziano, per cui i figli dei
contadini
dovevano poi fare i contadini e i figli degli operai avviati ad un’arte
o
mestiere che consentisse loro di vivere onestamente. Anche il modo di
vestire
doveva rispettare la classe di appartenenza.
I
preti indossavano la tonaca, celebravano le funzioni ecclesiastiche ma
all’interno
delle mura domestiche, senza essere visti, ritornavano ad essere
uomini, come
gli altri.
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