LA STANZA  di  LUCIANA CAPRETTI
  


Luciana Capretti
 


TEVERE

di Luciana Capretti



Editore:
 Marsilio
Anno edizione: 2014
Pagine: 220 p., Rilegato
  • EAN: 9788831717410


Il nuovo romanzo di Luciana Capretti, Tevere, entra nell'animo di una donna realmente esistita, Clara Faiola, scomparsa a Roma egli anni Settanta.  L'autrice ricostruisce, attraverso le indagini per ritrovarla, l'esistenza di figlia abusata, moglie tradita, madre che sa ancora amare. L’empatia fra la scrittrice e la protagonista caratterizza un libro entra nel cuore del lettore.

Tevere
, il secondo romanzo di Luciana Capretti, è uscito per i tipi di Marsilio a marzo scorso e, nel frattempo, ha percorso molta strada: finalista ai prestigiosi premi Comisso e Dessì, ha sfiorato il Campiello, ma più che altro ha coinvolto i lettori con il passa-parola: il vero segnale del valore autentico di un libro.  L'autrice, giornalista Rai che ha lavorato come corrispondente dagli USA, in questi giorni torna a New York: Tevere è stato presentato lunedì 24 novembre alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University.



Luciana Capretti da giovane

La protagonista di questa sofferta e autentica vicenda esistenziale, Clara Faiola, vissuta in Italia, fra Novara e Roma, dagli anni ’20 ai ’70 del secolo scorso, è entrata nel cuore e nel pensiero di chi l’ha incontrata fra le pagine di questo romanzo e non se n’è più andata.  Si potrebbe dire che Capretti ha ottenuto quanto si era proposta nella nota finale a Tevere là dove afferma: “Questo romanzo è tratto da una storia vera. L’ho scritto per restituire alla protagonista qualcosa, del tanto che le è stato tolto”.  E infatti l’empatia fra la scrittrice e la protagonista è davvero l’elemento che caratterizza il romanzo; Clara è al centro di tutta la storia, lei il suo abisso il suo nulla il suo perdersi e il ritrovarsi; tutti gli altri personaggi sono comprimari che la incontrano, la circondano, la abbracciano anche, lasciandola però sempre sola con la sua paura di vivere. Paura che non da subito ha caratterizzato la sua vita, ribelle anzi e spavalda negli anni giovanili, capace di decisioni ardite e senza ritorno, vita che poi va a sbattere contro il muro della  ”Storia” e ne rimane schiacciata. Quando nella mediocrità borghese dell’ambiente romano, Clara, con alle spalle la sua terra piemontese fatta di fabbriche e di campi da dissodare, si ritrova senza radici, quelle radici  che lei stessa ha voluto estirpare, e vive senza passato (il passato è una zavorra… ), senza una storia da poter condividere con il marito distratto e i due figli adolescenti, allora si perde e si annulla. Quella storia di prima la conosceremo noi lettori, attraverso la trama lenta e ramificata che riporta indietro lo sguardo e lo fissa lontano sugli anni della povertà e della guerra, sulla violenza abituale di un padre manesco, sui soprusi di una società che non riconosce diritti alle donne e su tanto altro ancora.
Di Clara non conosceremo la fine, la potremo supporre, ma conosceremo il “male di vivere” che la avvolge, l’opacità del suo sguardo che si posa indifferente su ciò che la circonda, tranne che sui suoi figli, unica luce nel buio dell’esistere. Di quello sguardo si è accorto il commissario Jozzetti, quasi un alter ego della scrittrice, che indaga ostinatamente sulla scomparsa di Clara e non si rassegna all’oblio che avvolge la protagonista e impegna sé e noi lettori per primi, nella ricerca di una lontana verità. Si potrebbe supporre che Tevere sia un romanzo triste e invece è un romanzo intenso, connotato da uno stile tagliente, immediato, che sorprende con immagini ardite e spiazzanti: quando Clara e Giuseppe, non ancora suo marito, si incontrano e si innamorano “lei lo prendeva sottobraccio e lo ascoltava. Ascoltava e la strada si allungava in vicoli infiniti, in traverse di complicità, in piazze e panchine di risate”; la mamma di Clara, Egle, ormai sfiorita stringe i capelli in una crocchia “sulla nuca arresa” (quanto dolore si concentra su quella “nuca”!); durante la guerra “la città la notte brillava, di stelle scaraventate al suolo, tutto il cosmo giù a illuminare la terra”.
Attraverso capitoli contraddistinti non da numeri, ma da colori, Bianco Giallo Nero, quasi una mappa degli stati d’animo e delle situazioni,  Luciana Capretti racconta, oltre l'invenzione una realtà vera, documentata con rigore, frutto di lunghe e sofferte ricerche che ci restituiscono un mondo e un tempo che abbiamo in parte dimenticati.

Luciana Capretti Tevere   ed. Marsilio   2014




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Luciana Capretti, “Tevere”
Ed. Marsilio, pagg. 220, Euro 17,50

 

 

1975. Roma. Piove. Fa freddo. Una donna esce di casa, ha indosso solo una sottile camicia da notte e un finto pellicciotto. Prende un taxi, si fa portare in una strada dove vede suo marito incontrare l’amante. Sconvolta, scende lungo viale Trastevere finché arriva al fiume. Un’altra donna, una brasiliana che sta lanciando nell’acqua delle rose bianche per adempiere un sorta di magico rito, la vede esitare. Della donna col pellicciotto, Clara Faiola, verranno trovati solo i documenti, stranamente asciutti. Del corpo, nessuna traccia.
Rimase lì, sull’orlo, a lungo. Forse il tempo di un’ora o di una sera o di una notte. Di certo aveva smesso di piovere da parecchio perché si era asciugata con il vento freddo e completamente intirizzita quando sentì la sua voce bisbigliarle Via, devi andare via. Allora si mosse, fece pochi passi sui lastroni grigi verso l’argine, aprì la borsetta, prese le Nazionali il borsellino e la carta di identità e si chinò per posarli con cura all’inizio delle scale che scendevano in acqua. L’acqua era nera e maestosa.
Luciana Capretti ci racconta una storia vera intrecciata alla finzione in questo suo secondo romanzo “Tevere”, proprio come nel precedente “Ghibli” la trama era un miscuglio di invenzione narrativa e di vera storia della sua famiglia, espulsa dalla Libia. E mi colpiscono i due titoli che hanno qualcosa di simile, aria e acqua, il vento del deserto e il fiume di Roma che travolgono il destino dei personaggi. Al posto della scansione temporale di date che c’era in “Ghibli”, tre colori distinguono tempi diversi significativi, memorabili. Giallo, bianco, nero. Oppure nell’ordine inverso, con il bianco sempre nel mezzo, il bianco che è tutti i colori per rappresentare la breve vita felice di coppia di Clara e il marito, il bianco come le lenzuola dei letti d’ospedale, come il camice di dottori e infermiere per l’entrare e uscire di Clara da ospedali e case di cura, dopo i diversi tentativi di suicidio (uno addirittura con la bimba appena nata in braccio), per curare la depressione con la terapia tremenda dell’elettroshock, più devastante ancora della malattia.


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Giallo è il colore dell’enigma, del filone di indagine e di rcerca della donna scomparsa, della trama con il commissario di polizia che si intestardisce nel voler capire che ne sia stato di Clara, perché sia arrivata al punto di disperazione da voler abbandonare tutto, soprattutto quei figli che tanto amava e che la ricambiavano con uguale affetto. Nero è il passato, la giovinezza di Clara a Novara. Nero perché segnato da una tragedia la morte di una sorella, nero perché offuscato dalla grave e debilitante depressione della madre, e poi nero perché erano gli anni del fascio e il padre di Clara era un fascista convinto, orgoglioso di indossare la camicia nera. E Clara si era iscritta al partito, era diventata un’ausiliaria. E sui giornali dell’epoca c’è la traccia da seguire, di quello che è successo e di cui Clara non ha mai parlato a nessuno dopo essere arrivata a Roma, lasciandosi tutto alle spalle, la madre inferma, la sorella minore che l’ha accusata di essere una spia, il padre condannato per crimini di guerra. E lei, Clara, che cosa era successo a Clara? E’ un libro forte e crudele, “Tevere”. Un libro che fa soffrire. E’ un’esplorazione dell’animo femminile, un viaggio nel buio della depressione non quella causata da uno scompenso chimico ma da un male profondo. Quella lasciata da cicatrici che il tempo non può guarire. Anzi, il tempo le manda in suppurazione, ne aggiunge altre dovute all’incomprensione, alle cure sbagliate che aggiungono violenza a violenza già subita. Perché di questo si tratta, in fin dei conti. Violenza, anche se solo psicologica, del padre su una figlia. Violenza carnale quando la donna è una prigioniera di guerra e a lei, solo a lei e non a qualunque uomo che possa aver combattuto schierato al suo fianco, viene inflitto un oltraggio privato solo perché donna. E’ abbastanza per far ritrarre una donna da tutti gli uomini, anche se amati.
Per principio mi rifiuto di festeggiare le ricorrenze che ci sono state imposte- festa della mamma, della donna, del papà, degli innamorati, dei nonni e chi più ne ha più ne metta-, ma avrei parlato volentieri di questo libro, della storia di Clara, nel giorno delle donne. Come forma di protesta, per ricordare che sarebbe meglio denunciare ogni forma di violenza invece di spogliare gli alberi di mimosa.


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