La Jihad delle
donne
Il
femminismo islamico nel mondo occidentale
di
Luciana
Capretti
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Luciana
Capretti è
giornalista e scrittrice. Ha pubblicato romanzi per Rizzoli e Marsilio,
l’ultimo, Tevere, nel 2014 ha vinto il premio Croce. Attualmente lavora
al
Tg2.
L'opera.
E se venisse proprio
dal
mondo musulmano la spinta a superare le secolari discriminazioni nei
confronti
delle donne? E di conseguenza il mondo occidentale fosse costretto a
rivedere
le proprie posizioni critiche nei confronti dell’Islam? Una parte del
mondo
femminile musulmano in Occidente è protagonista di una sfida ai
pregiudizi
religiosi e culturali. Donne che guidano la preghiera, imamah,
teologhe,
storiche, attiviste che combattono la loro personale jihad, la
battaglia per il
riconoscimento di eguaglianza, giustizia e parità fra uomo e donna, in
un mondo
in transizione fra tradizione e posizioni progressiste piú in sintonia
con la loro
vita in Occidente. L’autrice, attraverso una serie di incontri con
le
protagoniste, e di considerazioni storiche e teologiche, ci accompagna
alla
scoperta dell’Islam femminista fra America e Europa.
La jihad delle donne.
Il
femminismo islamico nel mondo occidentale di Luciana Capretti è un
saggio in cui la scrittrice e giornalista del Tg2* racconta la capacità
di molte donne di religione islamica (teologhe, studiose e attiviste,
alcune delle quali imam – imamah al femminile – che guidano la
preghiera in moschee europee e americane) di aver saputo innescare un
processo di modernizzazione senza precedenti.Sono una minoranza che non
si può ignorare o sottovalutare perché il loro approccio critico si
muove all’interno dell’Islam, è sostenuto dalla fede e da studi
approfonditi del Corano.Capretti raccoglie le loro testimonianze e
costruisce un libro capace di raccontare la sfida di cui queste donne
si sono fatte carico per restituire l’Islam alla sua essenza pura e
originale: quella di una religione fondata su giustizia ed eguaglianza
fra uomo e donna.Il
mondo occidentale apre per la prima volta gli occhi sull’islamismo e ne
percepisce la reale esistenza dopo l’attentato al World Trade Center
dell’11 settembre del 2001. Possiamo senza dubbio definirlo un incontro
traumatico che ha prodotto paura e diffidenzaDa allora ogni velo è
stato guardato con sospetto, ogni barba scrutata.Nel 2015, la strage
parigina della redazione di Charlie Hebdo rivendicata dall’Isis ha
prodotto un rafforzamento di quella diffidenza, della paura verso i
musulmani e un processo di immedesimazione con le vittime da far
scrivere a tutte le latitudini del mondo occidentale je suis Charlie.L’inchiesta
condotta da Capretti pone l’attenzione sulla nuova azione femminile e
cosa può produrre per smorzare le tensioni all’interno del mondo
islamico.Il processo manipolatorio che gli integralisti e i terroristi
adoperano per legittimare violenza e stragi agli occhi del mondo arabo
parte da una sbagliata interpretazione del Corano, spesso non lo hanno
letto ma è stato tramandato loro oralmente. Ecco perché la scelta di
usare la parola jihad nel titolo; jihad significa “sfida personale”,
tentativo di superare se stessi mentre gli integralisti hanno lavorato
semanticamente per tradurlo in guerra santa contro la deriva
occidentale.Capretti
è una donna che guarda alle donne come portatrici di buone prassi,
donne di speranza che hanno un approccio aperto e moderno a fronte di
14 secoli di travisamenti e irrigidimenti nei confronti delle stesse
donne e degli occidentali (cristiani e ebrei).La
prima voce protagonista è quella di Amina Wadud, una teologa che dopo
una precedente esperienza tenuta nell’agosto del 1994 alla Claremont
Main Road Mosque di Cape Town in Sud Africa, conduce a New York, il 18
marzo del 2005.
La
salah al-jum’ah, la preghiera del venerdí, davanti a una ummah mista di
fedeli, una comunità di uomini e donne, alla Synod House della
Cattedrale St John the Divine.Occasione grazie alla quale diventa la
prima imamah riconosciuta dei nostri tempi. Wadud parte…dal principio
del tawhíd, l’unicità di Allah, e nella sua rappresentazione tawhid è
un triangolo equilatero metafisico all’interno di un globo, in cui le
relazioni fra i tre elementi sono ugualmente essenziali: Allah il
creatore di tutto, da un lato, un essere umano, in questo caso la
donna, dall’altro e un altro essere umano, l’uomo, dall’altro ancora.
Dal momento che Allah è il creatore, la sua funzione nella triade è
tenere gli altri due punti in una linea orizzontale di eguaglianza
costante.
« Nulla nel testo sacro vieta che una donna conduca la preghiera del
venerdí […] davanti a una ummah mista di fedeli; in nessun punto del
Corano si dice che una donna non possa essere una imamah, né lo dice il
Profeta; e allora perché siamo arrivati a questa situazione? […] Perché
i giuristi hanno dato questo ruolo agli uomini e hanno canonizzato la
pratica. E culturalmente l’Islam e i musulmani operano sulla base di
quello che considerano un precedente storico e il precedente storico di
una donna imamah è minimo.Wadud è consapevole che le accuse ricevute
dagli ortodossi di voler ignorare 14 secoli di storia e tradizione è
legata a…la leadership dell’imam. La teologa insiste su questo punto,
fondamentale nell’Islam, che non ha clero, nessuna frapposizione fra il
fedele e DioSenza trascurare la fisicità dell’atto del pregare cioè la
genuflessione con la fronte che tocca terra poiché ledonne potrebbero
infatti scatenare la fitnah, esercitare in moschea il loro potere di
attrazione sessuale sugli uomini e creare quindi una lotta interna,
cosa molto pericolosa nella tradizione islamica. […] il corpo della
donna visto da dietro potrebbe risultare eccessivamente provocante.In
lei resta la consapevolezza che il cammino è ancora lungo per
de-mascolinizzare l’ambiente delle moschee ma vuole essere parte
dell’inevitabilità del processo.
In Europa a Copenhagen , Sherin Khankan…è la prima imamah danese, ha
appena inaugurato la prima moschea d’Europa diretta da donne per donne,
ma anche uomini.È uno specialista di femminismo islamico e Islam
contemporaneo in Europa e Stati Uniti.
Lei crede fermamente che ci sia bisogno di donne imamah per creare
un’alternativa all’islamismo, porre l’accento sulla democrazia nel
Corano. Nel 2001 ha fondato l’organizzazione Critical Muslim per
sfidare l’islamofobia e diffondere le idee di un Islam pluralista,
basato sul Sufismo, in cui c’è spazio per la leadership femminile. Un
processo grazie al quale, quattordici anni dopo, nel 2015, ha potuto
aprire la prima moschea con donne imam in Europa per sfidare la sua
struttura patriarcale, la monopolizzazione dell’interpretazione del
Corano, sebbene affermi che…
la monopolizzazione maschile è un problema anche delle altre
confessioni monoteiste […] La diffusione dell’Islam femminista non è
solo promozione delle donne,perché anche loro potrebbero promuovere un
Islam tradizionale, ma affermare un Islam progressista.
Per Sherin Khankan essere imamah…
Significa svolgere un ruolo nella società e prendersi cura dello
spirito dei membri della comunità, della ummah. […] È importante che le
donne possano rivolgersi ad altre donne per questioni personali come il
divorzio, la violenza fisica e mentale, la perdita o l’attesa di un
figlio, cose intime di cui una donna preferisce parlare con un’altra
donna e non con un uomo, cosí come di tante cose religiose.
Rebeya Müller è la prima donna imamah in Germania. Negli anni ’90 a
Colonia, ha fondato ZIF, un centro studi per promuovere il messaggio di
un Corano che non fa distinzioni di genere e per divulgarlo più
efficacemente ha fatto rete con altre teologhe e centri femministi
musulmani nel mondo. Ha creato inoltre un progetto pilota chiamato
Muslim 3.0 per prevenire il fenomeno della radicalizzazione tra i
ragazzi, potenziali foreign fighters, promuovendo l’insegnamento dei
principi dell’Islam progressista.
Edina Lekovich lavora nel gabinetto del sindaco di Los Angeles e si
occupa di rapporti interreligiosi, in particolare di collaborazione fra
la comunità musulmana e quella ebraica e svolge il ruolo di imamah
nell’Islamic Center of Southern California che per scelta di Hasna
Maznavi, la sua fondatrice non intende aprirsi a un gruppo misto di
fedeli.
La moschea vuole rimanere il luogo della riflessione femminile […]
secondo la Islamic Shura Council of Southern California due terzi delle
moschee in America hanno una separazione, un muro, una tenda, un
sottoscala, una stanza a parte, dietro la quale sono confinate le
donne, che non possono vedere l’imam, a meno che non sia stato
predisposto un sistema video, e si accontentano di ascoltarne la voce,
magari grazie a un altoparlante, e pregano guardando il muro, dove
potrebbe essere stato appeso un quadro della Ca’bah alla Mecca, per
ispirazione.
Questo ha spinto Hasna insieme alla avvocato Sana Muttalib, la regista
Nia Malika Dixon e la commercialista Zaiba Omar, a dare vita a questa
moschea per sole donne. Il loro è un messaggio chiaro e diretto a
quell’Occidente…che al suo meglio ha raccontato l’Oriente attraverso le
favole di Disney e al suo peggio con gli stereotipi. Le donne musulmane
la loro jihad la vogliono fare da sole, all’interno dell’Islam e con
gli uomini, non contro di loro.
Ani Zonnenveld di Los Angeles è la più trasgressiva delle imamah
raccontate. È la fondatrice del MPV (Muslims for Progressive Values),
un’organizzazione dell’Islam progressista, che tra i suoi principi
fondamentali promuove
l’empowerment of women, l’affermazione delle donne’, anche in ambito
spirituale con la convinzione che puoi essere uomo, donna, trans o
qualsiasi cosa in mezzo, siamo tutti creati uguali da Dio e lo siamo
anche spiritualmente. La diseguaglianza delle donne nella religione è
alla base di tanti comportamenti patriarcali e misogini nella società.
Cosa accomuna tutte queste donne è il percorso ermeneutico e
linguistico; si battono tutte con determinazione e passione per
chiarire e ribadire che il maschilismo nel mondo musulmano non affonda
le sue radici nella Rivelazione ma nella storia, nel contesto sociale
in cui è avvenuta e nell’interpretazione esclusivamente maschile del
Corano, dall’Arabia del VII secolo e per i quattordici secoli
successivi.
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È proprio il Tg2 a proporre a Luciana Capretti un’inchiesta su donne e
Islam. L’autrice sceglie di non raccontare storie di vittime e uomini
prevaricatori, chiedendosi dunque che taglio poter dare al suo lavoro.
Inizia così una ricerca finché non trova un articolo del giornale
britannico The Guardian del febbraio del 2016 in cui si parla
dell’apertura di una moschea a guida femminile a Copenaghen e scopre
che ci sono anche altre donne nel mondo a condurre la stessa battaglia
di modernizzazione dell’Islam.
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