La stanza di Amilcare Angelucci

Amilcare Angelucci

Fadel Zeyan :

una piccola storia del tempo che fu.

di   Amilcare Angelucci

         Alcune settimane fa, presso l’Istituto San Giuseppe, con l’amico Roberto Longo, stavamo imbustando per la spedizione, il notiziario “Oasi 1/2005” fresco di tipografia. Per rendere il lavoro meno monotono e sopportare meglio il freddo (Fratel Gip aveva seguito troppo “rigidamente” i dettami di Fratel Amedeo: “Risparmiare sempre, anche quando non si potrebbe”), tra una busta e l’altra, per evitare di “battere i denti”, abbiamo iniziato a parlare di antiche esperienze di lavoro e di vita dei lontani anni vissuti in terra di Libia. Non ci è voluto molto perché i nostri personali ricordi diventassero mille “flashback”, in ciascuno dei quali un amico, un personaggio o una situazione, non avesse lasciato segni e memorie che, a distanza di decenni, ci accompagnano ancora e che, in qualche modo, hanno arricchito la nostra esistenza.

         La mia piccola storia con Fadel Zeyan, assolutamente semplice, ma assolutamente vera, è appunto uno dei ricordi rimasti intatti nella mia memoria. E’ la storia di un incontro fortuito, che però ha lasciato un piacevole ricordo.

         Negli anni ‘50/’60, quale responsabile della Sezione Impianti Idrici ed Elettrici del Consorzio Agrario della Tripolitania, mi occupavo della importazione e distribuzione di questi materiali. Era una attività che in quegli anni “tirava” al massimo, poiché non vi era azienda agricola piccola o grande che non si dotasse di moderni impianti irrigui a pioggia destinati in gran parte alla coltivazione estensiva delle arachidi che, una volta ammassate, selezionate e confezionate per l’esportazione, prendevano poi la strada dei mercati nord-europei, dove il prodotto libico era molto apprezzato. Si trattava di una attività direi quasi frenetica perché, la sempre crescente domanda del mercato, comportava il conseguente aumento della potenzialità degli impianti irrigui, sicché il mio ufficio era un vero e proprio porto di mare al quale confluivano agricoltori titolari di aziende di ogni dimensione, animati dal solo intento di aumentare sempre più la capacità produttiva dei loro terreni.

         In questo contesto (correvano i primissimi anni ’60), una mattina,  Amer, il commesso che in portineria riceveva i visitatori, (passandoli al setaccio), entrò piuttosto contrariato nel mio ufficio avvertendomi che erano arrivati dal deserto tre vecchi contadini. Non riusciva a capire cosa volessero perché forse, a suo dire, nemmeno loro lo sapevano. Aveva tentato di liquidarli per le vie spicce, ma i tre intendevano assolutamente parlare con il “muandis”, cioè, con un tecnico. Feci accomodare i tre davanti alla mia scrivania, mentre alle loro spalle Amer continuava a scuotere la testa, mostrando di non essere molto convinto della loro sanità mentale.

         Dopo i convenevoli di rito, il primo a parlare, fu il più minuto dei tre: mostrava la carnagione asciutta e scura di coloro cui il sole non fa difetto. Baffetti radi e spioventi ai lati della bocca, tipico barracano bianco che lasciava intravedere le maniche di una giacca sahariana. Restai piacevolmente sorpreso dal suo perfetto italiano, con parole scandite lentamente. Ma ancor più mi meravigliai per il suo discorso, permeato dal buonsenso delle persone semplici e positive.

         Disse di chiamarsi Fadel Zeyan e di essersi messo in viaggio con i suoi due amici partendo dall’oasi di Socna/Hon (circa 300 Km a sud di Sirte, in pieno deserto), affrontando quindi un viaggio lungo e tutt’altro che agevole per quei tempi. Scopo della visita, era quello di trovare una soluzione ad un grosso problema che angustiava la loro vita di vecchi contadini. Precisò che i loro figli avevano lasciato il lavoro dei loro piccoli campi per occupazioni più redditizie nell’industria petrolifera, ed essi non avevano più l’energia di un tempo. Quella che aveva consentito loro di lavorare con l’aiuto di qualche dromedario e qualche somarello, per ore ed ore sotto il sole, per sollevare dal pozzo l’acqua necessaria alle colture dei loro giardini. Erano quindi venuti nella grande città con la certezza che la tecnica e il progresso avrebbero messo a loro disposizione un sistema adatto a procurare l’acqua a loro necessaria, affrancandoli dall’antica fatica di azionare la noria per intere giornate, oltretutto con risultati piuttosto scarsi.

         Altro che matti! Capii subito che quei tre sapevano bene quello che volevano e Fadel lo aveva espresso in termini pacati, molto chiari e soprattutto risoluti perché era ben conscio che, dall’esito della ricerca, dipendeva il loro futuro. Io invece, cominciavo ad avere qualche seria perplessità perché non ero stato messo dietro quella scrivania per risolvere problemi di natura esistenziale quali quelli che mi venivano sottoposti. Piuttosto avevo giornalmente a che fare con concreti quesiti tecnici costituiti da ettari da irrigare, metri cubi d’acqua da sollevare, KW o HP da installare. Il tutto per realizzare immediati scopi speculativi. Avevo avuto la sensazione che non era stato il desiderio di incrementare i profitti a spingere questi tre contadini ad affrontare quel viaggio, ma il timore di dover abbandonare i loro campi.

         Al termine dell’esposizione del problema da parte di Fadel, seguirono alcuni minuti di silenzio, durante i quali, per darmi comunque un contegno, tamburellavo con la mia biro la scrivania, presagendo che la faccenda non fosse comunque di facile soluzione. Ma volevo meritarmi i “galloni” di “Muandis”appena ricevuti.

                I due amici di Fadel, che fino a quel momento, erano rimasti taciturni, limitandosi ad annuire, iniziarono un cicaleccio, evidentemente per dare anche il loro apporto alla discussione. Fadel li ridusse prontamente al silenzio con un secco “oskut, hua el muandis!” che, grosso modo, voleva dire “zitti, è lui il tecnico”. Espressione certamente di stima, chiaramente rivolta a me, ma che nella circostanza finì per aumentare il mio disagio. Infatti, sei occhi erano puntati insistentemente su di me con il tacito ma pressante invito a dare un positivo responso. Ma quello che maggiormente mi preoccupava era l’atmosfera di assoluta fiducia, nel buon esito dell’affare, che i tre amici manifestavano con il loro sereno atteggiamento, mentre io ero più che mai convinto che tale buon esito era tutt’altro che scontato, anzi, dal punto di vista tecnico, la soluzione del caso si presentava, a mio avviso, assolutamente problematica. Dovetti subito scartare l’ipotesi di ricorrere a piccole elettropompe da mezzo HP (ne avevamo vendute a centinaia con pieno successo, nei piccoli orti/giardini della Menscia tripolina) poiché la zona di residenza dei nostri tre amici non era a quel tempo servita da energia elettrica. Questa circostanza era già di per sé un grave handicap alla soluzione del problema. Egualmente da scartare era l’ipotesi di fornire, per così piccole realtà, gruppi elettrogeni, sia per la complessità di installazione in una località oltretutto così distante dalla sfera operativa del Consorzio Agrario, sia per le difficoltà di esercizio e di manutenzione di macchine di questo tipo, alquanto complesse e delicate. Inoltre, l’ipotesi appariva comunque assolutamente inadeguata ed ingiustificata per l’elevato costo che tale soluzione avrebbe comportato. Per quanto mi spremessi le meningi, non intravedevo come venir fuori dall’impasse, ovviamente con mio grande disappunto.

         Mentre rincorrevo tali pensieri, sempre sotto lo sguardo divenuto serio dei miei interlocutori, quasi che avessero percepito il mio disagio, mi resi conto che, allo stato, non esisteva alcuna pratica possibilità di dare uno sbocco positivo a questo affare. Ma come dirlo a chi aveva affrontato fatica e disagi notevoli? Con quali motivazioni e con quali parole il “Muandis” avrebbe dovuto comunicare l’impossibilità di risolvere il problema facendo così  crollare di colpo speranze e certezze che apparivano a portata di mano? Mentre continuavo ad infierire sulla mia povera biro, cominciai a schiarirmi la gola per imbastire un discorso che doveva inevitabilmente iniziare con un desolante “Purtroppo ……”

         Io mi chiamo Amilcare e non ho il pregio di avere un Santo protettore di questo stesso nome in calendario. Ma mentre ero in preda a questi pensieri, un qualche altro Santo, forse quello che tutela i buoni raccolti, deve avermi bisbigliato all’orecchio: “Svegliati…”Muandis”… non ti ricordi delle Slanzi?”

Slanzi? Ma sì, sì, le piccole motopompe che avevamo importato qualche anno addietro da quella antica fabbrica proprio per sopperire alle più modeste esigenze idriche di piccoli poderi, ma che non avevano poi avuto pratico impiego in Tripolitania perché di esigua potenza (un paio di HP) e che comunque erano state agevolmente soppiantate dalle più economiche, semplici e pratiche elettropompe. In effetti, si trattava di materiale di cui non se ne parlava più da anni. In un lampo ricordai che erano dei piccoli gruppi motopompa barellati, quindi di facile maneggevolezza e non bisognosi di basamento. Con piccoli motori a scoppio ben protetti per climi tropicali e con pompe centrifughe autoadescanti, erano provviste di tubazione di gomma sia di aspirazione che di mandata sicché il loro funzionamento non necessitava di alcun altro allestimento. Era il classico “cacio sui maccheroni”, o siccome sto parlando di arachidi, di “cacawuia sul tè”.  Nulla di meglio avrebbe potuto soddisfare le aspettative dei miei tre interlocutori. Ma, mi chiedevo, come non averci pensato prima? Picchiandomi la cornetta del telefono sulla zucca, interpellai il magazzino. Come prevedevo, le motopompe erano ancora tutte lì, impolverate, ma disponibili per una loro onorevole e finalmente utile collocazione.

         Piuttosto eccitato, spiegai in poche parole al buon Fadel che, sia pure per vie inspiegabili, ci era piombato addosso un vero colpo di fortuna, ma lui non si scompose più di tanto: non aveva mai  avuto alcun dubbio sul buon esito della faccenda. Era andato o no da un vero “Muandis”?  Un po’ perplesso, mi guardai bene dal fare altri commenti. Accompagnai i tre amici in Ragioneria per il disbrigo delle incombenze amministrative relative alla vendita del materiale. Consegnammo le motopompe ai nuovi proprietari, con le raccomandazioni d’uso per la loro corretta manutenzione, quindi ci salutammo come amici di vecchia data perché, in quell’ora che era più o meno trascorsa tra le loro certezze e le mie perplessità, era avvenuto forse qualcosa di più che un casuale incontro d’affari.

         Non rividi più Fadel, né i suoi amici, uno dei quali, Muktar Magini El Huni, seppi più tardi essere stato eletto membro del Parlamento libico.

         Dopo alcuni mesi, qualche giorno prima del Natale di quell’anno, ritornando a casa dal lavoro, mia madre mi avvertì che un giovanotto, qualificatosi autista, aveva consegnato un pacchetto per me. Era un pacchetto che mostrava di essere stato confezionato con molta cura. Riportava il mio nome scritto con grafia piuttosto incerta e mi chiedevo chi fosse il mittente.  Spostando gli abbondanti legacci, riuscii a decifrare sul retro un nome: Fadel. Certamente fu grande la mia sorpresa e ancora oggi resta per me un mistero come Fadel abbia saputo dove e come rintracciarmi.

         Aprii il pacco e, dentro una scatola di cartone opportunamente foderata di carta velina, apparvero allineati con molta cura i biondi datteri “dikla”, il rinomato frutto delle oasi dell’entroterra, varietà difficilmente reperibile a quel tempo in città, assolutamente trasparenti e genuini. Certamente non sottoposti a trattamenti vari, come quelli che oggi troviamo nei nostri supermercati, sotto la stessa forse abusata denominazione.

         Sono passati diversi decenni da quando questi fatti ebbero luogo, ma ricorderò sempre con un po’ di nostalgia e molta  simpatia, questo gesto semplice di una persona certamente dotata di grande sensibilità, che voleva ricordarmi con gratitudine e farsi ricordare. Era anche la conferma che le aspirazioni dei miei tre amici si erano realizzate con successo, per il fortuito intervento della buona sorte, di cui io ero stato semplice intermediario. L’arrivo del pacchetto con i “dikla”si ripeté puntualmente per tutti i successivi Natali che io trascorsi a Tripoli, portandomi ogni volta da un luogo così remoto, il gusto dolce della buona amicizia e il sentimento raro della vera riconoscenza.

              Tra i tanti regali che ricevevo a Natale, il pacchetto dei “dikla” era, infatti, uno dei più graditi.

        

    Amilcare Angelucci